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mercoledì 24 febbraio 2021

Ecco perché è nato il governo Draghi: Gentiloni “confessa.” - Wanda Marra e Marco Palombi

 

Garante per i rigoristi - Con l’ex Bce l’Italia farà le riforme europee, ma (un po’) meno austerità. Le partite di Mr Ue: nomine, Colle, soldi.

Paolo Gentiloni ha avuto un ruolo determinante nel passaggio dal governo Conte-2 a quello di Mario Draghi: è evidente dalle sue mosse negli ultimi mesi, dalle nomine nel nuovo esecutivo e, ora, anche dalle sue parole. In una lunga intervista rilasciata ieri a La Stampa il commissario Ue chiarisce perché l’ex presidente della Bce è a Palazzo Chigi e per fare cosa. Partiamo proprio da qui: la recessione innescata dal Covid, com’è noto, non ha paragoni in tempo di pace e ora bisogna stare attenti a “evitare gli errori fatti nella crisi del 2008 e non tarpare le ali alla ripresa”, eliminando gli aiuti troppo presto. In particolare, dice Gentiloni, “nelle prossime settimane decideremo (a livello europeo, ndr) se e come prolungare il congelamento del Patto di Stabilità, mentre nei prossimi mesi avvieremo una riflessione cruciale su come ricalibrarlo”.

Tradotto: l’Italia deve evitare in ogni modo che tornino i vecchi vincoli di bilancio che ci costringerebbero a fare forti avanzi primari (austerità) fin dal 2023. Il governo Conte – è il ragionamento – non dava abbastanza garanzie ai rigoristi del Nord Europa: “Un’Italia finalmente virtuosa può spostare gli equilibri interni all’Ue”, essendo “più concentrata sulle riforme strutturali per una crescita sostenibile e meno disattenta alla dinamica del debito” (si tratterebbe, par di capire, di fare da soli quel che dice Bruxelles per evitare che ce lo chiedano dopo). Al di là di questo, Draghi – sempre secondo Gentiloni – dà maggiori garanzie sulla collocazione internazionale dell’Italia, insomma piace di più agli Usa: “Il governo Draghi è fortemente atlantista ed europeista”, mentre Conte da premier gialloverde aveva “avuto alcune gravi sbandate. Il nuovo governo ha ora le carte in regola non solo per farsi accettare, ma anche per farsi valere in Europa. Una differenza notevole”. Per non fare che un esempio, “l’atlantismo” di Draghi conterà assai su una partita come quella del 5G, centrale nel Recovery Plan, che gli americani vogliono “depurare” della presenza cinese: le deleghe sul tema a Giancarlo Giorgetti e Vittorio Colao – che Gentiloni già “impose” a Conte ai tempi della famigerata task force – sono una garanzia per Washington.

Questa sorta di “confessione” di Gentiloni permette di rileggere in controluce le mosse del commissario europeo dalla fine dell’anno scorso: attento a non sbilanciarsi, Gentiloni ha fatto da sponda all’operazione Draghi, disseminando segnali più forti via via che Conte si indeboliva. D’altra parte, Gentiloni e Draghi si conoscono da tempo e sono tra i principali punti di riferimento (informali) di Sergio Mattarella su quanto si muove sullo scenario internazionale. Era ancora novembre quando il Corriere pubblicò stralci di un documento del capo di gabinetto di Gentiloni, Marco Buti, che insisteva sulla necessità di una cabina di regia per il Recovery Plan, ma esprimeva anche una serie di preoccupazioni sulle fragilità italiane. Due giorni dopo, il commissario Ue smentiva ritardi del nostro paese. Una sorta di gioco delle parti che, comunque, puntava i riflettori sulla gestione dei fondi da parte di Conte.

Nei due mesi successivi, Gentiloni ha buttato lì i suoi timori sulla situazione italiana, senza attaccare mai Conte. Il 29 dicembre a Repubblica, Gentiloni esprimeva preoccupazione per la “qualità” del Recovery Plan italiano e sulla capacità di attuarlo, invocando procedure straordinarie; all’Eurogruppo del 18 gennaio esprimeva l’esigenza di un suo rafforzamento con obiettivi e riforme. Intanto in Italia, la linea del commissario europeo era quella di Luigi Zanda, stavolta distante sia dal suo capo-corrente Franceschini che dal segretario Zingaretti: il 3 gennaio invitava Conte ad affrontare “le fratture” aperte da Renzi; il 17 – mentre il Pd si attestava sulla linea “o Conte o voto” – si esprimeva contro le elezioni; il 1° febbraio, mentre Roberto Fico “esplorava”, lanciava un governo di “alte personalità”. E così, di fatto, il congresso del Pd si è aperto in mezzo alla crisi.

Anche nell’esecutivo non mancano le impronte di Gentiloni: il capo di gabinetto di Draghi è lo stesso che fu con lui a Palazzo Chigi, Antonio Funiciello; lo stesso Colao è passato dalla task force a un ministero; un pezzo della burocratja ministeriale è stata suggerita da lui. Draghi non ha certo bisogno di king maker, ma l’aiuto lo avrà gradito di sicuro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/23/ecco-perche-e-nato-il-governo-draghi-gentiloni-confessa/6110371/

lunedì 14 dicembre 2020

Sassoli smentisce Pd e Iv: “In tutti i paesi Ue task force Recovery”. - Wanda Marra

 

I dem, spaventati dalla crisi, fanno retromarcia su rimpasto e cabina di regia. Di Maio: “Discutere il premier fuori dal mondo”. Renzi isolato.

“La parola crisi mette paura in Europa, bisognerebbe accostarcisi con un po’ di pudore e prudenza perché può dare la sensazione di un paese che mette meno a fuoco i propri obiettivi”. David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, ripete a In mezz’ora in più da Lucia Annunziata, quello che va dicendo da un paio di giorni. “Dobbiamo avere paura della crisi, non assecondarla”. È netto Sassoli. A Bruxelles la preoccupazione di una crisi di governo in Italia, mentre parte il processo del Recovery Fund, aumenta.

Sarà magari anche per questo, ma la giornata di ieri fa registrare toni più bassi. A partire proprio dal Pd. In un primo momento Nicola Zingaretti ha mandato avanti Matteo Renzi. Poi al Nazareno hanno capito che c’è il rischio di una crisi “al buio”. E così correggono il tiro. Con lo stesso segretario che avverte: “Il governo ha bisogno di un rilancio ma il rimpasto adesso non è prioritario”. E Goffredo Bettini che condanna le “opache manovre” perché “se cade il governo si vota”.

