domenica 18 gennaio 2015

Alfano smentisce Alfano sul bomb jammer: “Non è pericoloso”. - Giuseppe Pipitone



La risposta del sottosegretario del ministero della Difesa al senatore del M5S Maurizio Santangelo: “Il dispositivo antibomba emetterebbe radiazioni non ionizzanti pienamente nella norma”. Dichiarazione che sconfessa la posizione del ministro dell’Interno: “Installato sulla macchina di Di Matteo, disattiverebbe le apparecchiature di un ospedale o il pacemaker di un anziano per strada”.


Stesso partito, Nuovo Centro Destra, stesso cognome,Alfano, e due dichiarazioni opposte sul bomb jammer, il dispositivo elettronico in grado di disinnescare i telecomandi che azionano gli ordigni esplosivi. Dal Viminale sentenzia il ministro dell’Interno Angelino Alfano: ‘‘Si è parlato con troppa superficialità di bomb jammer: è un dispositivo che si usa soprattutto nei teatri di guerra o in casi specifici. Nessuno può immaginare che se passa la macchina di Di Matteo si disattivino le apparecchiature di un ospedale o il pacemaker di un anziano per strada”. Dal Senato arriva la risposta del sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano:”Le tipologie di disturbatori (denominati, appunto, jammers) impiegati dai militari italiani nei teatri operativi (incluso l’Afghanistan), sono di media e piccola capacità” . E ancora: ”i sistemi non nuocciono assolutamente alla salute delle persone (operatori ed estranei), grazie alla potenza limitata”. Eppure il dispositivo antibomba, quello che gli agenti di scorta di Nino Di Matteo, il pm condannato a morte da Cosa nostra, ritengono ”l’unico strumento che potrebbe salvare la vita al magistrato”, non arriva.
Non è arrivato dopo le esternazioni di Totò Riina, che dal carcere di Opera ha manifestato al compagno di ora d’aria Alberto Lorusso la sua volontà di affrettare l’attentato a Di Matteo, di ”farlo subito” quel botto, per levarsi il pensiero. E non arriva neppure dopo le ultime le rivelazioni del neo pentito Vito Galatolo che ha svelato i dettagli del piano di morte per Di Matteo, programmato in una prima fase proprio con un autobomba da piazzare nei pressi del palazzo di Giustizia. “Il bomb jammer per Di Matteo? E’ già stato messo a disposizione” diceva nel dicembre del 2013 il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Poi nel novembre del 2014, è arrivata la marcia indietro. Secondo l’uomo del Viminale, il jammer è dannoso per le apparecchiature ospedaliere, per i peacemaker per le donne incinte: ”Il bomb jammer è dotato di una forte potenza elettromagnetica, può produrre effetti collaterali molto significativi alla salute e, quindi, è assolutamente da studiare”. Ma rispondendo ad un’interrogazione parlamentare depositata dal senatore del M5S Vincenzo Santangelo nella quarta commissione permanente di Palazzo Madama, il  sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano, smentisce: il bomb jammer emetterebbe “radiazioni non ionizzanti pienamente nella norma”. E ancora:”Le tipologie di disturbatori (denominati, appunto, jammers)impiegati dai militari italiani nei teatri operativi (incluso l’Afghanistan), sono di media e piccola capacità”. E per finire: ”i sistemi non nuocciono assolutamente alla salute delle persone (operatori ed estranei), grazie alla potenza limitata. In ogni caso, prima dell’uso degli apparati vengono condotti, come detto, studi approfonditi, e, successivamente, le stesse apparecchiature vengono sottoposte a rigide verifiche periodiche”.
Quali studi?  E qui il sottosegretario scende nei dettagli, spiegando come sarebbe stato dimostrato dagli specialisti che l’utilizzo del dispositivo antibomba non nuocerebbe alla salute. “L’iter di acquisizione delle apparecchiature da parte delle competenti articolazioni della Difesa prevede, inoltre, l’effettuazione di specifiche misure e rilievi idonee a valutare se i livelli di campo elettromagnetico emessi dagli apparati possano comportare rischi per gli operatori o per la popolazione alle esposizioni delle radiazioni non ionizzanti. In particolare, le ultime prove per l’omologazione dei sistemi sono state effettuate presso il Centro interforze studi e applicazioni militari  di San Piero a Grado (in provincia di Pisa), e hanno evidenziato valori inferiori a quelli di soglia previsti dalle norme vigenti in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” si legge nella risposta del sottosegretario Alfano al senatore Santangelo. Quegli studi e approfondimenti auspicati dal ministro dell’ Interno non solo sarebbero stati ultimati ma avrebbero dato esito positivo: il bomb jammer si può utilizzare. Resta da capire perché non sia ancora stato messo a disposizione di Di Matteo.

