venerdì 4 settembre 2020

I tre candidati presidenti Pd agli elettori 5S: “Votiamo Sì”. - Giacomo Salvini

I tre candidati presidenti Pd agli elettori 5S: “Votiamo Sì”

In bilico Toscana, Marche e Puglia.
Tutti per il Sì al taglio dei parlamentari. Convintamente. Con i sondaggi che li danno in difficoltà sui concorrenti del centrodestra, i tre candidati Pd di Marche, Puglia e Toscana provano a rivolgersi direttamente a quegli elettori del M5S in grado di essere decisivi nella contesa elettorale del 20-21 settembre. E lo fanno partendo da una battaglia storica e identitaria del M5S: la riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Tutti e tre i candidati dem voteranno Sì, nonostante nel loro partito ci sia più di un dissidente e la linea sarà decisa nella direzione nazionale di lunedì prossimo. Inizia Eugenio Giani, candidato renziano in Toscana che negli ultimi due mesi ha subito la rimonta della leghista Susanna Ceccardi (oggi tra i due c’è un distacco di punto percentuale, mentre a inizio giugno erano 10): “Voterò Sì al referendum sul taglio dei parlamentari – spiega deciso al Fatto Quotidiano – ­e lo dico sulla base della mia esperienza di presidente del consiglio regionale, organo che ha potestà legislativa: la mia regione ha 41 consiglieri, un numero eccessivo in grado di rallentare i lavori di commissione e aula. Per questo, a livello più grande, penso che la riduzione di parlamentari possa aumentarne la qualità”. Discorso simile di Michele Emiliano, governatore uscente della Puglia che negli ultimi mesi le ha provate tutte per inglobare il M5S prima in maggioranza e poi nella coalizione in vista delle elezioni regionali (ma la candidata grillina Antonella Laricchia si è sempre rifiutata). L’ultimo appello è arrivato lunedì in un’intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno in cui Emiliano ha chiesto agli elettori di usare il voto disgiunto (“Gli elettori M5S potranno votare me come presidente e il M5S come partito”) in base a valori comuni come l’ambientalismo: “Mi sono battuto fin dall’inizio per la decarbonizzazione dell’ex Ilva – ha detto Emiliano – poi è arrivata l’adesione del Pd, del governo e del M5S. Questo significa che andiamo nella stessa direzione”. Sul taglio dei parlamentari, Emiliano ci tiene a restare coerente con i patti della coalizione giallorosa: “Voterò Sì come da indicazione dei miei partiti di riferimento, Pd e M5S” fa sapere il governatore pugliese che, secondo i sondaggi, è indietro di qualche punto sul meloniano Raffaele Fitto.
Poi c’è Maurizio Mangialardi, sindaco di Senigallia e candidato dem nelle Marche che fino a oggi non si era ancora espresso sul taglio dei parlamentari: “Voterò Sì per allineare i numeri del nostro Parlamento a quelli della maggioranza delle assemblee legislative europee – dice al Fatto tra un incontro e l’altro con i sindacati –. Ma, essendo un difensore della democrazia rappresentantiva, auspico che venga approvata al più presto una legge elettorale proporzionale”. Da mesi Mangialardi ha provato a tessere un dialogo con il M5S, inglobando nella sua coalizione due consiglieri regionali fuoriusciti tra cui l’ex candidato governatore Gianni Maggi che nel 2015 arrivò al 22% e oggi si candida con la lista “Marche Coraggiose”. Oltre ad appellarsi al “voto utile” (qui non è possibile il voto disgiunto) il presidente Anci delle Marche cerca di convincere gli elettori grillini a partire dai temi ambientali: “Proponiamo la costruzione nei primi cento giorni di un nuovo Patto per il lavoro e per il clima che si basi sul consumo zero di nuovo territorio e la rigenerazione delle Marche: l’obiettivo l’azzeramento delle emissioni entro il 2050 e il passaggio al 100% di energie rinnovabili entro il 2035”.
Anche Giani prova a incalzare gli elettori 5S sull’ambiente: “Nel mio programma ci sono molti temi cari al M5S – continua –­per esempio sull’ambiente vogliamo diventare, entro il 2030, la prima regione d’Italia a rispettare gli accordi di Parigi sulle emissioni, implementare l’economia circolare senza nuovi inceneritori e la mobilità su ferro per collegare meglio i capoluoghi di provincia toscani e potenziare le tramvie a Firenze”. Ma il candidato dem si sofferma anche su altri due argomenti che potrebbero fare breccia nell’elettorato grillino: “Io voglio che la gestione dell’acqua torni nelle mani pubbliche come previsto dal referendum del 2011 e poi, in caso di vittoria, saremo molto attenti al tema dei costi della politica: ridurremo il costo del consiglio regionale e io voterò convintamente a favore del taglio dei parlamentari”.
Alleanze ad intermittenza... e a seconda della convenienza; a volte si, a volte no... E pensare che avevano votato per il taglio in Parlamento, poi ci avevano ripensato, ora gli conviene ri-ripensarci... by c.