Nel frattempo, a Palazzo Chigi si preparano alla “verifica”. Il premier vuole guidare il processo. E dunque sta mettendo a punto un’agenda di incontri con le delegazioni dei partiti e poi con i loro leader, che dovrebbero partire già oggi.

Le trattative sotto traccia, a partire proprio dalla gestione delle risorse europee, vanno avanti. Afferma Bettini: “Conte ha confermato che la bozza del piano di ripresa e resilienza è una bozza aperta”. Come dire, il Pd ha tutte le intenzioni di frenare quella che i dem definiscono la voglia di “accentramento” di Conte. E così oggi ci sarà un seminario di tutto il partito, proprio per discutere del Recovery Plan. Sul tavolo, c’è qualche modifica (anche se l’impianto resta lo stesso) al piano in se stesso. E soprattutto la struttura di governance: azzerarla, come vorrebbe Renzi, per il Pd non è possibile. L’idea è quella di lavorare sulla task force, sia delimitando i poteri sostitutivi e derogatori dei manager, sia dando un ruolo chiaro ai ministeri. A lavorare sul piano e sulla struttura di governance sono in questi giorni però tutti i partiti, M5s compreso. In discussione c’è il “come” non il “sé”. E’ ancora Sassoli a chiarire: “La lite sulla cabina di regia per il Recovery plan? Ce l’avranno tutti. Il riferimento è il governo. Ma l’Italia ha 209 miliardi e vanno amministrati: come fai a farlo se non hai una regia? Serve un coordinamento che aiuti la macchina”. Affonda: “Io sento che le indicazioni date da Conte possono essere contestate, migliorate, però certamente servirà un aiuto al governo”. Da notare che sabato anche Paolo Gentiloni (anche lui un big del Pd con un ruolo di primo piano in Europa, Commissario agli Affari Economici) ci aveva tenuto a mettere l’attenzione sulle “procedure” e cioè sull’”attuazione” del piano: “Più che sui nomi, sulle task force, ragionerei sulle procedure. I piani vanno attuati perché poi ogni sei mesi deve arrivare un bonifico da Bruxelles. Per questo deve esserci una corsia preferenziale”. Un altro tema, quello di una normativa ad hoc (di cui aveva parlato lo stesso premier un paio di mesi fa), che entrerà nella discussione.

Politicamente, il Pd passa alla fase successiva dell’attacco al premier: non è in discussione il suo ruolo tout court, ma i dem vogliono pesare di più. Nella stessa dinamica si inserisce la richiesta di misure anti Covid più restrittive, dopo le immagini di assembramento ieri nelle vie dello shopping delle grandi città. Ma intanto anche Anche Maria Elena Boschi (sempre negli studi della Annunziata) fa un relativo passo indietro: “Non vogliamo nessuna crisi. L’argomento rimpasto è chiuso. La priorità è usare bene i fondi europei e allo stesso tempo coinvolgerci”. Ma poi fa cadere lì l’avvertimento neanche tanto velato: “Se c’è crisi, non credo che andremo al voto. M5S ha un problema non solo per il secondo mandato ma anche perché tanti di loro non tornerebbero in Parlamento”. Come dire: un’altra maggioranza la troviamo. Va detto pure che Luigi Di Maio, corteggiato dai renziani come eventuale premier al posto di Conte, e considerato uno dei principali “congiurati contro di lui, smentisce categoricamente via Tweet: “Ancora fake news su di me, evidentemente qualcuno semina zizzania, quindi voglio essere chiaro: è fuori dal mondo mettere in discussione Giuseppe Conte. Se poi ci sono differenze di vedute, si risolvono da persone adulte, ma basta falsità!”.

Si riparte dalla verifica e dalla parlamentarizzazione del percorso del Recovery. Esiti, comunque, imprevedibili.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/14/sassoli-smentisce-pd-e-iv-in-tutti-i-paesi-ue-task-force-recovery/6036082/

sabato 23 marzo 2019

Lasciati a Conte 479 decreti bloccati.



Risultano ancora da approvare 307 provvedimenti risalenti a Gentiloni, 172 a Renzi e 14 persino a Letta.

Dopo un silenzio lungo otto mesi, finalmente – anche a seguito della denuncia de La Notizia – l’Ufficio per il programma di Governo che fa capo direttamente al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha aggiornato i dati relativi allo stock di decreti che l’Esecutivo Conte dovrà attuare nel corso dei prossimi mesi e dei prossimi anni.
Dal report (fino al 28 febbraio 2019) emerge che dall’insediamento del Governo un gran numero di decreti sono stati attuati e il (pesante) lascito, di Matteo Renzi prima e Paolo Gentiloni poi, si è sensibilmente ridotto. Se infatti a luglio 2018 i decreti da adottare per rendere esecutivi i provvedimenti legislativi approvati ammontavano a 641, a febbraio si è scesi a 479. Si è registrata, dunque, una diminuzione dello stock di oltre il 25% in 8 mesi.
Nel dettaglio sono 307 quelli relativi al periodo Gentiloni e 172 quelli del periodo Renzi. A tutto questo, come se non bastasse, si aggiungono 14 decreti risalenti addirittura a Enrico Letta. Ovviamente anche il Governo Conte ha i “suoi” provvedimenti che richiedono un secondo intervento attuativo. L’andazzo anche qui non è encomiabile: dei 230 decreti previsti, solo 23 sono stati finora adottati. Rimandare, a quanto pare, è la parola d’ordine.

giovedì 22 novembre 2018

L’UE vuole sanzionare l’Italia perché i vecchi governi non hanno ridotto il debito. Ma perché solo oggi? - Roversi MG.

L’UE vuole sanzionare l’Italia perché i vecchi governi non hanno ridotto il debito. Ma perché solo oggi?

La manovra italiana è Ok. Quindi perché veniamo sanzionati?

La sconvolgente realtà dietro la manovra economica bocciata dalla commissione UE è che la manovra italiana rispetta le normative UE. Non si tratta di un dato opinabile: la manovra e economica si mantiene sotto il rapporto deficit/PIL del 3%, a differenza delle ‘vecchie’ manovre del 2016 e del 2017. La manovra di bilancio del Governo Conte per il 2019 prevede un rapporto del 2,4%: inferiore, se la matematica non è divenuta un’opinione, alla regola del 3%. 

