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venerdì 6 ottobre 2017

Atenei, ripartire da trasparenza e mobilità. - Dario Braga

(Agf)


Quando il «Sole» ha pubblicato a fine luglio l’articolo sulla perpetua discussione sulle carriere universitarie con il sommario “Quarant’anni persi” sono rimasto sorpreso. Un titolo un po’ forte, ho pensato, ma si sa, i titolisti devono catturare l’attenzione del lettore.
Ne è nato un thread e gli interventi che ne sono seguiti hanno disegnato un panorama in chiaroscuro della nostra accademia con diverse sottolineature sui temi delle risorse, del blocco degli scatti, del reclutamento, del dottorato, della valutazione e dell’Anvur, ecc. Andava tutto bene, si stava riflettendo in modo utile – e certamente non solo sul Sole 24Ore – sul presente e sul futuro dell’università, sulla necessità di aumentare in modo significativo l’investimento in ricerca e didattica, e sul ruolo dell’università in una società colta, scientificamente e tecnicamente in grado di confrontarsi con i Paesi evoluti.
Poi è arrivata l’ennesima “concorsopoli”, con tanto – e questa è stata certamente la novità più eclatante – di arresti domiciliari e sospensione dal servizio per un numero ampio di illustri colleghi. Abbiamo ricominciato a parlare di concorsi, di ricorsi e di terapie più o meno fantasiose per “curare” questo male cronico della accademia italiana. E tutti i ragionamenti hanno fatto un salto indietro, come nel gioco dell’oca. Altro tempo perso ?
Proviamo a rispondere, ma prima, però, mettiamo in chiaro una cosa: l’università italiana funziona. A dirlo non siamo noi, ce lo dicono le valutazioni internazionali e ce lo dice la vasta rete di relazioni scientifiche che coinvolgono i nostri studiosi e ricercatori. E questo nonostante la scarsità di finanziamenti, l’obsolescenza di molte strutture e la irrazionale distribuzione delle risorse, le sacche di inefficienza, il numero stravagante di settori disciplinari, la burocrazia soffocante e in continua espansione, ecc...
Se normalizziamo i nostri risultati rispetto allo sforzo finanziario del Paese, alcune delle nostre università salgono tra le prime nel mondo. In termini di numero di pubblicazioni e di qualità delle pubblicazioni siamo addirittura superiori, nel confronto pro-capite, ai ricercatori di Paesi più avanzati del nostro. I nostri laureati sono ambìti all’estero e sono in grado di ottenere risultati enormi. Siamo un Paese “generoso”: investiamo molto nella loro formazione e non chiediamo nulla in cambio.
Dato questo doveroso riconoscimento al lavoro di docenti e ricercatori il problema dei concorsi universitari ci rimane incollato addosso. Ed è un problema che non risolveremo – nell’opinione di chi scrive e anche di molti altri commentatori – fino a quando all’università saremo costretti a “cooptare mediante concorso”. Costretti a praticare un ossimoro da una percezione errata del lavoro accademico.
Il professore universitario insegna e fa ricerca. È la ricerca il grande discrimine, la caratteristica peculiare, la grande differenza con i docenti delle scuole primarie e secondarie (ai quali non vogliamo togliere nulla, perché sono proprio loro a gettare le basi sulle quali noi costruiamo). Ed è proprio la ricerca che rende indispensabile la cooptazione: un ateneo, un dipartimento deve poter scegliere il tipo di competenza che serve perché i ricercatori non sono intercambiabili. È un concetto difficile da assimilare per chi non conosce le università del mondo o è legato a una visione burocratica della docenza.
Per questo è stato introdotto un passaggio a monte: la Abilitazione scientifica nazionale (Asn). Non un concorso (come purtroppo la maggior parte della stampa ha riportato commentando l’inchiesta di Firenze) ma una “patente” per accedere ai concorsi successivi banditi sulle necessità di ricerca e didattica dei dipartimenti.
L’Asn non è a numero chiuso, richiede che venga superata una soglia di qualità/quantità di produzione scientifica per potersi poi presentare ai concorsi. La mancata abilitazione preclude la possibilità di partecipare a qualsiasi competizione. È come la selezione per una gara sportiva internazionale, o per un concorso canoro. Solo se ti qualifichi potrai partecipare ai concorsi che verranno.
L’inchiesta di Firenze sembra spingere a rimettere tutto in discussione. La stampa e i social network sono pieni di commenti indignati, di polemiche e di proposte contraddittorie.
Non credo sia una buona idea rimettere tutto in discussione. Se lo facessimo bloccheremmo di nuovo il turnover universitario e aumenteremmo gli anni da buttare via. È tuttavia possibile agire da subito nell’ambito della normativa attuale su due “fondamentali” del reclutamento: mobilità e trasparenza.
Per incentivare la mobilità (e contrastare i rapporti di fedeltà accademica) è sufficiente eliminare l’oggettivo vantaggio economico per le casse degli atenei derivante dalla promozione di interni. Meglio ancora se si renderà vantaggioso chiamare ricercatori e professori da altre sedi con risorse ad hoc di mobilità e di installazione.
Per elevare il livello di trasparenza dei momenti concorsuali basta esporre i CV dei candidati – come le partecipazioni di matrimonio - in modo che tutti possano rendersi conto di quali competenze sono a confronto (e non si tiri fuori la privacy: sono concorsi per ruoli pubblici), chiedere referenze, e chiamare tutti i candidati a svolgere seminari pubblici dipartimentali. Chi partecipa potrà porre domande e valutare le risposte che riceve. Le commissioni decideranno in piena autonomia ma con maggiore accountability.
Non sono idee originali: si fa così in molti dei Paesi con i quali ci confrontiamo. Due “accorgimenti” semplici ma... elettoralmente impopolari. Eppure, da soli potrebbero contribuire ad arrestare una deriva che sta allontanando l’università italiana da quelle dei Paesi più avanzati.
Ripartire da zero, semmai.
Il periodo buio che stiamo attraversando non è propedeutico ad una visione più sana della questione.
Chi non ha numeri suoi, cerca i numeri degli altri e li fa propri. E' più facile raggiungere la vetta con l'ascensore che scalarla.
E' questa la nuova ottica del mondo, e chi non aderisce al sistema, chi non è corrotto e disonesto, diventa lo zimbello di chi sa approfittare delle situazioni.
Non credo che sarà facile ripristinare la legalità e la coerenza dettate dalla logica e dalla coscienza se non si ripristinano etica, deontologia, rispetto di ciò che ci circonda.