I due Matteo di nuovo insieme: stavolta per lo stadio di Firenze. - Giacomo Salvini

I due Matteo di nuovo insieme: stavolta per lo stadio di Firenze

L’emendamento - Lega e Pd votano un testo di Renzi che toglie poteri alla soprintendenza.
Dopo una notte di trattative e una seduta fiume in commissione Trasporti, alle 9 di mattina il primo a esultare è il più insospettabile: “Lo sblocca-stadi è una vittoria della Lega, le città potranno avere gli stadi che meritano”, dice Matteo Salvini da Genova. Eppure l’emendamento decisivo per sbloccare la costruzione del nuovo stadio di Firenze di cui parla il leader del Carroccio non è quello presentato dalla Lega ma dall’altro Matteo: Renzi. Tant’è che dopo due ore il cappello ce lo mette proprio lui, il leader di Italia Viva: “Una grande vittoria collettiva”, scrive Renzi nella sua e-news. Sono loro i protagonisti dell’accordo che ha portato a sbrogliare la matassa del nuovo stadio di Firenze.
A fine luglio Renzi aveva presentato un emendamento per fare carta straccia del parere contrario della Soprintendenza che si opponeva alla volontà del presidente della Fiorentina, Rocco Commisso, di abbattere le due curve dello stadio Artemio Franchi (che è un bene vincolato) e costruire un impianto nuovo di proprietà. “Ove vi sia il via libera dell’ente territoriale di riferimento, il Comune, una società professionistica può far realizzare interventi di modifica di impianti sportivi senza la necessità dell’autorizzazione della competente Soprintendenza” si leggeva nel testo originario. Insomma: avrebbe deciso tutto il Comune. Un emendamento del genere in commissione non sarebbe mai passato, vista la contrarietà del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e del M5S. Ma la trattativa tra Pd e Iv si è conclusa con un testo condiviso votato nella notte tra martedì e mercoledì da Pd, Lega, Italia Viva e Fratelli d’Italia con l’unico voto contrario del M5S. L’impianto rimane lo stesso della proposta di Renzi anche se un po’ addolcito dai dem: si potranno ristrutturare gli stadi anche se vincolati, ma sempre nel rispetto “unicamente dei soli specifici elementi strutturali, architettonici o visuali di cui sia strettamente necessaria a fini testimoniali la conservazione o la riproduzione” e la verifica di questi presupposti è demandata al Mibact che deve decidere entro 90 giorni.
Sulla norma ci mette il cappello anche il Pd: “Salvini si prende meriti non suoi – dice il capogruppo dem al Senato Andrea Marcucci –. È una norma che consentirà a Firenze e a molte altre città italiane la ristrutturazione degli stadi senza vincoli irragionevoli”. E anche il presidente della Fiorentina Commisso esulta: “I fiorentini meritano lo stadio”. La norma arriverà domani in Senato dove il governo ha posto la fiducia su tutto il decreto: a quel punto, com’è ovvio, voteranno a favore solo i partiti di maggioranza tra cui i 5Stelle che saranno costretti a piegarsi nonostante il “no” in commissione. In cambio i grillini hanno ottenuto che sull’altra infrastruttura di Firenze, l’aeroporto di Peretola voluto da Renzi, Toscana Aeroporti dovrà presentare una nuova documentazione su Vas e Via, mentre nel testo originario del decreto la prima era stata di fatto abolita. Ma Renzi canta vittoria lo stesso: “Una grande doppietta per Firenze”. Ma Gianluca Ferrara (M5S) replica: “La Vas resta, altro che nuova pista”. E sarebbero anche alleati di governo.
A chi condanna il m5s per non aver portato a termine tutte le proposte in itinere, pongo una domanda: se a votare contro le proposte dei 5s ci si mettono anche gli alleati, Pd e Iv, che votano con l'opposizione, Lega e Fdi, che pretendiamo?
Purtroppo, per approvare e rendere effettive ed applicabili alcune misure in cantiere, è necessario che vengano avallate dalla maggioranza dei parlamentari, e i 5s, da soli, la maggioranza non la raggiungono.
Lapalissiano...
by c.