Qual è quindi il motivo per cui adesso la Commissione vuole cominciare una procedura di infrazione verso l’Italia? In sostanza, se è vero che l’Italia non ha sforato il 3%, la procedura per deficit eccessivo può essere comunque aperta se non viene rispettata la regola per cui il debito non deve superare il 60% del PIL. Qual è il problema? Il problema è che l’Italia non ha mai rispettato questa regola. In sostanza ci sono stati anni in cui l’Italia è rimasta con un debito sopra il 100% del PIL. Nessuno le ha mai contestato niente per anni. Adesso, stranamente, saltano fuori gli altarini. 
Strano anche perché per il 2019 saranno molti altri i Paesi con un PIL superiore all’85%, secondo le previsioni (Grecia, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio e Cipro). Ma perché solo l’Italia viene punita? 

L’Italia punita per i governi precedenti? 

Insomma, la Commissione Europea, dando il via alla procedura per debito eccessivo dell’Italia con un report di 21 pagine, contesta non all’Italia di Conte di aver prodotto un eccessivo debito pubblico, ma ai governi precedenti. In pratica, quelli del 2016 e 2017, guidati rispettivamente da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. 
“Sulla base dei dati notificati e delle previsioni dell’autunno 2018 della Commissione, l’Italia non ha rispettato il parametro di riduzione del debito nel 2016 (gap del 5,2% del PIL) o nel 2017 (gap del 6,6% del PIL)” si legge nel documento. Ma si tratta dei vecchi governi, evidentemente. 

Leggasi: l’Italia di oggi viene sanzionata non per una questione attinente all’odierna manovra, ma per le manovre precedenti. Inoltre “in base ai piani governativi e alle previsioni dell’autunno 2018 della Commissione, l’Italia non dovrebbe rispettare il parametro di riduzione del debito nel 2018 o nel 2019” si legge nel documento. Come ben pochi altri Paesi nell’area UE. Ma viene sanzionata solo l’Italia. Sanzioni economiche… o sanzioni politiche? 


Fonte: newnotizie del 22.11.2018

martedì 27 marzo 2018

Caso ex spia russa, l'Italia ha espulso i diplomatici russi obtorto collo. - Umberto De Giovannangeli


SOCHI, RUSSIA MAY 17, 2017: Italys Prime Minister Paolo Gentiloni (L) and Russias President Vladimir Putin attend a press conference following their meeting at the Bocharov Ruchei residence. Mikhail Metzel/TASS (Photo by Mikhail Metzel\TASS via Getty Images)

Il nostro Paese non vuole mettere all'angolo la Russia, Lega e Fratelli d'Italia parlano di grave errore. Silenzi da M5s e Pd. I sospetti del Nyt sulla linea di Roma.


