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martedì 30 luglio 2019

Incendi «senza precedenti» in Siberia e Alaska, a nord del circolo polare artico. - Chiara Severgnini

Incendi «senza precedenti» in Siberia e Alaska, a nord del circolo polare artico
Un’immagine satellitare di Nasa mostra l’estensione di alcuni incendi e la spirale di fumo (Foto: Nasa)

È da oltre un mese, ormai, che gli incendi stanno devastando vaste aree della Siberia e dell’Alaska, oltre il circolo polare artico. Coinvolta anche, in misura minore, la Groenlandia. Sono almeno cento, secondo il Copernicus Atmosphere Monitoring Service (Cams), i roghi di durata e intensità significativa che si sono verificati a nord del circolo polare artico a partire da giugno. Le foreste di questi territori sono da sempre interessate da incendi, ma questa volta il fenomeno è «senza precedenti». A definirlo così sono sia il Cams (che dipende dal Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine) sia l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm). Gli incendi di quest’anno, oltre ad essere iniziati un mese prima del solito, sono straordinari sia per la loro durata, sia per la loro estensione territoriale. E stanno immettendo nell’atmosfera quantità enormi di anidride carbonica: secondo l’Omm, nel solo mese di giugno questi roghi hanno prodotto la stessa quantità di CO2 emessa in un anno dalla Svezia. E non è che una stima parziale, che alcuni scienziati ritengono già superata.
Le cause.
Le aree più coinvolte sono Alaska e Siberia, dove alcuni roghi — secondo l'Organizzazione meteorologica mondiale — sono stati così estesi da coprire una superficie pari a quella di 100mila campi da calcio. Sia nello Stato americano, sia nella regione settentrionale della Russia quest’anno sono state registrate temperature insolitamente alte, che contribuiscono a rendere gli incendi più probabili e più estesi, perché fanno crescere più arbusti che poi, una volta seccati, bruciano facilmente, ad esempio se vengono colpiti da un fulmine. Il caldo, inoltre, asciuga terreni che normalmente sono ricchi di acqua e per questo immuni alle fiamme. È il caso, ad esempio, dei depositi naturale di torba, che già nel 2010, in alcune regioni nord-orientali della Russia, hanno alimentato un incendio durato settimane che costrinse le autorità a dichiarare lo stato di emergenza. Oppure del devastante incendio della tundra artica che ha interessato l’Alaska nel 2007, che ridusse in cenere un’area di oltre 1000 kmq: poco meno dell’estensione dell’intera provincia di Imperia.
I roghi visibili dallo spazio.
Gli incendi di quest’anno sono così estesi da essere visibili dallo spazio. Alcune immagini satellitari della Nasa mostrano i roghi siberiani che si sono scatenati nelle regioni di Irkutsk, Krasnoyarsk e Buryatia, e che si ritiene siano stati causati dai fulmini: a destra si vedono i punti da cui si propaga il fumo, al centro la spirale di cenere che hanno generato:


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L’avvertimento degli scienziati.
Il fenomeno non è nuovo, ma è molto peggiorato, complice il cambiamento climatico che, secondo l’Omm, « amplifica il rischio» che incendi simili si verifichino per via delle «temperature in aumento» e degli «slittamenti nell’andamento delle precipitazioni». È da anni che ricercatori e scienziati spiegano i rischi dell’innalzamento delle temperature nelle aree subpolari, quelle della tundra: uno studio di Nature del 2011 spiegava, ad esempio, che con lo scongelamento della parte superficiale del terreno permanentemente ghiacciato — il permafrost — si potrebbero rilasciare nell’atmosfera enormi quantità di carbonio e di metano. E, in caso di incendi, il fenomeno diventa esplosivo: una vera e propria bomba ecologica.

https://www.corriere.it/scienze/19_luglio_30/incendi-senza-precedenti-siberia-alaska-nord-circolo-polare-artico-d0f17362-b2a1-11e9-836f-760707711764.shtml

sabato 14 luglio 2018

Molecole organiche su Marte, la Nasa distrusse le prove per errore. - Elisa Buson

Rappresentazione artistica della missione Viking sul suolo di Marte (fonte: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona) © Ansa
Rappresentazione artistica della missione Viking sul suolo di Marte (fonte: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona)

Storico flop delle sonde Viking ricostruito grazie a Curiosity.