I garantisti forcaioli. - Marco Travaglio

Erdogan svuota carceri e vi mette 'golpisti'
L’ultima frontiera delle fake news è quella di far dire al titolo il contrario di ciò che dice l’articolo. È il metodo della nuova Repubblica di Sambuca Molinari. L’altro giorno titola in prima pagina: “Effetto Draghi sui leader. Gli elettori del Pd divisi sul referendum”. Poi uno legge l’articolo di Ilvo Diamanti sul suo ultimo sondaggio e scopre che Draghi, ex banchiere in pensione infilato abusivamente fra i leader politici, è solo terzo dietro a Conte e a Zaia; e che il Sì al referendum stravince all’82% e domina fra gli elettori di tutti i partiti, Pd incluso. Ma titolare “Conte al 60% e il Sì all’82%” pare brutto: sennò poi i lettori capiscono cosa dice il sondaggio. Stesso copione martedì sullo studio dell’Istituto Cattaneo che simula il prossimo Parlamento con la nuova legge proporzionale e con 600 eletti al posto di 945, in base alla media dei sondaggi di oggi: “Ecco il Parlamento se vince il Sì. Destra avanti in entrambe le Camere”. Naturalmente la destra sarebbe avanti anche se vincesse il No, perché il taglio riguarda tutti i parlamentari, anche quelli di destra, non solo grillini e centrosinistri; e col proporzionale vince chi prende più voti, cioè – secondo la maggioranza dei sondaggi di questi giorni -la destra. Ma tutto fa brodo: vedi mai che qualche lettore idiota ci caschi, si spaventi e corra a votare No pensando di sbaragliare le destre.
Ieri, terzo replay. Titoli a pag. 1 e 2: “Metà dei boss ancora a casa. Sono 112 su 223 i mafiosi e narcotrafficanti liberati durante il lockdown e non rientrati in cella nonostante il decreto Bonafede”. “La beffa dei boss mafiosi scarcerati per il virus. Nonostante il dl Bonafede che avrebbe dovuto riportarli in cella”. Poi leggi l’articolo, correttissimo e informatissimo, e scopri che nel titolo non c’è una parola di vero: tutto falso o fuorviante. Se il titolo rispecchiasse l’articolo, non meriterebbe neppure una breve in cronaca: l’unica novità è che durante il lockdown i boss veri o presunti scarcerati non erano 498, come si era detto e strombazzato, ma 223 (meno della metà, di cui solo 121 pregiudicati e 102 presunti non colpevoli, perché mai condannati, ma in custodia cautelare; gli altri 275 erano finiti ai domiciliari per motivi del tutto estranei alla pandemia). Aggiungiamo che, com’è noto a tutti fuorché ai titolisti di Repubblica e ai teleconduttori scalmanati, quei detenuti non sono stati scarcerati e spediti ai domiciliari a causa (o con la scusa) del Covid da Bonafede, ma da decine di giudici di sorveglianza in base a leggi preesistenti: l’unica norma nuova, inserita dal ministro nel dl Cura Italia di fine marzo, restringeva l’applicazione della svuotacarceri di Alfano, escludendo i detenuti per reati di mafia e altri delitti gravissimi.
Ma qui, come in un noto talk show di mitomani, si continua a far credere il contrario, cioè che il Guardasigilli abbia il potere di arrestare o scarcerare i detenuti. Il dl Antiscarcerazioni, varato il 9 maggio, non avrebbe affatto “dovuto riportarli in cella”: se l’avesse solo tentato, sarebbe stato incostituzionale perché avrebbe violato la più elementare divisione dei poteri. Il decreto impone ai tribunali di sorveglianza di riesaminare le loro ordinanze di scarcerazione alla luce dell’attenuarsi dei contagi e della maggior disponibilità di posti letto in strutture sanitarie detentive; ma spetta sempre ai giudici decidere chi rimandare in cella e chi lasciare a casa (il che non ha risparmiato a Bonafede accuse da avvocati e magistrati, addirittura ricorsi alla Consulta). E così è stato: 111 sono tornati dentro e 112 sono rimasti ai domiciliari. Peraltro, dei sei soggetti pericolosi ancora fuori citati da Repubblica, uno non era uscito per rischio Covid (quindi col decreto non c’entra); e, per gli altri cinque (quattro in custodia cautelare, cioè presunti non colpevoli, e uno solo condannato), il Dap ha proposto soluzioni sanitarie adeguate in strutture detentive, ma i giudici hanno ugualmente confermato i domiciliari.
Quindi, con chi ce l’ha Repubblica? E soprattutto: cosa propone? Intende forse polemizzare con i giudici che abusano del loro potere per metter fuori i criminali, come gli “ammazzasentenze” di un tempo, che scarceravano decine di boss (quelli sì, sicuri, perché pregiudicati) con la scusa di un timbro sbagliato o di una pagina di sentenza mancante? Nossignori: di questa polemica non c’è traccia, altrimenti poi chi li sente i “garantisti” repubblichini. L’unico colpevole citato della “beffa” è il ministro, che non c’entra nulla, anzi ha fatto fin troppo per rimediare allo sbrego aperto nell’Antimafia dai tribunali di sorveglianza. Come passa il tempo. A marzo Repubblica contestava Bonafede perché non svuotava le carceri con un bell’indulto o una bella amnistia e dunque preparava la strada a una strage di detenuti per Covid (risultato: 1 morto di Covid su 61mila detenuti in sei mesi). Ora lo contesta per averle svuotate troppo (mentre l’han fatto i giudici, in barba ai suoi decreti). Prima lo attaccava per aver abolito la prescrizione a danno di “tanti innocenti in carcere” (che con la prescrizione non c’entrano nulla). Ora pretende che si sostituisca ai giudici per riarrestare per decreto i detenuti e chiama “boss”, “mafiosi” e “narcotrafficanti” anche quelli mai condannati, dunque – per la nostra Costituzione – presunti non colpevoli. E questi sarebbero i “garantisti”. Poi ci sono i “giustizialisti”, che saremmo noi. Ma andé a ciapà i ratt.