lunedì 15 giugno 2015

KOC COMPARE AL BILDERBERG: SARA' QUESTO L'ANNO IN CUI TUTTO SALTA FUORI? - CHARLIE SKELTON

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Ho teso un’amichevole mano a uno dei membri più eminenti del gruppo – ora quello che si richiede è un po’ di trasparenza pubblica
C’era uno sfortunato ingorgo di limousine alle porte dell’Interalpen-Hotel. Da un lato c’era un gruppetto di poliziotti che confabulavano tra loro, sfogliando mestamente una lista di nomi e non capendoci nulla, mentre una fila di Mercedes V12 aspettava in trepidazione. Cosa stava succedendo? Gli organizzatori si erano accorti di aver fatto un errore madornale invitando Ed Balls e cancellando il suo nome all’ultimo momento?

Un van si è accostato in fondo alla coda, trasportando una persona che conoscevo bene. Era il miliardario turco e membro del consiglio direzionale del Bilderberg, Mustafa Koç (nella foto, ndr). Si stava grattando la nuca da wrestler con la mano paffuta e non sembrava affatto contento dall’ingorgo. Non avevo mai visto un Koç vedersi negato l’accesso in maniera così imbarazzante dal mio ballo di fine anno all’università.
Dopo aver scattato una foto veloce mi sono lanciato in un saluto. “Mr. Koç!” ho esclamato, salutando amichevolmente. Lui mi ha fatto un cenno di risposta. Mi sono presentato ed ho scattato un'altra foto. Tutto ciò all’improvviso è apparso poco educato in una situazione del genere, per cui mi sono scusato. “No problem” ha detto, sorridendo.
Oh mio Dio, eccolo: dialogo! La grande connessione io-tu alla base di tutte le interazioni umane. Io e Koç, due anime che entrano in contatto, oltre le barriere. Mi sono spinto un po’ più in là.
“Sta aspettando in grazia la conferenza?”, i suoi occhi hanno brillato ed ha annuito. “Quali sono le sue opinioni circa le recenti elezioni in Turchia?” a quel punto la nostra amicizia in erba è stata interrotta sul nascere dall’autista di Koç che ha alzato il finestrino. L’ingorgo si è risolto e Koç se n’è andato.