Anche i grandi sbagliano e la Nasa non fa eccezione: potrebbe essere stato proprio un suo errore a mandare in fumo le prove della presenza di molecole organiche su Marte raccolte nel 1976 dalle sonde Viking. Un fallimento che mandò in mille pezzi i sogni dei 'cacciatori' di vita aliena, stoppando per quasi vent'anni le ricerche nello spazio. A svelare le ragioni di quello storico flop sono le analisi condotte quasi 40 anni dopo da Curiosity, lo stesso rover della Nasa, che in giugno è  riuscito a dimostrare la presenza di molecole organiche sul Pianeta Rosso.
La 'pistola fumante' è stata trovata nei suoi dati dal gruppo internazionale coordinato dal laboratorio Latmos, dell'Istituto Pierre Simon Laplace di Parigi, cui ha preso parte anche il noto astrobiologo della Nasa Christopher McKay, con i colleghi Richard Quinn e Alfonso Davila. I risultati, pubblicati su Journal of Geophysical Research: Planets, suggeriscono che le molecole organiche raccolte dalle sonde Viking si sarebbero degradate quando i campioni di suolo marziano vennero scaldati per essere sottoposti ad analisi nel gascromatografo di bordo. Il calore avrebbe infiammato il perclorato, un composto tossico del terreno a quel tempo ancora ignoto, che avrebbe distrutto ogni molecola organica nei campioni.
La prova sarebbe nel clorobenzene individuato dalle Viking: inizialmente interpretato come frutto di contaminazione dei solventi organici usati per la gascromatografia, potrebbe essere in realtà il prodotto della reazione tra il perclorato e i composti organici presenti nel suolo marziano, come hanno suggerito le analisi condotte da Curiosity usando temperature più elevate rispetto a Viking.
"Il fallimento della missione Viking - ricorda l'astrobiologa Daniela Billi, dell'Università di Roma Tor Vergata - portò ad una battuta d'arresto nella ricerca di vita nello spazio, provocando un disinteresse che svanì solo vent'anni più tardi, con la scoperta del primo pianeta extrasolare, dell'oceano nascosto del satellite di Giove Europa e il ritrovamento del meteorite marziano con quello che sembrava essere un fossile di batterio".
Di certo la lezione di Viking è servita ad affinare gli strumenti per la caccia a E.t. "Abbandonata la tecnica della gascromatografia, il prossimo rover Curiosity 2020 userà uno strumento a tecnologia laser per vaporizzare le molecole senza surriscaldarle", spiega Billi. "Anche la missione europea ExoMars userà la spettrometria Raman: stiamo già analizzando gli spettri prodotti da molecole organiche di origine biologica terrestre, alterate da raggi ionizzanti, per capire cosa potremo trovare su Marte".

lunedì 26 giugno 2017

Anonymous: "La Nasa sta per annunciare l'esistenza degli alieni".


Anonymous: "La Nasa sta per annunciare l'esistenza degli alieni"

Il gruppo di hacker diffonde un video in cui rivela - senza nessuna prova a sostegno - che l'ente spaziale starebbe per annunciare la scoperta di vita aliena su un esopianeta.

Il gruppo di attivisti hacker Anonymous, che in passato è assurto a notorietà mondiale per aver attaccato Isis e Donald Trump, ha diffuso un video in cui ipotizza che la Nasa stia per annunciare che sono state scoperte forme di vita aliene nello spazio.

Anonymous: "La Nasa sta per annunciare l'esistenza degli alieni"
Uno screenshot del video di Anonymous.

Secondo Anonymous, scrive il britannico Independent, nell'ultimo incontro della "Us Science Space and Tecnology committee" della Nasa, un portavoce, il professore Thomas Zurbuchen, ha dichiarato: "La nostra civiltà è sul punto di scoprire le prove di vita aliena nel cosmo. Alla luce delle differenti missioni che sono impegnate nella ricerca di vita aliena, siamo sul punto di fare una delle più profonde e senza precedenti scoperte della storia".

Anonymous lega questa dichiarazione, non resa pubblica, all'annuncio della scorsa settimana della scoperta di altri 219 nuovi esopianeti, (all'esterno del sistema solare) di cui 10 rocciosi e che si trovano nella cosiddetta "fascia di Goldilocks", ossia la porzione di spazio che rispetta i requisiti per la possibilità di ospitare forme di vita.