Obtorto collo. Il latino corre in aiuto per spiegare come l'Italia stia affrontando la "guerra diplomatica" ingaggiata dall'Europa contro la Federazione Russa e il suo presidente-padrone: Vladimir Putin. Ufficialmente, tutti negheranno. Ma fuori dall'ufficialità, e con la garanzia dell'anonimato, fonti diplomatiche alla Farnesina e a Bruxelles, raccontano una storia più complessa e meno idilliaca di quello che parrebbe dalla conta di funzionari e/o spie russe che i Paesi dell'Unione hanno deciso di rispedire a casa, in risposta all'avvelenamento della ex spia russa Sergey Skripal e della figlia Yulia avvenuto lo scorso 4 marzo a Salisbury, nel Regno Unito, con un agente nervino.
A concordare la risposta europea, raccontano le fonti ad HP, sono state le premier di Germania, Angela Merkel, e Regno Unito, Theresa May assieme al presidente della Francia, Emmanuel Macron. Le prime due, racconta ancora la fonte, avrebbero voluto andar giù ancor più pesantemente, inasprendo le sanzioni economiche e commerciali contro Mosca, rispetto a quelle attuate al seguito dell'(irrisolta) crisi ucraina. "Ma su questo – dicono alla Farnesina – il premier Gentiloni ha fatto resistenza, riuscendo a stoppare l'iniziativa anglo-tedesca, ben vista dall'altra parte dell'Oceano". Di diplomatici, Francia e Germania ne hanno espulsi quattro a testa, così come la Polonia. Tre ciascuno da Repubblica Ceca e Lituania, mentre due da Italia, Spagna, Danimarca e Olanda. Uno a testa, per il momento, da Lettonia, Romania, Croazia, Ungheria ed Estonia. I Ventotto hanno anche richiamato l'Ambasciatore dell'Ue a Mosca per consultazioni. Il capo della delegazione dell'Ue nella Federazione Russa, Markus Ederer, è giunto a Bruxelles nel fine settimana, e ieri è stato a colloquio con l'Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini. Quanto alle misure adottate oggi, dall'entourage di "Lady Pesc" si ribadisce che tali misure sono conseguenziali a quanto deciso, unanimemente, al Consiglio europeo del 22 e 23 marzo.
Un riferimento che si ritrova nella nota diffusa dalla Farnesina, in cui si legge che "a seguito delle conclusioni adottate dal Consiglio Europeo del 22 e 23 marzo scorso, in segno di solidarietà con il Regno Unito e in coordinamento con partner europei e alleati Nato, il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale ha notificato oggi la decisione di espellere dal territorio italiano entro una settimana due funzionari dell'ambasciata della Federazione russa a Roma accreditati in lista diplomatica". Sono 14 gli Stati membri della Ue ad aver preso finora il provvedimento "come seguito" di quanto deciso al vertice Ue della settimana scorsa, ha affermato il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, aggiungendo che "altre espulsioni non sono da escludere nei prossimi giorni e settimane". Farnesina e Palazzo Chigi non confermano né smentiscono, ma la linea che s'intende seguire sarebbe quella della "prudenza". In altri termini, vorremo fermarci a due cartellini rossi, peraltro sventolati a due funzionari non propriamente "apicali".
Tutti gli espulsi hanno una settimana di tempo per lasciare i relativi Paesi. Un'azione congiunta per la quale esulta il governo britannico, dal ministro degli Esteri Boris Johnson a quello della Difesa Gavin Williamson. "La straordinaria risposta internazionale dei nostri alleati – ha detto Johnson – rappresenta la più grande espulsione collettiva di agenti dell'intelligence russa nella storia e ci aiuterà a difendere la nostra sicurezza. La Russia non può violare impunemente le norme internazionali". L'Italia è tra i Paesi europei che più hanno patito le conseguenze sanzionatorie. Ma la ragione del nostro freno non è solo dettata da interessi, economici e commerciali, nazionali. E le fonti diplomatiche spiegano i perché: "Restiamo convinti – dicono – che la Russia è un partner cruciale per la stabilizzazione di aree esplosive come il Nord Africa e il Medio Oriente, e a questo va aggiunto che le conseguenze negative della corsa al riarmo ingaggiata da Usa e Russia ricadrebbero soprattutto sull'Europa". Su questo, rimarcano ancora le fonti, c'è una visione "trasversale" comune alle maggiori forze politiche italiane: ognuna con le proprie motivazioni e accenti, il Movimento 5 Stelle, la Lega di Salvini, il Pd e Forza Italia convergono nel ritenere la Russia un interlocutore che non può e non deve essere messo all'angolo. Un punto di vista che non è particolarmente gradito nelle altre cancellerie europee che contano e tanto meno alla Casa Bianca.
Con un editoriale sul New York Times, Frank Bruni, una delle firme più autorevoli del NYT, ha dato voce e visibilità esattamente a un timore che non investe solo l'amministrazione Trump: : lo spostamento dell'asse di riferimento del Paese a netto favore di Vladimir Putin. "L'Italia ha abbandonato l'America. Per la Russia", il titolo eloquente. Una forzatura, certo, ma che mette in rilievo il rischio di una "etichettatura" negativa per l'Italia da parte, interessata, di Washington e, sia pure in modo meno esplicitato, di Londra, Parigi e Berlino: quello del Paese più "putiniano" del Vecchio Continente.
Un passo indietro nel tempo. "Abbiamo sostenuto la fiducia delle imprese italiane nelle aziende russe e in questo Paese". Mosca, 17 maggio 2017. Così il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni in una conferenza stampa con il presidente russo Vladimir Putin commentava i rapporti diplomatici tra il nostro Paese e la Russia. Poi Gentiloni fissò un obiettivo: "Tra Italia e Russia ci sono aree di cooperazione nella lotta al terrorismo e nella gestione di alcuni crisi regionali. Penso alla Libia, alla Siria e all'Afghanistan nelle quali Italia e Russia possono e devono collaborare", disse il premier italiano. "Abbiamo minacce in comune e dobbiamo rispondere in comune", aggiunse il premier. A questo punto, Gentiloni ha anche parlato delle sanzioni alla Russia: Dal nostro punto di vista lo sforzo che abbiamo sempre fatto e continueremo a fare è quello di sottolineare che non può esserci un automatismo nel rinnovo delle sanzioni alla Russia. Bisogna fare una discussione seria, con l'obiettivo di mantenere unita l'Unione europea ma maturando queste decisioni, facendo un ragionamento serio".
L'Italia è per "attuare gli accordi di Minsk, ma dobbiamo dirci come stanno le cose. L'Italia - aggiunse - è interessata a questo dossier. Nessuno pensi che l'Italia romperà in solitaria con i suoi alleati ma nessuno creda che le decisioni sul rinnovo delle sanzioni possano essere prese con il pilota automatico", concluse Gentiloni. "E' questa la linea su cui continuiamo ad attestarci – rimarcano ancora alla Farnesina – fino a nuovo ordine". E al nuovo primo ministro. Se dovesse toccare a Matteo Salvini, c'è da chiedersi se manterrà fede al "patto di amicizia" firmato a Mosca da Lega Nord e Russia Unita, il partito di Putin, definito di "cooperazione e collaborazione". Un accordo, spiegò in quell'occasione lo stesso Salvini, che mette in luce unità di intenti su "lotta all'immigrazione clandestina e pacificazione della Libia, lotta al terrorismo islamico e fine delle sanzioni contro la Russia, che sono costate all'Italia 5 miliardi di euro e migliaia di posti di lavoro persi". Era il 6 marzo 2017. E la linea è rimasta la stessa. Tanto da meritare un elegiaco pezzo di Sputnik Italia, il sito "putiniano, solerte nell'indicare chi sono nel Belpaese i "veri amici" di Mosca.
"Al governo non avrei fatto una scelta del genere", ha detto Matteo Salvini commentando l'espulsione dall'Italia di diplomatici russi in risposta all'avvelenamento della ex spia russa Sergey Skripal e della figlia avvenuto lo scorso 4 marzo a Salisbury nel Regno Unito. "Leggere che invece che riannodare i fili del dialogo il governo italiano subisce la richiesta, che arriva da altri, ed espelle diplomatici russi - ha concluso a margine del consiglio comunale di Milano - mi sembra una cosa poco utile a un futuro di dialogo e convivenza". Non da meno gli è Giorgia Meloni. "E' inaccettabile che un Governo dimissionario decida di espellere due funzionari dell'ambasciata russa", dichiara la leader di Fratelli d'Italia che parla degli "ultimi colpi di coda di un Governo asservito alla volontà di Stati esteri che per fortuna sarà messo presto nelle condizioni di non nuocere più gli interessi nazionali italiani". Chissà che ne pensano dalle parti di Washington e di Berlino.

venerdì 23 marzo 2018

Risorge il Cnel con le 48 nomine del governo Gentiloni. - Concetto Vecchio

Risorge il Cnel con le 48 nomine del governo Gentiloni

L'organo consultivo delle Camere e dell'esecutivo in materia economica è sopravvissuto al voto referendario del 2016 e si appresta a riunire il suo parlamentino di 64 esperti. Il presidente Treu: "Tutti a dire che non serve a niente ma poi c'era la fila ad entrare".

Dato per morto durante la campagna referendaria ("voglio essere chiaro sul Cnel: anche basta!", diceva Matteo Renzi prima del voto del 4 dicembre 2016), al punto che a poche settimane dal voto gli uffici di Villa Lubin a Roma erano ingombri degli scatoloni di chi si apprestava a fare un trasloco, risorto nella notte del No, festeggiata con pasticcini e champagne, il Cnel ha celebrato oggi la sua definitiva resurrezione con le 48 nomine varate dal governo Gentiloni in uno dei suoi ultimi atti.
 