Franco svizzero, la sottile linea tra protezione e bolla speculativa. - Alberto Bagnai

La decisione della Banca Nazionale Svizzera (BNS) di sganciare il franco dall’euro, determinandone un brusco rincaro, ha colto tutti di sorpresa. Gli industriali svizzeri già se ne lamentano: per valutare il significato di questa mossa è quindi utile ricordarne motivazioni e conseguenze.
Già a fine 2008 lo sconquasso causato dalla Lehman Brothers aveva spinto al rialzo la valuta svizzera, classico “bene rifugio”. Dopo una fase di relativa stabilità, nel 2010 lo scoppio della crisi dei debiti sovrani, che sembrava minacciare la sopravvivenza dell’euro, aveva alimentato gli acquisti di franchi, facendogli guadagnare un ulteriore 18 per cento fino all’autunno del 2011. 
Nata come operazione difensiva, l’acquisto di franchi stava diventando una vera e propria bolla speculativa (la situazione in cui gli investitori acquistano uno strumento finanziario solo perché si aspettano che il prezzo salga, e domandandolo contribuiscono a farne crescere il prezzo, convalidando così le proprie aspettative).
Con buona pace di chi vede nella Svizzera solo un paradiso fiscale, l’incidenza del manifatturiero sul valore aggiunto è più alta in Svizzera che in Italia (rispettivamente, 19 per cento e 15 per cento del valore aggiunto totale). Escludendo chi vede nella svalutazione una piaga biblica sempre e comunque, sarà facile agli altri capire che all’industria svizzera un franco così alto non faceva comodo, perché penalizzava le esportazioni. Da qui la decisione di arrestarne l’ascesa al livello di 0.80 euro per franco.
La situazione si è mantenuta stabile fino giovedì. L’annuncio della BNS che non avrebbe più “difeso” la parità ha spinto in apertura il franco ad apprezzarsi del 25 per cento sull’euro, per poi stabilizzarsi intorno a 0.96 euro per franco. Il fatto è che il mantenimento della parità, se da un lato tutelava le imprese svizzere, dall’altro aveva conseguenze negative sulla composizione del portafoglio di investimenti esteri del paese.  
Per mantenere il cambio stabile, la BNS doveva soddisfare la domanda di franchi, vendendoli in cambio di dollari ed euro. La Svizzera si era così trovata ad avere uno stock di riserve ufficiali spropositato, classificandosi quarta dopo Giappone, Cina e Arabia Saudita (paesi esportatori di ben altre dimensioni), con un rapporto riserve/Pil vicino all’80 per cento (negli altri paesi avanzati questo rapporto normalmente è a una cifra).
Nell’economia generale di un paese essere così ricchi di valute pregiate (o supposte tali) non è una cosa così buona come sembra, perché l’investimento in valute è meno redditizio di altri investimenti esteri. Inoltre, restando agganciato all’euro il franco ne stava condividendo il triste destino nei confronti del dollaro, perdendo quasi il 15 per cento rispetto a quest’ultimo nell’ultimo anno.  
Si sostiene, credo con fondamento, che la BNS abbia voluto anticipare gli effetti del quantitative easing di Draghi, il programma di acquisto di titoli di Stato che ci si attende contribuisca a un ulteriore indebolimento dell’euro rispetto al dollaro. Le conseguenze sarebbero state una ulteriore flessione rispetto al dollaro (che avrebbe compromesso lo status di valuta “forte” del franco), e un’ulteriore fuga dall’euro verso il franco (che avrebbe costretto la BNS a imbottirsi ulteriormente di una valuta come l’euro, soggetta a una tendenza ribassista, e forse, chissà, a rischio di estinzione).
L’improvviso rincaro del franco è un segnale che dovrebbe scongiurare queste due eventualità. Sarà interessante seguire la vicenda.