Pianeti che non si trovano troppo vicino al Sole, come l'inferno di Mercurio (il pianeta più vicino alla nostra stella), o troppo lontano, come Nettuno (una palla di ghiaccio). In grado quindi, di ospitare sulla propria superficie l'acqua allo stato liquido, considerata la 'conditio sine qua non' per avere forme di vita. Vedremo se l'annuncio di Anonymous si rivelerà una bufala o avrà un fondo di verità.


http://www.repubblica.it/scienze/2017/06/25/news/anonymous_la_nasa_sta_per_annunciare_l_esistenza_degli_alieni_-169110696/

mercoledì 1 marzo 2017

Nuovo sistema planetario e forme di vita intelligenti, è solo questione di tempo. - Vladimiro Bibolotti

Nuovo sistema planetario e forme di vita intelligenti, è solo questione di tempo

Spettacolare conferenza della Nasa per confermare la scoperta di sette pianeti a 39 anni luce dal nostro sistema solare che orbiterebbero attorno a una stella, una Nana Rossa ultrafredda denominata Trappist 1, tre dei quali rientranti nella cosiddetta “fascia di abitabilità”. Come al solito la suggestione principale oltre la tipologia o la morfologia dei pianeti, riguarda la probabilità della presenza di acqua allo stato liquido e quindi la scoperta di trovare terre simili alla nostra e magari forme di vita anche intelligente. Ma se così fosse stato il bailamme generato per l’evento sarebbe stato certamente diverso e probabilmente avrebbe coinvolto anche le Nazioni Unite.
In realtà come ha affermato Thomas Zurbuchen, capo del Direttorato Missioni scientifiche della Nasa, nella conferenza stampa di Washington: “Per la prima volta abbiamo scoperto il maggior numero di pianeti di tipo terrestre attorno a una singola stella, e per la prima volta siamo stati capaci di misurarli. Questa scoperta ci dà un suggerimento: trovare una seconda terra non è più una questione di se, ma di quando“.
Quest’ultima notizia giunge a distanza di una settimana dall’altra importante notizia riguardante il nostro sistema solare: il 16 febbraio scorso la Nasa annunciava infatti, di aver individuato per la prima volta in modo inequivocabile tracce di materiale organico sulla superficie del pianeta nano Cerere. Tali composti possono essere considerati i “mattoni della vita” e sarebbero nati spontaneamente, cioè senza lo svilupparsi di quel processo previsto dalla teoria della Panspermia cosmica: piccole comete o meteoriti potrebbero aver contaminato il terreno inseminando la superficie.
Altra importante scoperta, quella fatta con il telescopio Kepler che ha portato il numero delle galassie da duecento miliardi a duemila miliardi elevando esponenzialmente il numero dei pianeti di tipo terrestre abitabili nella nostra Via Lattea dove le stime arrivano a calcolarne circa 60 miliardi. Un calcolo percentuale che permette anche al più pessimista dei ricercatori di elevare a centinaia di migliaia le possibilità di trovare non più solo sulla Terra, civiltà intelligenti magari tecnologicamente evolute.
Forse è questa la svolta della Nasa che in breve tempo ha prodotto una serie di conferenze mirate a creare interesse circa la possibilità e la scoperta di terre abitabili o abitate. Quasi in sincronia, bisogna ricordare le esternazioni del fisico Stephen Hawking, secondo cui la sopravvivenza del genere umano (prevista ancora per massimo 1000 anni) dipende dalla possibilità di trasferimento su altri pianeti simili alla Terra.
Se si aggiungono anche le nuove missioni previste per il 2022 sulle lune di Giove per trovare forme di vita sotto gli oceani, dobbiamo pensare che gli scienziati della Nasa, del Seti e di altre agenzie spaziali, stiano preparando l’opinione pubblica alla notizia della scoperta di forme di vita magari intelligenti nella nostra galassia.
Intanto sulle ali dell’entusiasmo anche il nostro astronauta Paolo Nespoli citando la statistica dei grandi numeri, subito dopo la conferenza di Washington, ha affermato: “E’ ormai sicuro che non siamo soli”.

martedì 17 marzo 2015

Clima, allarme Nasa: “Rischio siccità”. E la California estrae acqua di 20mila anni fa. - Davide Patitucci

Clima, allarme Nasa: “Rischio siccità”. E la California estrae acqua di 20mila anni fa

In uno studio condotto dal Goddard institute for space studies, in collaborazione con la Cornell University e la Columbia University, e pubblicato su “Science Advances" si parla di “rischio siccità senza precedenti nel 21 secolo nelle pianure centrali e nelle regioni sud-occidentali americane”.