L'organo consultivo del Parlamento e del governo in materia economica, che da un anno è retto dal professor Tiziano Treu, che fu ministro del Lavoro nel primo governo Prodi, e ministro dei Trasporti con D'Alema a Palazzo Chigi ("mi sono preso il miglior D'Alema", dice), e che al referendum aveva votato Sì ("ma sul Cnel non ero d'accordo"), quindi riparte: il parlamentino è composto da 64 esperti, dieci dei quali sono di nomina del Quirinale e i rimanenti sei dal Terzo Settore. Ridefinite le regole d'ingaggio: niente stipendi, solo un rimborso spese per chi non vive nella Capitale.
 
Quella del governo Gentiloni è una presa d'atto, nel senso che i nomi sono tutti indicati dalle varie organizzazioni sociali o sindacali. Nel giugno scorso le nomine erano già state decise, ma a quel punto piovvero una trentina di ricorsi di chi si era sentito escluso. "Tutti a dire che non serve a niente - fa notare Treu - ma poi c'era la fila ad entrare". Per sbrogliarne la matassa l'avvocatura di Stato è stata costretta a occuparsene per nove mesi.
 
"C'è la corsa dei renziani a farne parte", denunciava giorni fa il neosenatore leghista Alberto Bagnai. "Suvvia", dice Treu. "E' tutta gente competente, di cui non si conosco la casacca politica. Un tempo ci parcheggiavano i dinosauri, quel tempo è passato. E fa i nomi di alcuni esperti nominati oggi: l'ex ministro montiano Mario Catania; Paolo Peluffo, già sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio con Monti; l'ex presidente dei giovani industriali, Marco Gay; Gianna Fracassi, segretaria confederale della Cgil.
 
Il Cnel, la notte del 4 dicembre 2016, fu al centro di molti commenti ironici sui social, dopo che il 60 per cento degli italiani si era espresso a favore del No, a dispetto degli allarmismi di Renzi, che aveva quantificato "in un miliardo in 70 anni", il costo dell'organismo per le casse pubbliche.


http://www.repubblica.it/politica/2018/03/21/news/nomine_cnel_treu-191878843/

Leggi anche: 
http://www.corriere.it/elezioni-2018/notizie/cnel-nomine-dell-ultimo-istante-faeef6e2-2d48-11e8-af9b-02aca5d1ad11.shtml

venerdì 19 gennaio 2018

Gentiloni vuole l'ex sottosegretario di Monti a Segretario generale del Cnel. La destra attacca: "Lottizzazione a Camere sciolte". - Claudio Paudice


L'ente che il Pd voleva abolire verso la ricomposizione. Ma centrodestra e Confimprenditori attaccano.


C'è vita al Cnel. Il "vituperato" Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro ha un nuovo presidente da maggio e 48 consiglieri già scelti a fine agosto, la cui nomina è stata firmata dalla sottosegretaria Maria Elena Boschi, madrina della riforma costituzionale che voleva abolirlo. 
A breve avrà anche un nuovo Segretario generale: si tratta di Paolo Peluffo, ex sottosegretario all'Editoria e alle Comunicazioni del Governo Monti e storico portavoce di Ciampi. Paolo Gentiloni, premier del governo in carica per gli affari correnti, ha inviato una lettera al presidente di Villa Lubin Tiziano Treu - pubblicata da LabParlamento - informandolo "dell'intendimento di proporre il cons. Paolo Peluffo per la nomina a Segretario generale" dell'organo costituzionale. Dopo la scampata abolizione con la vittoria del No al referendum che ha bocciato la riforma Boschi, il Consiglio si rimette quindi a nuovo nel giro di pochi mesi.
Ma il nuovo look non piace affatto al centrodestra né ad alcuni esponenti del mondo imprenditoriale che, insieme a quello del lavoro, delle categorie e delle libere professioni, forma il Consiglio. La notizia della nomina di Peluffo da diversi giorni gira nei Palazzi e c'è chi, annusata la nomina, ha subito storto il naso perché si tratta pur sempre di una scelta fatta "a Camere sciolte" da parte di un governo dimissionario se non nella forma (Gentiloni non ha mai rassegnato le dimissioni ma ha dichiarato "esaurito" il suo mandato) almeno nella sostanza. Come Daniele Capezzone, esponente della "quarta gamba" di Noi con l'Italia: "Se non parlassimo di cose serie, ci sarebbe perfino da sorridere. Un governo in articulo mortis pronto a nominare, occupare, lottizzare il Cnel (che voleva abolire). Spero sia uno scherzo, un pesce d'aprile anticipato...".
Anche la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, qualche giorno fa, aveva lanciato sottili moniti contro la scelta che Palazzo Chigi si appresta a fare: "Dopo le nomine scandalose del Consiglio di amministrazione di Ferrovie dello Stato, gira voce che il Governo stia per nominare i nuovi vertici del Cnel, lo stesso Cnel che Renzi e il Pd volevano abolire perché ritenuto inutile e che ora si trasforma in un prezioso strumento di abolizione del potere". Meloni annuncia quindi battaglia: "Se è vero, a Camere sciolte e con un governo in carica solo per l'ordinaria amministrazione sarebbe un'altra dimostrazione del disprezzo che questa gente nutre verso le istituzioni e i cittadini. Speriamo sia solo una diceria, perché se fosse vero lo denunceremmo a ogni livello possibile".
Come detto, ci sono anche le proteste delle imprese riunite in Confimprenditori, l'unica associazione datoriale che si era schierata per il No al referendum del 4 dicembre 2016. "In queste ore - si legge in una nota - sta emergendo come il governo Gentiloni, in carica solo per l'ordinaria amministrazione, si stia affrettando a nominare un nuovo segretario generale dell'ente di Palazzo Lubin". L'associazione critica anche il decreto di rinnovo per il quinquennio 2017-2022: "Il governo si sta preparando a respingere i 19 ricorsi presentati dagli esclusi del nuovo consiglio del Cnel - nominato per cooptazione con criteri di assoluto arbitrio - per blindare le nomine attuali", puntando il dito contro la "selvaggia lottizzazione".
La nomina di Peluffo riporta così il Cnel al centro dell'agone proprio mentre inizia la campagna elettorale. Allievo della Normale di Pisa, ex giornalista del Messaggero, pur non avendo mai legato la sua figura ad un partito politico gode di un cursus honorum di tutto rispetto: diventa, a soli 29 anni Capo ufficio stampa del Governo Ciampi nell'aprile del 1993, nel dicembre del '98 viene nominato dirigente generale al ministero dell'Economia. Pochi mesi dopo ottiene l'incarico di Consigliere per la Stampa e l'Informazione del Presidente della Repubblica, sempre con Carlo Azeglio Ciampi. A marzo del 2006, ancora, approda alla Corte dei Conti come consigliere. Nel 2011 è consulente per Palazzo Chigi per il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia e infine viene scelto da Mario Monti come sottosegretario alle Comunicazioni e poi, dopo le dimissioni di Malinconico, anche all'Editoria nel Governo tecnico dopo la crisi dello spread.
Ultimo appunto sulle peripezie del Cnel: l'ente considerato inutile dalla maggioranza uscente e dal Pd in particolare si era adoperato con un ricorso contro il Governo perché lasciato dal 2015 senza "diritto al rimborso delle spese per la partecipazione alle riunioni e all'indennità". Ragione che aveva indotto diversi consiglieri "fuori sede" a dimettersi. Ma con l'ultima legge di Bilancio il Cnel è stato accontentato grazie a una norma che autorizza rimborsi viaggi per i membri, ovviamente con le risorse del budget a disposizione per il funzionamento dell'ente. La norma che ha accolto le richieste dei membri del Consiglio è stata presentata dal Partito Democratico.