Fiat Chrysler, Marchionne si fa la banca. Così potrà chiedere soldi a Draghi.

Fiat Chrysler, Marchionne si fa la banca. Così potrà chiedere soldi a Draghi

Fca Bank, partecipata al 50% dai francesi di Crédit Agricole, ha ottenuto la licenza dalla Banca d'Italia il 14 gennaio. Potrà partecipare alle aste di liquidità a tassi super agevolati dello 0,15% che la Banca centrale europea riserva agli istituti di credito.

Dopo il prestito obbligazionario da 2,5 miliardi, la vendita di 100 milioni di azioni e la decisione di incamerare 2,25 miliardi di cassa di Ferrari, ora Sergio Marchionne cerca di racimolare risorse anche facendosi una banca “in house”. Il 14 gennaio è stata infatti registrata nell’albo degli intermediari finanziari Fca Bank spa, frutto di una joint venture tra Fca Italy e CA Consumer Finance, che fa capo a Crédit Agricole. L’obiettivo è evidente: abbeverarsi alle aste di liquidità a tassi super agevolati dello 0,15% che la Banca centrale europea riserva, appunto, agli istituti di credito. All’ultima tranche, quella di dicembre, le banche italiane hanno ricevuto circa 26 miliardi. Mentre nella precedente tornata di prestiti a lungo termine concessi dall’Eurotower, quella del 2011 e 2012, si erano assicurate circa 250 miliardi. Un piatto ricchissimo che ha evidentemente ingolosito l’amministratore delegato di Fca e la famiglia Agnelli, la cui holding Exor è socia del gruppo con il 30,05 per cento.
Di conseguenza, a fine 2013 Fca ha fatto domanda a via Nazionale per trasformare la finanziaria Fga Capital - anch’essa partecipata al 50% dal gruppo francese Crédit Agricole e specializzata in finanziamenti e leasing ai clienti del gruppo – in un vero e proprio istituto di credito. Che, avendo ottenuto la licenza bancaria in Italia, diventa la holding di un gruppo bancario internazionale presente in 16 Paesi europei. E potrà diversificare le attività: fare raccolta diretta, concedere prestiti slegati dalla vendita di auto e pure far fronte alle esigenze di Fca, gravata attualmente da oltre 11 miliardi di debiti.
La nascita di Fca Bank, si legge in una nota del gruppo, “costituisce un punto d’arrivo nella naturale evoluzione del percorso iniziato 90 anni fa, con la nascita nel 1925 a Torino di Sava (Società Anonima Vendita Automobili), prima società finanziaria concepita per aiutare le famiglie italiane nell’acquisto di un’automobile”. Essere diventata banca consente a Fca Bank – si legge ancora – “di esprimere un’immagine di maggiore solidità nei confronti degli investitori internazionali, cogliendo con maggiore efficacia le opportunità di diversificazione delle fonti di finanziamento, migliorando ulteriormente l’offerta ai propri clienti rispetto a oggi”. Fca Bank “proseguirà nel supporto alla vendita di autovetture e di veicoli commerciali di numerosi marchi, primi fra tutti quelli di Fiat Chrysler Automobiles, attraverso la gestione di attività di finanziamento alla clientela finale e alla rete dei concessionari, nonché con la promozione di soluzioni assicurative e di attività di locazione di lunga durata delle flotte di autoveicoli”, conclude la nota.

Panzerotti pugliesi.




Fatti in casa sono ancora più buoni. 
Ingredienti:

per l'impasto: 
-1 kg di Farina (meglio se una metà è di semola rimacinata) 
-1 Lievito di Birra (meglio se lievito naturale essiccato) - 
400 ml di acqua -sale (q.b.) -1 cucchiaino di zucchero. 

per il ripieno: 
- 400 gr. di mozzarelle (meglio le trecce di mozzarelle già secche), 
- polpa di pomodori a pezzetti, 
- un pizzico di pepe, 
- parmigiano (quanto basta). 