giovedì 3 settembre 2020

Chi sta tradendo i Cinque Stelle. - Gaetano Pedullà

PIERA AIELLO

La deputata Piera Aiello (nella foto) ha lasciato i 5 Stelle. Non è una buona notizia per il Movimento, perché si tratta di una parlamentare simbolo della lotta alla mafia, essendo stata una testimone di giustizia, e per questo messa sotto scorta dallo Stato. Ma quella della Aiello non è una buona notizia nemmeno per lei stessa, in quanto come gli altri suoi colleghi pentiti di essersi fatti eleggere dai grillini, ha annunciato seraficamente che si terrà il seggio, facendo finire così in barzelletta la lealtà verso gli elettori che l’hanno scelta in quanto M5S, e di conseguenza la credibilità delle sue stesse battaglie per la legalità.
D’altra parte sono poco credibili, ma sarebbe meglio dire pretestuose, le stesse ragioni della fuga, che si rifanno pure al finto scoop di Giletti, dove purtroppo era vera l’uscita di galera di numerosi boss, ma non l’attribuzione di tale responsabilità al ministro Bonafede, visto che la decisione di spedire i mafiosi ai domiciliari è stata dei loro giudici di sorveglianza, e non certo del Guardasigilli che li ha riportati dentro. Una vicenda che inevitabilmente si lega alla fronda pentastellata sul decreto Covid e l’assenza ingiustificata di alcuni deputati al voto. La prova provata del Movimento a pezzi e della guerra dichiarata a Conte, hanno concluso autorevoli giornali, che al solito raccontano le cose come vogliono e non come sono.
Gli onorevoli assenti ingiustificati erano infatti solo 7, e non 28 come si è detto, e ciò non ha impedito all’Esecutivo di incassare agevolmente la fiducia. I problemi con alcuni miracolati portati in Parlamento da Grillo ci sono, ma da qui a dire che Conte è spacciato e i 5 Stelle di più, come al solito ce ne corre. Ai giornali però questa cosa piace da impazzire, facendo sperare le opposizioni e gli spasimanti di Draghi & Company. Peccato per loro che manca il finale dove tutti insieme vivono felici e contenti, perché finché le Piera Aiello, i Paragone, il comandante De Falco e quant’altri resteranno una riserva indiana a stare più sereni saranno gli italiani, con la destra più becera di sempre a bocca asciutta, a dire tutto e il contrario di tutto su Covid, immigrati, scuola e tasse non si sa come da tagliare.