Le guerre del futuro potrebbero scoppiare a causa dell’oro blu. L’acqua potrebbe diventare sempre più rara e, di conseguenza, sempre più preziosa. Gli allarmi sul clima degli scienziati ormai non si contano più. L’ultimo, contenuto in uno studio Usa condotto dal Goddard institute for space studies della Nasa, in collaborazione con la Cornell University e la Columbia University, e pubblicato nei giorni scorsi su “Science Advances”, parla di “rischio siccità senza precedenti nel 21 secolo nelle pianure centrali e nelle regioni sud-occidentali americane”. Tutta colpa del surriscaldamento globale – stimato, secondo l’ultimo rapporto dell’Ipcc, il panel dell’Onu per lo studio dei mutamenti climatici, tra gli 0,3 e i 4,8 gradi entro la fine del secolo -, che potrebbe provocare solo negli Usa “35 anni di siccità, a partire dal 2050”, a causa di minori precipitazioni e un aumento dell’evaporazione.
Ne sanno qualcosa gli abitanti della California, che sta vivendo uno dei peggiori periodi di siccità della sua storia, e dove il 2014 è stato l’anno più caldo da quando si effettuano misure delle temperature. Come se non bastasse, le autorità locali hanno deciso di mettere in campo iniziative che potrebbero peggiorare la situazione. Stanno, infatti, pompando dal sottosuolo acqua più antica delle Piramidi, piovuta sulla Terra all’epoca in cui i nostri antenati attraversarono per la prima volta lo Stretto di Bering, passando dall’Asia al continente americano, tra i 15 e i 20mila anni fa. Acqua preistorica, quindi. “Quello che vedo è un futuro disastroso – commenta Vance Kennedy, idrologo 91enne che ha studiato tutta una vita le falde acquifere californiane -. Stiamo rimuovendo acqua che è stata nel sottosuolo molto a lungo, e che non potrà essere facilmente rimpiazzata”.
Tutta quest’acqua sarà in larga parte impiegata in agricoltura. “Se continuiamo ad irrigare a un tasso crescente come stiamo facendo negli Usa, non andremo avanti a lungo”, commenta Leonard Konikow, idrogeologo dell’U.S. Geological Survey. Il rischio, paventano i geologi Usa, è che parte del terreno possa lentamente affondare, un fenomeno definito dagli esperti “subsidenza”. Per spiegarlo, gli studiosi ricorrono al paragone con le spugne. “All’inizio hanno un bell’aspetto, ma dopo un mese di utilizzo quotidiano – spiega Bryant Jurgens, idrologo presso lo U.S. Geological Survey – perdono efficacia. Una cosa analoga accade alle falde acquifere”.
Il World economic forum (Wef), intanto, nel suo recente “Rapporto sui rischi globali per il 2015” evidenzia che nel 2030 la domanda di acqua rischia di essere superiore del 40% rispetto alle risorse disponibili. “Tutte le maggiori aree agricole del Pianeta, dalla Central Valley californiana al nord della Cina e dell’India – si legge nel rapporto -, stanno estraendo troppa acqua dalle falde”. Con pericolose ripercussioni sui centri abitati. “Centri urbani come Dhaka, Houston, Jakarta e Città del Messico stanno letteralmente collassando – spiegano gli esperti del Wef -. Jakarta, ad esempio, è già sprofondata di 4 metri nel corso di una generazione”. E la soluzione non sembra dietro l’angolo. “La perdita di acqua di faglia e l’aumento delle temperature – sottolinea lo studio della Nasa – probabilmente non faranno che aumentare l’impatto futuro della siccità nelle regioni più esposte, rendendo più complicato un adattamento”. “Abbiamo realmente bisogno – conclude Toby Ault, della Cornell University, uno degli autori della ricerca – d’iniziare a pensare a orizzonti più a lungo termine”.