mercoledì 20 dicembre 2017

Università, il governo scrive male il bando: saltano 6mila finanziamenti per associati e ricercatori. - Lorenzo Vendemiale


Università, il governo scrive male il bando: saltano 6mila finanziamenti per associati e ricercatori

Gli esecutivi Renzi e Gentiloni avevano stanziato 45 milioni di euro per 15mila contributi, ma i criteri di accesso ai fondi erano troppo (e inutilmente) stretti. Risultato: le borse di studio sono diventate 9mila, oltre il 35% si è perso per strada, nonostante ci fossero altri 5mila posti da assegnare e oltre 17mila domande arrivate.

Doveva essere una delle grandi novità per rilanciare la ricerca di base: 45 milioni di euro per 15mila finanziamenti a ricercatori e professori associati dell’università italiana. Un anno dopo, le borse di studio sono diventate appena 9mila: oltre il 35% si è perso per strada, per colpa di un bando scritto male che prevedeva un tetto massimo di assegnatari, a prescindere dal numero effettivo dei partecipanti. Così circa 6mila domande sono state bocciate, nonostante in teoria ci fossero altri 5mila posti da assegnare.
IL FFABR NELL’ULTIMA MANOVRA – A fine 2016 il governo Renzi-Gentiloni (il provvedimento fu pensato dal primo, ma approvato in via definitiva dal secondo) istituì nella Legge di Bilancio il nuovo Fondo per il finanziamento delle attività base di ricerca (anche noto con l’impronunciabile acronimo Ffabr): 45 milioni in più da spendere su progetti di vario ambito, una misura che avrebbe dovuto aiutare gli atenei del nostro Paese, alle prese con una cronica mancanza di risorse. Non tutti furono proprio entusiasti della notizia: il fondo fu bollato come l’ennesimo “bonus” da parte di Renzi al mondo dell’istruzione, c’è chi (come la Fisv, Federazione Italiana Scienze della Vita) parlò persino di “paghetta per i ricercatori”. Ed in effetti sono solo 250 euro al mese, non proprio una fortuna. Ma si trattava pur sempre di una buona opportunità per incrementare i pochi fondi a disposizione per la ricerca. Il progetto ci ha messo un po’ a carburare, generando notevoli aspettative persino al Ministero, se è vero che a inizio anno la ministra Valeria Fedeli (appena arrivata al posto di Stefania Giannini) lo inseriva all’interno delle linee programmatiche del suo mandato. Dodici mesi dopo, possiamo dire che il Ffabr è stato un fallimento.

MANCANO PIÙ DI 5MILA VINCITORI – L’Anvur, la controversa Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca a cui era stato affidato il compito di selezionare le liste dei meritevoli, negli scorsi giorni ha pubblicato l’esito del suo lavoro. Scorrendo gli elenchi degli assegnatari, però, si fa una amara scoperta: i vincitori non sono 15mila, come ci si aspettava e come prevedeva esplicitamente il bando da 45 milioni di euro, ma molti di meno. Per la precisione, 9.446, di cui 7.124 ricercatori e 2.342 professori associati, le due categorie a cui era rivolto il finanziamento. Viene da pensare, in un primo momento, che gli svogliati accademici italiani non si siano neppure degnati di inviare la propria candidatura alla grande occasione che gli era stata concessa dal governo. Ma non è così: le domande, fa sapere l’Anvur, sono state 17.308, comunque più del numero dei posti messi a disposizione.
I CRITERI VOLUTI DAL GOVERNO – Cosa è andato storto, allora? Molto semplice: il bando. I paletti fissati dall’esecutivo, di fatto, rendevano praticamente impossibile l’assegnazione di tutte le borse. Il governo ha voluto che ci fossero dei criteri di selezione, in nome probabilmente dell’ideologia meritocratica che tanto stava a cuore a Renzi. Però invece di prevedere delle semplici graduatorie, con la vittoria di tutti quelli in posizione utile, magari persino con un punteggio minimo da superare come qualsiasi concorso che si rispetti, ha voluto introdurre una percentuale massima di assegnatari: poteva ricevere il finanziamento soltanto il 75% dei ricercatori e il 25% dei professori associati candidati. Un tetto troppo selettivo, specie il secondo, da cui deriva il flop.