Milano ora subisce i consigli sgangherati di Repubblica a Sala. - Gianni Barbacetto

coronavirus, “fuga” da milano - la stazione ferroviaria presa d'assalto -  Cronache
A settembre Milano riparte, ogni anno. Il vero Capodanno, sotto la Madonnina, è il 1° settembre, quando si riavviano i progetti e riprendono attività, lavori, affari. Quest’anno, dopo la pandemia, tutto è più lento e incerto. La città è cambiata, sente di non essere più quella di prima, è più povera, meno festosa, riesce a nascondere meno di prima le disuguaglianze e gli squilibri, la narrazione trionfale della metropoli vincente e invincibile si è incrinata.
Siamo in attesa di capire se lo sviluppo immobiliare, soprattutto terziario, si è fermato, se la bolla è pronta a scoppiare, ora che lo smart working ha fatto scoprire alle aziende, comprese le multinazionali, che hanno bisogno di sedi di un terzo più piccole di quanto hanno previsto finora.
Proprio per questo, sarebbe importante avere chiarezza, fin da subito, sul progetto per la ripartenza elaborato e proposto dal sindaco della città. Invece Giuseppe Sala fa i capricci: è stufo di fare il sindaco, da tempo coltiva progetti alternativi (il suo sogno sarebbe diventare il manager della nuova società telefonica, che sta nascendo proprio in queste settimane, per gestire la rete italiana; ma si sente pronto anche per un ruolo politico nazionale e per fare il ministro di un governo “rimpastato” dopo le elezioni regionali, oppure nuovo di zecca, la chimera tanto desiderata dai poteri incerti: il fantagoverno Draghi).
Sala sa che, se sarà costretto a ripresentarsi per il secondo mandato, la vittoria non è affatto certa. È stato eletto, nel 2016, con soli 17mila voti in più del suo avversario-gemello, Stefano Parisi, e alle elezioni del giugno 2021 potrebbe andargli male. Ma almeno si decida subito a dire se si ricandida o no, non tenga un’intera città e i suoi destini amministrativi appesi alle sue inquietudini esistenziali, alle sue ambizioni manageriali, alle sue irrequietezze politiche.
Invece, incredibilmente, c’è chi gli consiglia di tirare in lungo, anzi in lunghissimo. Una cosa mai vista. Un giornale (Repubblica) ha da tempo assunto il ruolo di tutor di Sala e ora gli consiglia di non sciogliere la riserva neppure, come promesso, dopo le elezioni regionali. Lasci tutti nell’incertezza, gli aspiranti successori che si stanno scaldando a bordo campo (Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran) e soprattutto i cittadini. “C’è una questione tattica, se non addirittura strategica, che consiglierebbe di prolungare l’attesa a Milano”, scrive Repubblica. “Non sappiamo quello che Sala deciderà di fare con la politica, ma è improbabile che ai cittadini di Milano serva sapere il prossimo ottobre se nel giugno 2021 voteranno per lui o no. Il milanese ha fretta, ma se capisce che ne vale la pena, sa anche aspettare”. Invece ai cittadini serve sapere. Serve sapere se sarà Sala o qualcun altro a candidarsi per guidare la città nella fase della ripresa post-Covid. Serve sapere quali sono le idee per una ripartenza che sarà difficile. Serve sapere se continueranno i grandi affari immobiliari, il consumo di suolo, l’erosione di aree verdi ripagata con qualche alberello piantato qua e là, i regali alle Ferrovie dello Stato (sugli scali ferroviari) e agli anonimi fondi che si nascondono dietro Milan e Inter (a San Siro).
Quale “questione tattica, se non addirittura strategica” può mai far restare la Milano democratica in surplace per mesi? In attesa che la destra cali l’asso, se ne ha uno, con la speranza di prendersi la mano? Le elezioni del sindaco sono diventate per Repubblica un gioco d’azzardo, invece che il più bel rito della democrazia dei cittadini?