sabato 7 marzo 2015

La Terra ha una seconda luna. Esperti: “Possibile teatro di un futuro sbarco”. - Davide Patitucci

La Terra ha una seconda luna. Esperti: “Possibile teatro di un futuro sbarco”

Si chiama “3753 Cruithne”, come un leggendario popolo della Britannia dell’Età del Ferro. Secondo quanto riportato dal sito della Smithsonian Institution Usa, infatti, la bizzarra orbita potrebbe rappresentare un “ideale banco di prova per capire come si è formato ed evoluto il Sistema solare”, plasmato dalla forza di gravità.

La Luna non è l’unico satellite naturale che accompagna la Terra nel suo peregrinare intorno al Sole. Esiste una seconda luna. Un piccolo corpo celeste, del diametro di appena 5 chilometri, che disegna attorno al nostro Pianeta un’orbita simile a un arabesco, talmente bizzarra da arrivare a sfiorare anche quelle di altri due pianeti, Marte e Venere. Si chiama “3753 Cruithne”, come un leggendario popolo della Britannia dell’Età del Ferro.
Gli astronomi conoscono questo piccolo corpo roccioso da più di dieci anni. È stato, infatti, descritto per la prima volta su Nature in uno studio del 1997, a firma degli astronomi Paul Wiegert eKimmo Innanen, della York University in Canada, e Seppo Mikkola, dell’University of Turku in Finlandia. Ma solo di recente gli studiosi hanno iniziato a comprenderne a fondo le caratteristiche. “Questo quasi-satellite si muove in risonanza con la Terra, la cui gravità – spiega su “New Scientist” Martin Connors, astronomo presso l’Athabasca University in Canada, ed esperto di asteroidi – modifica la posizione del corpo celeste come un adulto fa dondolare un bimbo su un’altalena”.
L’orbita di Cruithne è talmente allungata che impiega 770 anni per completare il suo viaggio intorno alla Terra. Per questo, gli esperti preferiscono etichettarlo come “quasi-satellite”. Proprio a causa della sua particolare orbita, diversa da quella ellittica tradizionale, questa seconda luna, però, non è mai visibile dalla Terra, né a occhio nudo, né coi telescopi. E questo riduce notevolmente il suo fascino rispetto al satellite per antonomasia, quello con la “L” maiuscola. Ma non la sua importanza per gli astronomi. Secondo quanto riportato dal sito della Smithsonian Institution Usa, infatti, la bizzarra orbita di questa seconda luna terrestre potrebbe rappresentare un “ideale banco di prova per capire come si è formato ed evoluto il Sistema solare”, plasmato dalla forza di gravità.
Gli asteroidi e gli altri corpi celesti rocciosi simili a Cruithne sono da tempo oggetto di studio da parte di astronomi e planetologi, perché riportano indietro le lancette del Sistema solare fino alle sue origini. In queste ore, ad esempio, la sonda della Nasa “Dawn” incontra il più grande corpo roccioso della cosiddetta “cintura degli asteroidi”, il pianeta nano Cerere. Inoltre, in prospettiva di un futuro sbarco su Marte, tra le tappe intermedie che la Nasa ha in programma di realizzare c’è proprio lo sbarco su un asteroide, o la cattura di uno di questi fossili celesti con una sorta di lazo da “cowboy”, per spingerlo intorno all’orbita della Luna e poterlo così studiare da vicino.
In quest’ottica, anche Cruithne potrebbe essere protagonista di un futuro sbarco, magari come quello della missione Rosetta sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Gli astronomi negli ultimi tempi stanno rivalutando questa mini-luna, la cui forma, secondo le ultime stime, potrebbe essere simile proprio a quella a scamorza della cometa 67P. Il tempo gioca a favore di Cruithne. Secondo i calcoli degli astronomi, questo piccolo e misterioso satellite continuerà a viaggiare per il Sistema solare in compagnia della Terra almeno per altri 8mila anni. Poi, forse, sarà catturato dall’abbraccio gravitazionale di Venere, restituendo così il primato alla Luna.

lunedì 1 dicembre 2014

Hubble scopre un buco nero al centro della galassia più piccola mai conosciuta!