Mi rendo conto che Skelton- Koç non sia stato Frost-Nixon, ma è stato un raro momento di umanità attraverso le barricate. Ammettiamolo, questo esiguo scambio di battute gridato oltre il petto di un autista è la cosa più simile ad una conferenza stampa che potremo ottenere in tutto questo Bilderberg.
Devo ammetterlo, l’enorme assenza di cooperazione con la stampa da parte di quello che è un importante summit politico, a cui partecipano politici, primi ministri, fautori delle politiche pubbliche, è sempre più assurdo anno dopo anno. Al summit di quest’anno, ad esempio, il tema della “Grecia” verrà discusso da tre primi ministri europei, il presidente dell’Austria, un membro del comitato esecutivo della BCE, due ministri delle finanze europei (tra cui George Osborne) e il capo della Dutch National Bank. Alcuni dei giocatori più importanti di questa partita.
A discutere con loro, abbiamo molti CEO e membri dei CDA di alcune immense istituzioni finanziarie, ognuno dei quali ha interessi lampanti in ciò che accadrà alla Grecia: i capi di HSBC, Lazard, Deutsche Bank, Santander e KKR; membri del CDA di Morgan Stanley e Goldman Sachs; il capo di Goldman Sachs International e il vicecapo di Black Rock. Tutti questi pubblici ufficiali che si incontrano con tutte queste società e nessuna rappresentanza di politici greci. E nessuna copertura da parte della stampa.
Sarebbe di certo più saggio e rispettoso nei confronti dei giornalisti molestati dalla polizia e degli elettorati che i politici partecipanti convocassero una conferenza stampa l’ultimo giorno. C’è un precedente in questo senso: una volta lo facevano, prima dello scandalo Lockheed e le dimissioni del Principe Bernhard li facessero fuggire ancor più nella segretezza. Ho visto riprese delle conferenze stampa dei Bilderberg degli anni ’70. Può succedere ancora.
Sono sicuro che i finanziamenti che Goldman Sachs e BP buttano nel meeting Bilderberg (come rivelato nei report annuali dell’Associazione Bilderberg) potrebbero coprire le spese di un paio di file di sedie ed un microfono. Niente di pomposo. Una breve dichiarazione e un po’ di domanda-risposta.
Non serve reinventare la ruota. Dateci qualcosa che le somigli. Un verbale timbrato sarebbe un buon inizio. Ci prendiamo qualsiasi cosa. Siamo stanchi di vedere passaporti diplomatici che passano dietro finestrini oscurati. Stanchi di politici che nascondono la faccia e ministri che si rifiutano di riferire gli argomenti di cui hanno trattato. Stanchi di ufficiali di polizia che, quando non disturbano i giornalisti, si mettono in fila davanti alle limousine per nasconderle alla vista.

Ecco un’idea: Mustafa Koç potrebbe aiutarci a far ripartire queste conferenze stampa? La conglomerata della famiglia Koç, brillantemente chiamata Koç Holding, elenca “quattro princìpi fondamentali inviolabili” nei propri articoli di governante aziendale e il primo di essi è la “trasparenza”. Koç stesso, il presidente della società, sembra felice di intrattenere la stampa e si è esposto contro la corruzione in politica. Ha detto di recente, poco prima delle elezioni nel suo paese “La nostra gente merita politici puliti”.