Per far sì che ci fossero 15mila vincitori con questi criteri, avrebbero dovuto presentarsi praticamente tutti i ricercatori e professori associati d’Italia. Cosa che ovviamente non è avvenuta, com’era logico che fosse. Un po’ perché il bando prevedeva anche delle cause di esclusione: aver ricevuto altri finanziamenti, essere a tempo determinato o in aspettativa. Un po’ perché poi il Ffabr non era certo la svolta della vita, con i suoi miseri 3mila euro a testa. Togliamo i ricercatori precari (ce ne sono circa 4.500 in Italia), gli accademici già impegnati su altri fronti, o magari semplicemente non interessati, ed ecco che la platea dei partecipanti si riduce fisiologicamente. Alla fine hanno partecipato in 17mila, il 48% dei ricercatori, il 45% degli associati: praticamente uno su due degli accademici italiani, una risposta anche positiva per la prima edizione del bando. Ma insufficiente ad assegnare tutte le borse, visti gli assurdi paletti voluti dal governo: mancano all’appello 5.554 finanziamenti. Ed è andata pure bene che l’alto numero di parimerito in graduatoria abbia fatto sforare leggermente le soglie del 75% e del 25% (sono state esattamente del 77,8% e del 28,7%), altrimenti sarebbero stati pure di più.
LA RICERCA PERDE 16 MILIONI – Il risultato è che dei 45 milioni di euro già stanziati, soltanto 28,4 verranno utilizzati per la ricerca nei prossimi mesi. L’unica consolazione è che gli altri 16,6 almeno non verranno persi del tutto: come previsto da un successivo decreto ministeriale emanato ad agosto dal Miur (che forse aveva subodorato il rischio fallimento), finiranno nel Fondo di finanziamento ordinario delle università italiane (il famoso Ffo), ripartiti tra i vari atenei in base alla loro quota di spettanza. Una redistribuzione a pioggia, insomma, all’interno di un grande calderone che per altro non finanzia solo i progetti di ricerca ma anche tutte le altre varie spese (costi di funzionamento e del personale compresi) delle nostre facoltà. Quanto alla ricerca, pazienza: sarà per il prossimo bonus.

giovedì 16 novembre 2017

Il debito pubblico sale ancora. Padoan rassicura: "Verso riduzione aggressiva". E Gentiloni replica all'Ue.



Risale, a settembre, il debito pubblico italiano. La Banca d'Italia comunica che è stato pari a 2.283,7 miliardi, in aumento di 4,4 miliardi rispetto al mese precedente quando aveva registrato un ribasso di 21,3 miliardi. L'incremento, spiega Via Nazionale, ha riflesso il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche (16,5 miliardi), in parte compensato dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro (per 11,3 miliardi) e dall'effetto degli scarti e dei premi all'emissione. Sull'incremento, rileva la Banca d'Italia, incide anche l'effetto degli scarti e dei premi all'emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all'inflazione e della variazione del tasso di cambio (complessivamente hanno contenuto il debito di 0,7 miliardi). Con riferimento ai sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 4,5 miliardi. Il debito delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,1 miliardi e quello degli Enti di previdenza è rimasto pressoché invariato.
Padoan rassicura sul debito. Il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, prevede "un calo deciso del debito in un prossimo futuro" grazie alla più alta crescita del Pil nominale. Il ministro spiega alla Cnbc, che il governo italiano si aspetta innanzitutto che l'1,5% di crescita del Pil nel 2017 stimato nel Def "sia confermato", ma ritiene anche che tale cifra possa essere superata. "La fiducia degli investitori nei titoli di Stato dell'Italia è intatta" dice Padoan rispondendo a chi gli chiede degli effetti della graduale riduzione degli acquisti di titoli da parte della Bce, sottolineando che ne sono una dimostrazione l'andamento delle aste del Tesoro e il "recente upgrade da parte di una delle maggiori agenzie di rating" del debito sovrano italiano. Padoan ha quindi spiegato che "la politica di emissione di nuovo debito da parte del Tesoro sta prendendo in piena considerazione l'aspettativa di tassi di interesse più elevati, in modo che il rischio sia già stato incorporato e questo dovrebbe essere chiaramente comunicato ai mercati".
Gentiloni replica all'Ue: "Italia non è più fanalino di coda". "Si può dire che l'inverno dello scontento europeo si è piano piano diluito, al sole del Campidoglio si è sciolto con la firma della dichiarazione dei 60 anni dei trattati d'Europa. Restano delle gravi incognite geopolitiche internazionali. Certamente l'imprevedibilità geopolitica resta. Quest'anno abbiamo assistito anche al proseguire ad una risalita del Paese, della crescita economica passata dal -2% ai livelli dell'+1,8%". Così il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni nel giorno dell'inaugurazione dell'anno accademico dell'università Cattolica del Sacro Cuore "Si parla molto di rimproveri europei, - prosegue Gentiloni - ma noi dobbiamo migliorare la situazione del deficit italiano. Si sono fatti passi in avanti. La crescita accelera. Chi non lo vede dovrebbe rendersi conto che non è così perché non siamo più il fanalino di coda. Da ieri non lo siamo più".
Standard & Poor's cautamente ottimista. L'economia italiana "sta mostrando positivi segnali di ripresa ma dopo sei anni di stagnazione il processo di recupero sarà probabilmente lungo". In un rapporto, l'agenzia di rating ricorda l'accelerazione della crescita nel secondo trimestre con il Pil reale in aumento dell'1,5% quest'anno. Fra i fattori positivi la crescita "degli investimenti grazi agli incentivi fiscali" e dal miglioramento delle condizioni di credito con la soluzione della crisi Mps e delle banche venete. Molto da fare resta però sulla "produttività del lavoro". Secondo Jean-Michel Six, S&P Global Chief Economist "la ripresa sta toccando tutti i settori dell'economia e ciò che particolarmente conforta è che gli investimenti sono tornati a rivestire un ruolo centrale, dopo una pausa a inizio 2017, grazie agli incentivi fiscali". L'agenzia ricorda poi l'aumento della fiducia delle imprese, il miglioramento degli utili aziendali e il calo dei fallimenti, che hanno toccato il livello più basso dal 2009. tuttavia gli investimenti devono ancora fare molto per tornare ai livelli pre-crisi. Il rapporto cita anche la soluzione delle crisi di Mps e delle banche venete e il successo dell'aumento di capitale Unicredit. Inoltre il mercato del lavoro "sta facendo progressi. L'occupazione è tornata ai livelli del 2008 e la creazione di lavori è stata forte con circa 150mila nuovi posti nel primo semestre del'anno". Di converso, "il ritorno dell'inflazione, sebbene modesto, probabilmente intaccherà la crescita dei redditi reali e di conseguenza la domanda dei consumatori. Sul lato del commercio estero, le esportazioni non dovrebbero dare un significativo contributo alla crescita del Pil a causa "della scarsa crescita nella produttività del lavoro nonostante le riforme messe in campo negli scorsi anni".

sabato 6 maggio 2017

Con Soros a Palazzo Chigi l'ultra-capitalismo getta la maschera. - Diego Fusaro

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Lo speculatore e finanziatore di Ong è stato accolto in pompa magna da Gentiloni. Altro che complotto. La classe post-borghese è in una fase cruciale della sua lotta. E non fa nulla per nascondersi.