buco nero
Un gruppo di astronomi della University of Utah guidati da Anil Seth hanno identificato nella galassia nana ultracompatta, la più piccola che conosciamo, un buco nero supermassiccio. La scoperta è alquanto sorprendente e suggerisce il fatto che i buchi neri di grandi dimensioni possono essere molto più comuni di quanto ipotizzato. I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature.
Questa immagine ripresa dal telescopio spaziale Hubble mostra la gigantesca galassia M60 e la galassia nana ultracompatta M60-UCD1 che risulta l’oggetto più piccolo che conosciamo contenente un buco nero supemassiccio. M60 sta attirando un’altra galassia, NGC4647, con la quale colliderà tra qualche tempo. Credit: NASA/Space Telescope Science Institute/European Space Agency

Le osservazioni sono state condotte con il Gemini North 8-meter optical-and-infrared telescope situato a Mauna Kea, nelle Hawaii, mentre il telescopio spaziale Hubble è stato utilizzato per identificare il buco nero di 21 milioni di masse solari nella galassia nana M60-UCD1. La scoperta suggerisce il fatto che devono esistere tante galassie nane ultracompatte contenenti un buco nero supermassiccio nei loro nuclei. Si ritiene che queste piccole galassie siano i residui di galassie più grandi che sono state ‘strappate’, per così dire, a seguito delle interazioni gravitazionali con altre galassie. “Non conosciamo altro modo con cui si può fare un buco nero così grande in un oggetto così piccolo“, spiega Seth. I buchi neri sono stelle o insiemi di stelle collassate la cui gravità è tale che nemmeno la luce riesce a sfuggire alla loro intensa attrazione gravitazionale. Di solito, i buchi neri giganti, che hanno masse dell’ordine di qualche milione di masse solari o più, si trovano nei nuclei delle galassie. Ad esempio, il buco nero della Via Lattea, Sagittarius A*, possiede una massa pari a 4 milioni di Soli e nonostante sia così massiccio la sua massa risulta meno dello 0,01 percento della massa dell’intera galassia, che viene stimata essere dell’ordine di circa 50 miliardi di masse solari. Dunque, per confronto, il buco nero della galassia nana in questione ha una massa cinque volte superiore rispetto a quella del buco nero della nostra galassia che, a sua volta, è equivalente al 15 percento della massa totale della galassia nana, che è di 140 milioni di masse solari. “Ciò è molto sorprendente, se pensiamo che la Via Lattea è 500 volte più grande e 1.000 volte più pesante di M60-UCD1“, dice Seth. “Inoltre, pensiamo che una volta la galassia nana doveva essere enorme, forse contenente 10 miliardi di stelle, e che passando in prossimità delle regioni centrali di una galassia ancora più grande, M60 distante circa 60 milioni di anni-luce nella costellazione della Vergine, perse tutte le stelle e la materia scura delle regioni periferiche che diventarono parte di M60. Forse, questo processo è avvenuto qualcosa come 10 miliardi di anni fa, certamente non lo sappiamo con certezza“. E’ probabile che la galassia nana possa subire un processo di “merging galattico” con M60, che contiene un buco nero supermassiccio di 4,5 miliardi di masse solari, mille volte superiore a quello della Via Lattea in termini di massa, e quando ciò accadrà anche il buco nero di M60-UCD1 si fonderà con quello di M60. In più, bisogna dire che M60 sta attirando un’altra galassia a spirale, NGC 4647 che è circa 25 volte meno massiccia. Una ipotesi alternativa suggerisce che M60-UCD1 non abbia in realtà un buco nero di grossa taglia e che invece il suo nucleo sia popolato da un insieme di stelle massicce e deboli. Ma le osservazioni realizzate con il telescopio Gemini North e le analisi effettuate utilizzando l’archivio delle immagini del telescopio spaziale Hubble hanno rivelato che la massa è concentrata nel nucleo della galassia nana, suggerendo la presenza di un oggetto supermassiccio. Insomma, pare proprio che M60-UCD1 sia ciò che rimane del nucleo di quella che una volta doveva essere una galassia più grande e che è probabile che altre galassie nane supercompatte possano in definitiva ospitare buchi neri di grandi dimensioni.

sabato 14 dicembre 2013

Spruzzi d’acqua nel cielo d’Europa. - Marco Galliani




Poderosi getti d'acqua sollevati fino a 200 chilometri sopra l'atmosfera della luna ghiacciata di Giove sono stati individuati da un team di ricercatori statunitensi e tedeschi grazie alle riprese del 'solito' Hubble. Giuseppe Piccioni (INAF): "Le lune di Giove possiedono caratteristiche uniche all'interno del Sistema solare. Con la prossima missione JUICE dell'ESA riusciremo a studiare con un livello di dettaglio mai raggiunto questi mondi potenzialmente abitabili".