Politica pulita è politica aperta. La trasparenza permette alla luce del sole di entrare.
Koç potrebbe avere il pugno chiuso, ma sembra uno a cui non interessa far mulinare le braccia. Non c’è nessuna smentita del fatto che Koç sia una presenza di spicco al Bilderberg. Ci sono molti amici di Koç nel comitato direttivo, quindi quando c’è da fare lobbysmo per migliori relazioni con la stampa, magari Koç può tirare un colpo? Sicuramente una cosa così semplice non sarebbe complicata per lui. Non per un Koç così potente.
Dopotutto Koç è incredibilmente connesso nel mondo del business. È membro dell’International Avisory Board di Rolls Royce e siede accanto a Tony Blair nell’International Advisory Council di JPMorgan. Il suo compare del comitato direttivo, Peter Sutherland, il presidente di Goldman Sachs International, è nel CDA di Koç Holding.
Io penso, nel mio piccolo, di avere un tacito accordo con Koç. Quindi, nello spirito del dialogo e del progresso, della trasparenza e della “politica pulita”, mi espongo con lui, per aiutarlo a rendere questa conferenza stampa realtà. Potrei essere in errore, i miei sogni potrebbero andare in fumo, ma ho la sensazione che il 2015 potrebbe essere l’anno di Koç.

Charlie Skelton

Fonte: http://www.theguardian.com
Link: http://www.theguardian.com/world/2015/jun/12/koc-pops-up-at-bilderberg-could-this-be-the-year-they-let-it-all-hang-out
12.06.2015
Il testo di questo articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte comedonchisciotte.org e l'autore della traduzione FA RANCO

LEGGI ANCHE: BILDERBERG 2015: MINISTRI E CRIMINALI A BRACCETTO
GIORNALISTI COCCOLATI E RIVERITI AL G7, ASSEDIATI DALLA POLIZIA AL BILDERBERG

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=15176

mercoledì 20 maggio 2015

LUISELLA COSTAMAGNA SUL “FATTO” INCALZA LA MORETTI SULLA FONDAZIONE "KAIROS". - Luisella Costamagna



Cara Alessandra Moretti, le campagne elettorali costano, ma lei sembra avere un rapporto singolare col vil denaro. I suoi sostenitori alle Europee le avevano dato qualche grattacapo – dai mille euro di Matteo Marzotto, sotto processo per un’evasione da 70 milioni di euro, all’endorsement del cognato (non indagato) di Enrico Maltauro, 2 anni e 10 mesi patteggiati per Expo –; così per le Regionali ha detto basta: “Chi è indagato, sotto processo o condannato, è preferibile non faccia donazioni”, parola del suo ufficio stampa. Ottimo.

Ma a un curioso potrebbe non bastare. Potrebbe andare a vedere come raccoglie fondi nel suo sito. Dico subito che il primo punto del suo programma è proprio “Costi della politica e trasparenza”, e sono pubblicati i nomi dei donatori privati e di 6 aziende, tra cui 2 imprese edili (una le ha versato ben 80mila euro). Ri-ottimo e nulla di strano. Almeno al primo sguardo. E al secondo?

Al fondo della pagina dei donatori si legge: “La raccolta fondi e le spese per la campagna elettorale di Alessandra Moretti fino al 27 marzo 2015 sono state sostenute dalla Fondazione Kairos”. Una fondazione? Perchè una fondazione? L’affare si complica: non solo perché, se uno prova a farle una donazione, risulta ancora che il versamento è alla Kairos (e siamo ben oltre il 27 marzo); ma soprattutto per le caratteristiche della fondazione. Perché il curioso di cui sopra potrebbe spulciare anche quel sito: nella home della Kairos, oltre a una frase di Gandhi, campeggiano 3 link: “Chi siamo”, “Trasparenza” (ancora) e “Donazioni”, e gli intenti, che va da sé parlano di “un progetto di rinascita per il Paese”.

Nessun riferimento a lei. E né l’atto costitutivo (del 27 gennaio 2015, a due mesi dalle primarie), né lo statuto (che parla, tra molte altre cose, di “promuovere, supportare e conoscere la realtà economica italiana attraverso elaborazioni di ricerche, analisi, studi e proposte”, “promuovere, nella cultura politica e nell’attività politica italiana, un ricambio generazionale e novità di idee”... ed è paro paro a quello della Fondazione Open di Renzi; tutti i renziani hanno una fondazione con lo stesso statuto?), né la causale per le donazioni (un neutro “erogazione liberale”), né una banale fotina, permettono di capire che la fondazione è riconducibile a lei, che quel “progetto di rinascita” è incarnato dalla Moretti del Pd.

L’unico riferimento diretto si trova nelle fatture delle spese – ma solo in alcune, e chi le va a leggere? – che per “trasparenza” sono pubblicate, e in cui si legge, ad esempio, “ufficio comitato elettorale Alessandra Moretti” o “affissione poster per candidato on. Moretti”. Per il resto nulla.