Prima fase di preparazione: 
- riscaldare dell'acqua in un pentolino con un pò di sale. 
- Disporre la farina in una coppa con un cucchiaino di zucchero, versare l'acqua riscaldata facendovi sciogliere il lievito di birra. 
- Cominciare quindi ad impastare e, se necessario, di tanto in tanto, bagnare con acqua calda l'impasto per amalgamare il tutto. 
- Lavorarlo fino ad ottenere un impasto compatto e morbido, coprire la coppa con un panno e mettere a lievitare al caldo per un paio d'ore. 

Trascorse 2-3 ore, lavorare l'impasto per formare un lungo cordone; tagliarlo in pezzi più o meno uguali in dimensione, in modo che si possa dar loro la forma di palline (meno grandi di una palla da tennis). 
Porre successivamente queste ultime su un tavoliere e coprirle con un panno: lasciar lievitare ancora per un'ora. Nel frattempo procedere alla preparazione del condimento unendo pomodoro, mozzarella a pezzettini, un giro di sale, parmigiano e pepe in una ciotola e mescolare il tutto. 
Stendere allora le palline di impasto con un mattarello, formando dei cerchi, su cui, con un cucchiaio, porre il ripieno. Richiudere con molta attenzione il panzerotto con una forte pressione delle mani (spesso si utilizzano i denti delle forchette) sui bordi. 
Riscaldare quindi l'olio, e cucinare in olio bollente i panzerotti ottenuti. BUON APPETITO!!!

Celestina Romito

https://www.facebook.com/1438029856464276/photos/a.1438031556464106.1073741828.1438029856464276/1522352604698667/?type=1&theater

sabato 17 gennaio 2015

Primarie Liguria, l’ombra della mafia sul voto per la corsa alla Regione. - Ferruccio Sansa

Primarie Liguria, l’ombra della mafia sul voto per la corsa alla Regione

“Ho visto arrivare una quarantina di persone in gruppo. Erano tutti siciliani, tra i 50 e 70 anni. Mi hanno chiesto ‘è qui che si paga?’", ha raccontato Walter Rapetti, il presidente di seggio a Certosa. Blitz della Digos nella sede del Pd genovese: chiesto l'elenco dei votanti.