A prima vista, quelle immagini così sgranate e indistinte di Europa, una delle lune di Giove, che compaiono oggi in un articolo pubblicato su Science Express, non sembrano particolarmente interessanti. Eppure dietro a quei pixel che assumono colori dal celeste chiaro fino al bianco assoluto, potrebbe celarsi una importantissima scoperta: la presenza di pennacchi d’acqua che si stagliano sopra la superficie di Europa, letteralmente sparati verso l’alto fino ad altezze di 200 chilometri e fuoriusciti da qualche frattura nella spessa calotta ghiacciata che avvolge il corpo celeste.
Le riprese dei presunti ‘geyser’ d’acqua sono state ottenute nella banda di radiazione ultravioletta dal telescopio spaziale Hubble con il suo spettrografo STIS (Space Telescope Imaging Spectrometer) nel corso di alcune osservazioni effettuate tra novembre e dicembre del 2012. Lorenz Roth, ricercatore della Southwest Research Institute negli USA e Joachim Saur dell’Istituto di Geofisica e Meteorologia di Colonia in Germania, insieme al loro team hanno individuato in quelle immagini delle anomale abbondanze di ossigeno e idrogeno al di sopra di due differenti regioni nell’emisfero sud della luna di Giove.
“I risultati dell’articolo pubblicato oggi su Science danno una risposta chiave ed inequivocabile della presenza di getti d’acqua transienti nell’emisfero sud del satellite galileiano Europa” commenta Giuseppe Piccioni, planetologo dell’INAF-IAPS di Roma. “La rivelazione è stata resa possibile grazie allo spettrometro ultravioletto a bordo del telescopio spaziale Hubble (HST), in grado di identificare le deboli emissioni provenienti dall’interazione del vapor d’acqua con l’ambiente estremamente energetico del sistema di Giove, i cui elettroni sono in grado di modificare ed eccitare energeticamente le molecole. Osservazioni precedenti dallo spazio ci avevano già dato la certezza della presenza di un oceano sotterraneo ad Europa e questi risultati sono compatibili con getti supersonici di 700m/s, ovvero 2500 chilometri all’ora, in grado di arrivare a 200 km di altezza. Questi poderosi geyser sarebbero generati dal potente stress mareale esercitato sulla luna dall’enorme e vicino pianeta Giove. È notevole anche il fatto della variabilità nel tempo di questi fenomeni, osservati quando Europa è all’apocentro (ovvero al suo punto di massima distanza da Giove) e non al pericentro (il punto di massimo avvicinamento al pianeta), compatibili con i modelli matematici attuali”.
I ricercatori, forti di queste importanti evidenze osservative, avanzano similitudini tra i fenomeni scoperti su Europa con quelli già noti che avvengono su un’altra luna nel Sistema solare, ovvero Encelado, che orbita attorno a Saturno, dove emissioni di vapore ad alta pressione emergono da sottili crepe sulla crosta del corpo celeste.
“Lo sapevamo già che Europa e più in generale le lune di Giove possiedono delle caratteristiche uniche all’interno del Sistema solare, non ultima la presenza di un enorme bacino di acqua allo stato liquido sotto la sua crosta, dove forse potrebbero essersi sviluppate elementari forme di vita” aggiunge Piccioni. “Con la missione JUICE dell’ESA recentemente approvata, avente come obiettivo lo studio approfondito del sistema di Giove in cui l’Italia figura con ruoli di primissimo piano grazie allo sforzo di ASI, INAF e le altre Università ed enti coinvolti, riusciremo a studiare con un dettaglio mai raggiunto precedentemente questi ed altri fenomeni peculiari di questi mondi potenzialmente abitabili”.