O meglio, il solito curioso può verificare che l’elenco dei donatori della fondazione ricalca esattamente il suo, oppure che il Presidente della Kairos è Roberto Ditri (uno dei Paperoni del Veneto, ex presidente della Fiera di Vicenza prima di Marzotto – rieccoci –, ex ad della Marelli, componente del consiglio direttivo di Federmeccanica e pure cacciatore, chissà che ne pensano i suoi sostenitori animalisti), consigliere è suo fratello (e spin doctor) Carlo, e a dar vita alla fondazione è anche Franco Frigo (ex DC, ex Presidente del Veneto, ora europarlamentare PD).

Insomma, per trovare qualche riferimento a lei e al suo partito, bisogna davvero essere ostinati. Sia chiaro: tutto questo è legale. Ma qualche dubbio sulla tanto sbandierata “trasparenza” lo fa venire. Il commissario anticorruzione Cantone ha detto: “Le fondazioni ottengono, spesso attraverso altre mediazioni, i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto. Oggi sono fuori da ogni possibilità di controllo”.

E godono anche di agevolazioni fiscali. Sarà anche per questo che ormai quasi ogni politico ha la sua bella fondazione. Però, cara Moretti, se uno cerca “Italianieuropei” di D’Alema trova che il presidente è lui, e lo stesso vale per “Costruiamo il Futuro” di Lupi, e pure “Open” di Renzi apre il sito con la sua foto e ha la Boschi segretario generale. Quanto ai suoi avversari in Veneto, Zaia non ha fondazioni e non accetta contributi da privati; mentre la fondazione di Tosi “Ricostruiamo il paese” scrive a chiare lettere in home: “Il nostro principale obiettivo è far conoscere il Progetto politico di Flavio Tosi”, ed è dichiarato che le donazioni vanno a lui. Con la Kairos no.

Cara Moretti, non voglio pensare male, e che ad esempio questa fondazione sia nata per ragioni fiscali e solo per la sua campagna elettorale ed evaporerà subito dopo. Le chiedo però di essere trasparente prima del voto: la Kairos fa capo a lei? Se è così – come sembra – perché non lo esplicita nel sito, in modo che chi ci incappa e vuole fare una donazione sappia chiaramente che finanzierà lei e non una generica fondazione politica?

Infine, se non è nata apposta per le regionali, e vuole essere davvero un think- tank di elaborazione politica, ricerche, convegni…come mai finora sembra essersi occupata solo di raccolta fondi e di spese per lei? Magari può chiederlo a suo fratello.

Un cordiale saluto.

martedì 7 aprile 2015

Eurodeputato spagnolo nella stanza segreta del TTIP: "Mi hanno tolto carta e penna. Trattato come un criminale"

Eurodeputato spagnolo nella stanza segreta del TTIP: Mi hanno tolto carta e penna. Trattato come un criminale

“Tutte le condizioni a cui ci sottopongono sono contrarie al parlamentarismo 

e alla democrazia”, denuncia Ernesto Urtasun.

 
Cecilia Malmström, commissaria Ue al commercio, ha un solo obiettivo in questo “mandato” Juncker: la conclusione del famigerato accordo di libero commercio con gli Stati Uniti, il TTIP, che la Commissione, nel nome di tutti i popoli europei, negozia segretamente con Washington. 
 
L'anno scorso, Cecilia Malmström ha annunciato a sorpresa che ciascuno dei 751 eurodeputati avrebbe potuto accedere alla reading room, la stanza di sei metri quadri in cui si trovano i documenti classificati del TTIP. “Per maggiore trasparenza”, aveva detto. 
 
Ebbene martedì scorso, riporta eldiario.es, l'euro-deputato Ernest Urtasun, iscritto al Gruppo dei Verdi, ha fatto accesso alla famosa reading room. “L'esperienza è stata molto negativa”, ha dichiarato. “Mi hanno tolto la penna, mi hanno tolto la carta dove avrei potuto scrivere e mi hanno rimosso il telefono. Si firma un documento riservato di 14 pagine, il tempo massimo è di due ore e durante quel periodo c'è un funzionario che controlla in modo permanente". 
 