Lo diciamo da tempo, ma l'impermeabilità del pensiero unico è sconvolgente. Sovrastruttura egemonica santificante i rapporti di forza asimmetrici e iperclassisti dell'orizzonte post-1989, il pensiero unico politicamente corretto offusca senza tregua la visione del reale. Sostituisce il reale con la realtà mediatizzata, confezionata ad hoc dal circo mediatico e da opinion maker nichilisti, post-borghesi e ultra-capitalistici. Le masse pauperizzate e sempre più ridefinite come nuova plebe postmoderna della mondializzazione subiscono in silenzio. Ogni giorno vengono private di qualcosa e, un po' alla volta, perdono tutto, anche i diritti più elementari.
UN SILENZIO ASSORDANTE. Nel silenzio più assordante, ecco che George Soros, lo speculatore finanziatore di Ong, l'apolide filantropo che, con immensa magnanimità, a flusso costante foraggia ogni movimento organico al capitale finanziario (rivoluzioni colorate, legtb, immigrazioni di massa), è stato ricevuto dal premier Paolo Gentiloni. Sì, proprio così. Altro che complotto! Soros accolto in pompa magna dal governo italiano. Intelligenti pauca, dicevano i latini. La lotta di classe procede, spietatamente condotta dagli sradicati esponenti dell'élite finanziaria che distruggono i diritti sociali e le sovranità nazionali, difesi "culturalmente" dal clero accademico, giornalistico e televisivo.
IL MITO IMMIGRAZIONISTA. È chiaro come il sole, solo i fessi non lo vedono. L'immigrazione di massa non è soltanto una oscena pratica di lucro, una abominevole tratta di esseri umani: è un momento fondamentale della lotta di classe gestita da Soros e dalla sua classe post-borghese e ultra-capitalistica. Serve ad abbassare i costi della forza lavoro, a creare lotte orizzontali tra gli ultimi, a imporre il nuovo profilo planetario dell'uomo sradicato, migrante e in perenne mobilità in funzione delle logiche delocalizzanti del capitale liquido-finanziario. Lo vuole la destra del denaro, lo difende vergognosamente la sinistra del costume. Che anziché lottare contro queste pratiche oscene e difendere i lavoratori fa suo il mito immigrazionista, ideologia di completamento del capitalismo finanziario senza radici e senza diritti riconosciuti.

venerdì 5 maggio 2017

Che ci fa Soros a Palazzo Chigi da Gentiloni? Giallo intorno alla visita del miliardario che aiuta i migranti. - Angela Mauro



Lega e Fi si scatenano. Ma l'immigrazione non c'entrerebbe granché...


Che ci fa George Soros a Palazzo Chigi da Paolo Gentiloni? In un altro momento forse l'incontro avrebbe potuto passare inosservato. Ma è cascato nel bel pezzo delle polemiche sul caso delle ong che soccorrono i migranti in mare e proprio nel giorno dell'audizione del pm di Catania Carmelo Zuccaro davanti alla commissione Difesa del Senato. Con la sua Soros Foundation, il magnate ungherese naturalizzato americano finanzia anche progetti di integrazione dei migranti arrivati in Europa e l'anno scorso ha collaborato con alcune ong che salvano i migranti in Grecia, come spiega il co-direttore europeo della Fondazione Jordi Vaquer in questa intervista alla Stampa. E' quanto basta per scatenare la polemica politica. E anche il giallo.
Perché da Palazzo Chigi non rilasciano alcun comunicato ufficiale sull'incontro di Gentiloni con Soros, miliardario 87enne che tra le sue attività recenti ha anche finanziato una parte della campagna elettorale di Hillary Clinton contro Donald Trump, oltre che essere da sempre critico del presidente russo Vladimir Putin, che tra l'altro Gentiloni incontrerà a metà maggio, prima del G7 di Taormina cui il presidente russo resta non invitato. Soros è stato citato anche in alcuni articoli giornalistici sulle accuse di Zuccaro ai miliardari che finanziano le ong per soccorrere i migranti. Da qui il caso, la polemica politica che si somma alla polemica in corso sulle organizzazioni non governative e i salvataggi nel Mediterraneo.
Elvira Savino di Forza Italia annuncia addirittura un'interrogazione parlamentare sui motivi della visita di Soros a Palazzo Chigi. Matteo Salvini non si lascia sfuggire l'occasione: "Per Soros l'Italia deve essere meticcia". Roberto Calderoli chiede a Gentiloni di spiegare perché abbia ricevuto "il miliardario che, attraverso le sue associazioni, è sospettato di finanziare l'immigrazione di massa dai Paesi africani verso l'Europa utilizzando l'Italia come porta di accesso".
Ma, a quanto si apprende da fonti di maggioranza, l'immigrazione non c'entrerebbe granché.
Quello con Soros è un incontro che si inserirebbe in una più ampia attività del premier volta a cercare investitori per il Belpaese. E' un tassello fondamentale dell'attività di governo alla luce delle crisi industriali in corso, a cominciare da Alitalia, appena commissariata e ormai messa sul mercato. E anche alla luce dell'ultima analisi dei dati della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), secondo cui negli ultimi nove mesi dell'anno scorso si è registrato un calo di quasi il 15 per cento dei capitali investiti in Italia, oltre cento miliardi di dollari, scriveva il Corriere della Sera domenica scorsa. Un effetto dovuto all'incertezza politica intorno al referendum costituzionale, una diffidenza diffusa verso il Belpaese che Gentiloni sta cercando di arginare.
Soros si sarà convinto?
Di certo c'è che l'incontro italiano non è l'unico di questo genere per Soros in Europa. Una settimana fa, il finanziere ha incontrato a Bruxelles il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker. Oggetto del vertice: la situazione della Central European University di Budapest, minacciata di chiusura dopo l'adozione di una nuova legge sull'istruzione superiore in Ungheria, paese natale di Soros, governato dall'anti-europeista e falco anti-immigrazione Viktor Orban.
E' alquanto strano che Gentiloni, in qualità di Presidente del consiglio italiano, riceva un personaggio che nel lontano 1992 contribuì. speculando in borsa, alla svalutazione pari al 30% della lira, guadagnando al contempo, una cifra stimata in 1,1 miliardi di dollari.