La Digos che entra nella sede del Pd genovese e chiede l’elenco dei votanti alle primarie. Gli uomini dello Sco dei carabinieri che vanno nella sezione del quartiere Certosa e ascoltano il presidente di seggio. La Direzione Distrettuale Antimafia di Genova che vuole vederci chiaro. Il segretario provinciale di Savona che presenta esposti in procura. Il castello delle primarie liguri del Pd rischia di crollare. Con due soluzioni – entrambe traumatiche – all’orizzonte: l’annullamento delle primarie o la conferma con immediato rischio di scissione. “Che amarezza”, spalanca le braccia il segretario provinciale di Genova, Alessandro Terrile, appena consegnate le carte alla Digos, “non era mai successo”.
Raffaella Paita alza già i calici. L’ha detto più volte: “Le primarie valgono più delle regionali”. Ma adesso si trova davanti due ostacoli. Il giudizio dei Garanti Pd, previsto per oggi, sulla regolarità del voto. Ma soprattutto l’interessamento di almeno due Procure sullo svolgimento delle primarie. Ora tocca a Genova. E non a investigatori qualunque. Ma a quelli che si occupano di mafia. Già, perché sulle primarie Pd si allunga anche l’ombra della criminalità organizzata. Sono stati gli stessi dirigenti Pd a denunciarlo. In due casi particolari: prima di tutto a Certosa. Parliamo di un quartiere che a Genova è soprannominato la “piccola Riesi”, perché qui è massiccia l’immigrazione dalla cittadina siciliana. E qui sono forti le infiltrazioni mafiose. Ecco cosa ha riferito Walter Rapetti, il presidente di seggio: “Ho visto arrivare una quarantina di persone in gruppo. Erano tutti siciliani, tra i 50 e 70 anni. Sembravano spaesati, non sapevano nemmeno cosa fossero le primarie. Mi hanno chiesto ‘è qui che si paga?’. La scena era surreale. Quelli hanno firmato e se ne sono andati. Senza votare. Li ho fermati e mi hanno detto: ‘Votare? Cos’è la scheda?”.
Non solo: un militante di Sel avrebbe riconosciuto un ex consigliere comunale Idv (già indagato con l’accusa di aver raccolto firme taroccate a favore dello schieramento di Claudio Burlando nel 2010) che a Certosa organizzava “plotoni” di votanti. L’interessato, intervistato dal Fatto, smentisce. Com’è finita? “Cofferati 241 voti, Paita 95, ma pensavamo pigliasse meno”, raccontano rappresentanti Pd.
A Savona, il segretario provinciale Fulvio Briano ha presentato un esposto in Procura. I pm stanno già lavorando, soprattutto sull’ipotesi di versamenti di denaro effettuati per convincere la gente a votare. La Procura sta studiando quanto acquisito ad Albenga e Pietra Ligure, dove Paita ha sgominato Cofferati sfiorando il 90%. Due comuni dove il rapporto tra politica, affari e figure al centro di inchieste è noto. “Ad Albenga abbiamo fotografie di incontri tra esponenti del centrosinistra e soggetti condannati per reati gravissimi”, punta il dito Christian Abbondanza della Casa della Legalità. Ma Paita e il marito – il presidente del Porto di Genova, Luigi Merlo – sono già stati in passato al centro di polemiche sui loro rapporti con personaggi al centro di inchieste. Niente di illegale, ma Paita nelle settimane precedenti alle primarie ha ricevuto l’appoggio di quell’Alessio Saso, oggi Ncd, così definito dagli stessi vertici Pd: “Oltre a essere un ex esponente diAn, Saso è indagato (voto di scambio, ndr) nell’inchiesta Maglio 3 sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel Ponente”. Toccò poi a un altro sponsor scomodo: Eugenio Minasso, anche lui Ncd, in passato fotografato mentre festeggia l’elezione in Regione con famiglie calabresi al centro di inchieste.
Non solo. Già due anni fa, il Fatto riportò le intercettazioni di colloqui avvenuti tra Luigi Merlo (il marito della candidata Pd) e un imprenditore calabrese che in Liguria ha il monopolio degli appalti pubblici in materia di scavi e movimenti terra. Quel Gino Mamone che nelle informative del 2008 per l’inchiesta  Mensopoli veniva così definito dagli investigatori: “Il tenore delle conversazioni intercettate ha evidenziato collegamenti di Gino Mamone sia con il mondo politico sia con il mondo delle cosche calabresi. Egli potrebbe rappresentare il punto di contatto tra i due mondi”.
Il 22 maggio 2007, Merlo inviò a Mamone un sms per caldeggiare l’appoggio elettorale ad Andrea Stretti attuale assessore alla Politiche sociali di La Spezia. “Caro Gino – scriveva Merlo – se hai qualcuno a Spezia ti sarei grato se facessi votare Andrea Stretti”. Immediata la risposta di Mamone: “Ti lascio due numeri di telefono dei miei ragazzi (…) questi conoscono mezzo mondo”.
Parliamo di quel Mamone che nelle intercettazioni dice: “Noi ci siamo con quei settemila voti, non uno, noi tutti i calabresi, qua a Genova ce li gestiamo noi”. Mamone, mai indagato per mafia, che è stato però arrestato per appalti pubblici da oltre dieci milioni di euro. Anche per le alluvioni che flagellano la Liguria. Mamone infine che al telefono dice: “Gli viene il cagotto a Burlandino”, lasciando intendere, sostengono i pm, che potrebbe avere l’intenzione di ricattare il governatore della Liguria, Claudio Burlando, Pd, il grande sponsor di Paita. Il vero vincitore delle primarie.
Chissà a quali conclusioni arriveranno gli investigatori. E anche i garanti del Pd che oggi decideranno sull’esito delle primarie. La presidente del comitato, Fernanda Contri (Pd), ha ottenuto incarichi di prestigio da Merlo, marito di Paita.