Pastrocchio ipocrita contro Conte. - Antonio Padellaro

BLOG : La voce di quasi tutti
Molti guardano il dito che si agita nella maggioranza, convinti che indichi la scuola della ministra Azzolina precarizzata dal Covid. O l’allarme per il possibile strike di Salvini e Meloni, in Toscana e Puglia, alle prossime Regionali. Oppure il massiccio schieramento (editoriale) contro il Sì al taglio dei parlamentari che (si legge nel quotidiano collettivo) “toglierebbe legittimità alla Camere”. Sbagliato, perché come si sa il dito indica la luna, e nel caso in esame la luna ha il profilo del governo Conte che tutte le dita che si agitano nel Pd, nei 5stelle o tra i renziani, rischia di trovarsele nell’occhio.
Se n’è accorto perfino Nicola Zingaretti il quale (Repubblica di martedì) attribuisce, per esempio, “il crescere, soprattutto fuori di noi dello spirito polemico contro il Pd e contro la scelta del Sì, innanzitutto a una insofferenza verso il governo, la maggioranza e il lavoro svolto. Il No così diventa, a prescindere dal merito, la clava per colpire il Pd, la maggioranza e il governo stesso”. Insomma, sbotta il segretario del Pd, “non è più possibile sopportare l’ipocrisia di chi agisce per destabilizzare il quadro politico attuale, mentre c’è chi si carica spesso da solo la responsabilità della tenuta unitaria”. Alla buon’ora verrebbe da dire, anche se Zingaretti, dopo aver preso atto della realtà (e della clava) vi aggiunge due ingenuità. Uno: stanare, o costringere a una qualche resipiscenza i nemici di questo governo e di questo Pd, a fronte dell’“immenso lavoro di lotta quotidiana, di fronteggiamento delle drammatiche condizioni date”, eccetera. Ci perdoni segretario, ma se come credo stiamo pensando agli stessi “ipocriti”, a quelli là, come si dice a Roma, dell’“immenso lavoro” e del “fronteggiamento” non gliene potrebbe fregare di meno. Irrealistico appare pure l’appello a chi “reputa conclusa la fase di collaborazione con il M5S e con Italia Viva”, a indicare “un’altra strada, chiara e praticabile”, comprese “elezioni politiche immediate”. Poiché Zingaretti è tutt’altro che uno sprovveduto sa perfettamente che la politica più è ipocrita e più preferisce agire col favore delle tenebre, magari avvelenando i pozzi. Non caso, il leale Matteo Renzi ha già fatto sapere all’informazione unificata che “il Conte-2 è finito”, qualunque sia il risultato delle Regionali. Fuori dalle scatole senza voto anticipato, s’intende, ma con qualche pastrocchio di palazzo. Solita domanda: per quale motivo lor signori vogliono mandare a casa un premier che gode del 60% di popolarità tra gli italiani? Solita risposta: esattamente per lo stesso motivo.