Meno di 150 eurodeputati hanno finora fatto accesso alla reading room. “Tutte le condizioni a cui ci sottopongono sono contrarie al parlamentarismo e alla democrazia”, denuncia  Urtasun. Prima di lui anche Lola Sánchez di Podemos aveva sottolineato la mancanza di trasparenza della procedura. “Siamo parlamentari eletti per rappresentare e informare i cittadini. E per una questione così fondamentale come un trattato internazionale, ci trattano come criminali o spie”.
 
Il rappresentante di ICV -  Iniciativa per Catalunya Verds – a Bruxelles deplora in particolare il fatto che il “carattere tecnico di alcuni testi tutti in inglese rende ancora più complessa la questione. Io non sono esperto in telcomunicazioni e ho bisogno di alcuni assistenti esperti per interpretare i documenti. E chiaramente ho bisogno di più ore”.   
 
Ma il peggio non sono le condizioni di accesso, ma quello che c'è dentro. "Quando i documenti ufficiali selezionati devono essere ordinati in anticipo, ci si rende conto che tutto ciò che è possibile vedere è ciò che è già stato pubblicato", ha detto l'eurodeputato catalano sempre a El Diario. 
 

Ma sono solo nella reading room i documenti legati al TTIP? "Niente affatto", conclude il politico spagnolo. "Sappiamo da varie fonti che ci sono documenti consolidati definitivi, che illustrano la parte europea e gli Stati Uniti già raggiunta. Su quelli non abbiamo accesso. Vorrei anche affermare che i documenti memorizzati nella sala di lettura per ogni individuo che vuole leggere sono già declassificati”. Urtasun ha poi denunciato come la semplice esistenza di quella stanza viola gli stessi regolamenti comunitari. "Il Trattato di Lisbona è molto chiaro nel sottolineare che, in tutto ciò che riguarda gli accordi internazionali, i deputati dovrebbero essere pienamente informati".

Per quella che molti in Italia considerano ancora un simbolo di democrazia, riprendendo le parole della Malmstrom, è un simbolo di trasparenza il solo fatto che alcuni rappresentanti dei popoli accedano senza penna, carta, telefono (e trattati come spie o criminali) per due ore a visionare la parte non importante e già declassificata dei documenti del TTIP. Tutto questo è l'Unione Europea di oggi, ma state tranquilli Repubblica, Corriere e gli altri giornali italiani stanno preparando la versione "ufficiale" dei fatti, quella a cui crederete ed, alla fine, accetterete anche quest'ultima imposizione, che rappresenterà la fine di tutti i diritti sociali conquistati dal dopoguerra ad oggi. Ma questo non ve lo diranno...

giovedì 12 settembre 2013

RAI: fuori i nomi!

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"Cade il primo velo sulle cosiddette “Happy Five”, le 5 società di produzione che, negli ultimi 5 anni, avrebbero lavorato con la Rai più di altre aziende del settore. 
In Commissione di Vigilanza Rai abbiamo ottenuto i primi 3 nomi in occasione dell’audizione di Eleonora Andreatta, la Direttrice di Rai Fiction, che ha fatto espressamente riferimento a tre società diventate negli ultimi “fornitori d’eccellenza” della Rai, e destinatarie di un’importante fetta del budget annuale dedicato alla produzione di fiction, che quest’anno ruota intorno a 194 milioni di euro

Si tratta della Lux Vide, fondata da Ettore Bernabei, ex Direttore Generale della Rai, e ora presieduta dalla figlia Matilde. 

È stata, poi, citata la Fremantle Media. L’amministratore delegato della società è Lorenzo Mieli, figlio di Paolo, ex direttore del Corriere della Sera. 

La terza azienda è la Publispei, fondata da Gianni Ravera e ora gestita da Verdiana Bixio. Un percorso all'insegna della trasparenza massima è fondamentale quando si interagisce con chi gestisce oltre un miliardo di euro di risorse pubbliche.