Enasarco: Il M5S tutela le pensioni dei professionisti e delle partite IVA. - Roberta Lombardi



"La Bicamerale sulla attività degli Enti gestori della previdenza e dell’assistenza ha deliberato, su input del M5S, di chiedere ai ministeri del Lavoro e dell’Economia il commissariamento di Enasarco
E’ una nostra vittoria importante, un primo passo verso una riforma complessiva delle casse pensionistiche privatizzate.
Enasarco, l’ente previdenziale degli agenti di commercio, ha scommesso i soldi delle pensioni degli iscritti nella roulette russa della finanza spericolata e dei derivati. Ha provato a coprire i buchi con artifici contabili e con una gestione del patrimonio immobiliare che ha calpestato le prerogative degli inquilini. Il M5S segue questa vicenda da quasi due anni e nell’ultima audizione, in Commissione, della Fondazione Enasarco avevamo presentato formale richiesta di commissariamento dell’ente, fornendo un approfondimento sui bilanci Enasarco e sulle procedure di autorizzazione dei conferimenti del suo patrimonio immobiliare.
l lavoro che è stato fatto, attraverso il capillare controllo di ogni documento fornito (oppure omesso) da chi aveva il dovere di porre all’attenzione della commissione Enti gestori la documentazione richiesta (chi aveva il dovere di vigilare sull’Ente), ha portato alla convinzione che obbligo morale, politico e giuridico del MoVimento 5 Stelle sia far rilevare come risultino più che sufficienti i presupposti per il commissariamento della Fondazione Enasarco.
Dal luglio 2013 abbiamo presentato interrogazioni, interpellanze urgenti, mozioni, inviato lettere ai ministri competenti e chiesto a tutti gli organi di vigilanza documentazione per fare chiarezza. Tutto ciò mentre la Fondazione Enasarco diceva che “va tutto bene, è tutto a posto ed i ministeri hanno sempre controllato”.
Ma non ci siamo fermati e abbiamo continuato a lavorare. Alcuni risultati sono arrivati con dei cambiamenti significativi all’interno dei ministeri, che hanno provocato la sostituzione di alcuni dirigenti punti cardine della vigilanza.


Negli ultimi mesi del 2014, precisamente il 14 ottobre, abbiamo inviato una primo esposto alla Banca d’Italia e alla Consob. Successivamente, il 17 dicembre, abbiamo richiesto appunto il commissariamento alla bicamerale Enti gestori e il 24 dicembre abbiamo presentato una nuovo esposto alla Covip e alla Corte dei Conti, ma contemporaneamente abbiamo inviato richiesta di commissariamento ai ministeri competenti. Infine, il 14 gennaio ecco nuovo esposto del MoVimento alla Banca D’Italia e alla Consob.
Il M5S ha puntato sull’immediata sospensione delle dismissioni immobiliari Enasarco e sulla vendita degli appartamenti residenziali. Inoltre, riteniamo che il commissariamento sia la prima cosa da fare assieme alla costituzione di un comitato per la valutazione indipendente degli asset, finanziari ed immobiliari, sospendendo tutti i processi in corso di implementazione.
Il M5S crede che la vigilanza vada poi concentrata presso un unico soggetto istituzionale, con responsabilità precise e penetranti poteri di ispezione. Serve una gestione oculata degli asset e una diversificazione che riduca i rischi. In più è necessaria una definizione normativa univoca di questi soggetti, che non possono più essere degli ircocervi metà pubblici e metà privati. Le casse pensionistiche, infatti, vanno riportate in toto nell’alveo della previdenza pubblica.
La richiesta di commissariamento di Enasarco è un primo passo per tutelare le pensioni dei professionisti, delle partite Iva e gli inquilini degli immobili delle Casse.
Tanti altri ne faremo insieme…in alto i cuori!" 


http://www.beppegrillo.it/2015/01/enasarco_il_m5s_tutela_le_pensioni_dei_professionisti_e_delle_partite_iva.html

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. - Thomas Mackinson

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa

Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi.

Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
La mappa anche le guardie fanno i ladriPillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA.
Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università.
Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie?
La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”.
La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.
Una macchina senza benzina. Che non va avanti
Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”.
A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.
L’authority chiama in causa la politica
Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.
Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza
Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni. L’indirizzo è whistleblowing@anticorruzione.it.