Battete un colpo. - Marco Travaglio

Civico20News - «La Giostra dei Buffoni»
Preso con le solite pinze, l’ultimo sondaggio di Demoskopea dà la maggioranza giallorosa che sostiene il governo Conte al 46,9% (Pd 20,5, M5S 19,9, Iv 3,3, Sinistra italiana 3,2): cioè per la prima volta davanti al centrodestra, che la insegue al 45,3% (Lega 23,5, FdI 15,5, FI 6,3), al netto dei partitini di centrosinistra non rappresentati in Parlamento (Azione 3,3, +Europa 2,3, Verdi 2,1). Numeri ragionevoli, viste la buona prova offerta dal governo nell’incubo del Covid e la parallela cialtroneria delle opposizioni. Ma numeri da fantascienza se si guardano i talk e i giornali con i loro quotidiani De Profundis per il governo che, a loro dire, sta in piedi solo per evitare la sicura vittoria delle destre e comunque cadrà certamente domani, anzi la sera del 21 settembre, anzi oggi pomeriggio. Ma anche se si assiste allo spettacolo dei partiti della maggioranza, impegnatissimi h 24 a segare il fragile ramo su cui siedono. Ora la demenziale rivolta nei 5Stelle contro il premier che osa decidere sui servizi segreti, cioè fa il premier. Ora le cacofonie nel Pd sul taglio dei parlamentari, invocato e promesso per 40 anni, votato ancora l’anno scorso e oggi ripudiato con tanti No, Ni e distinguo su pressione di chi vuole abbattere il governo e la segreteria Zingaretti (i giornaloni e i loro mandanti), ma anche di chi li sostiene come la corda regge l’impiccato (i puristi da sesso degli angeli della vecchia sinistra e le povere Sardine, che dopo la visita chez Benetton non ne azzeccano più una, ridotte a una pattuglia di Tafazzi). E poi i soliti italomorenti dell’Innominabile che, non contenti dei propri fiaschi, vorrebbero esportarli in casa altrui.
Come se tutto ciò non bastasse, incombono le elezioni regionali in Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia. E anche lì, mentre le destre marciano compatte come falange macedone anche se non vanno d’accordo su nulla, i giallorosa procedono in ordine sparso come l’Armata Brancaleone. Salvo in Liguria, dove però si guardano bene dal fare campagna per il candidato unitario Sansa. Siccome poi in Veneto e in Campania hanno già vinto Zaia e De Luca, tutto si gioca nelle altre tre regioni “contendibili” che vedono M5S, Pd e Iv l’un contro l’altro armati. Anziché piagnucolare sul latte versato degli accordi mancati, o chiedere patti di desistenza e voti disgiunti, i candidati-presidenti Pd dovrebbero avere rispetto per gli elettori e rivolgersi soltanto a loro. I numeri parlano chiaro: gli unici in grado di strappare Toscana, Marche e Puglia alle destre sono Giani, Mangialardi ed Emiliano. I 5Stelle non andranno malissimo: la debolezza degli altri candidati esalta chi cerca vie di fuga “terzaforziste”.
In Puglia la Laricchia è data addirittura al 15% (mentre il prode Scalfarotto veleggia verso un sontuoso 1,6). Ma di quei voti il M5S non se ne farà nulla, se non per strillare altri cinque anni dai banchi dell’opposizione, senz’alcuna speranza che i nuovi “governatori” salvinian-meloniani gli diano retta. Infatti Conte e Di Maio han tentato fino all’ultimo di convincere i grillini di Marche e Puglia a far pesare i loro voti appoggiando i candidati Pd in cambio di cambiamenti su liste e programmi: invano. Ora, visto che nelle due Regioni e in Toscana tutto si gioca sul filo di un paio di punti, sta all’eventuale bravura di Mangialardi, Emiliano e Giani convincere almeno una parte degli elettori 5Stelle a disgiungere il voto: lista M5S e presidente Pd. Come? Non certo lanciando appelli a Crimi o Di Maio perché diano un’indicazione di voto che mai potrebbero dare, e comunque non verrebbe ascoltata; né tentando patti sotterranei per fare di nascosto ciò che non si può fare alla luce del sole; né comprando grillini sfusi in cambio di assessorati. Ma parlando direttamente agli elettori 5Stelle che, se insistono malgrado il rischio di mettere in pericolo il governo, è perché non sono soddisfatti da Mangialardi, Emiliano e Giani.
Cosa potrebbe convincerli o almeno allettarli? Qualcosa di radicalmente nuovo, netto e discontinuo. Basta fare l’opposto del nostro amico Sansa, che ieri s’è giocato qualche altro voto pentastellato schierandosi per il No. I tre aspiranti presidenti facciano campagna per il Sì con esponenti del M5S, del Pd e della Sinistra. Si impegnino a proseguire la battaglia anti-casta in casa propria, tagliando enti inutili, gettoni delle partecipate, emolumenti e vitalizi dei consiglieri regionali. E poi a bloccare i nuovi inceneritori, a fermare il consumo del suolo, a invertire la rotta dei finanziamenti alla sanità privata, a potenziare le misure sociali e le politiche ambientali. E infine annunciando nomi nuovi, prestigiosi, competenti, presi dalla società civile per i futuri assessorati. Solo così, convincendo gli elettori sui territori e non le segreterie a Roma, possono sperare nel voto disgiunto. Perché gli unici padroni dei voti sono gli elettori e non sarà certo un appello di Crimi o Di Maio a spostarli. Anzi, tentare di scavalcarli con accordi nazionali e appelli dall’alto è anche peggio dell’inerzia, perché li farebbe incazzare vieppiù. E l’unica “disgiunzione” che si otterrebbe è quella fra politici e cittadini. Che si chiama astensionismo. E non è un virus simmetrico: colpisce soprattutto chi già governa. Giani, Mangialardi ed Emiliano hanno 18 giorni per battere un colpo. In caso contrario perderanno e, anziché incolpare gli altri, dovranno prendersela solo con se stessi.