Oggi si apre il confronto serrato tra la Commissione di Vigilanza Rai, il Ministero dello Sviluppo Economico e la Rai sul Contratto di Servizio che dovrà essere rinnovato in tempi brevi. Il contratto è stipulato tra la Radiotelevisione Italiana e il Ministero dello Sviluppo Economico. Ha una durata triennale (l’ultimo contratto è scaduto nel dicembre 2012) e disciplina le attività che la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, la Rai, deve svolgere per assolvere il compito di servizio al pubblico nel territorio della Repubblica Italiana. La bozza del nuovo contratto è quasi pronta. Il viceministro Catricalà l’ha presentata al Cda Rai che dovrà esprimersi a riguardo il prossimo 18 settembre. Dopodiché arriverà alla Commissione Vigilanza, che deve pronunciarsi con un parere favorevole affinché il contratto venga concluso. 


Il Contratto di servizio è un atto fondamentale: deve delineare diritti e doveri delle due parti e offre gli strumenti necessari per garantire al cittadino il rispetto della funzione di servizio pubblico da parte della Rai. Con un’adeguata struttura normativa, il contratto diventerà un documento strategico di garanzia degli interessi dei cittadini: potremmo pretendere la massima trasparenza, come nel caso degli atti di gestione e degli stipendi. Potremmo rendere pubblica la contabilità separata dell’azienda: il cittadino deve sapere quando un programma è finanziato con il canone (quasi due miliardi di euro all’anno) e quando è invece finanziato dalla pubblicità (600 milioni di euro all’anno). Possiamo farcela. Possiamo far sentire la voce di tutti nelle Istituzionie riportarla ai vertici Rai. Facendo rete ci possiamo riuscire." 

Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza RAI.

http://www.beppegrillo.it/2013/09/rai_fuori_i_nomi.html

martedì 9 ottobre 2012

"Dateci tre motivi per non astenerci" Pioggia di adesioni all'appello.




Ridurre a 50 i componenti dell'Ars, abolire il finanziamento ai gruppi parlamentari e ridurre i compensi dei deputati regionali al 50 per cento di quelli dei senatori. Tra i sottoscrittori anche Ivan Lo Bello, Antonello Montante, Franco Battiato, Franco Scaldati, Rosanna Pirajno. Se sei d'accordo registrati sul sito di "Repubblica Palermo" e sottoscrivi l'appello di Giovanni Fiandaca e Cosimo Scordato.

La gravissima crisi della politica, che in Sicilia si è tradotta nel dissennato sperpero di risorse finanziarie enormi, impedisce di considerare le imminenti elezioni regionali una normale tornata elettorale. Come cittadini, non possiamo esercitare col dovuto senso di responsabilità il nostro diritto di voto senza verificare, preventivamente, se sussistano le condizioni minime perché si avvii una inversione di tendenza nel governo politico della Sicilia.

In questa situazione, astenersi dal voto diventa una tentazione irresistibile, come forma di obiezione di coscienza democratica volta a denunciare la necessità di terapie più radicali. Pertanto, l'unica via che riteniamo percorribile per evitare la scelta astensionista consiste in una precisa assunzione, da parte di tutti i candidati a presidente, dei seguenti tre obiettivi programmatici, da realizzare entro il primo anno della nuova legislatura regionale: 
1. ridurre a 50 il numero dei componenti dell'Assemblea regionale siciliana;
2. abolire il finanziamento dei gruppi parlamentari, garantendo il funzionamento degli uffici con dipendenti dell'Assemblea; 
3. ridurre i compensi dei deputati regionali in modo che non superino il 50% delle corrispondenti somme previste per i senatori.

Tra i big che hanno firmato il documento c'è Ivan Lo Bello, vice presidente nazionale di Confindustria, e il presidente regionale Antonello Montante, il cantante Franco Battiato, gli attori Ficarra e Picone, gli scrittori Santo Piazzese e Roberto Alajmo, Pina maisano Grassi, Claudio Barone (segretario regionale Uil), Maurizio Bernava (segretario regionale Cisl). Ma anche intellettuali e artisti, dai registi teatrali Franco Scaldati e Vincenzo Pirrotta all'architetto Rosanna Pirajno. Ci sono Franco Di Maria, decano di Psicologia all'università, Ferdinando Siringo, presidente del Centro per i servizi di volontariato (Cesvop), Antonio Riolo, segretario confederale della Cgil siciliana. C'è padre Francesco Michele Stabile, parroco a Bagheria, e padre Francesco Romano, parroco ad Altarello. E poi medici, docenti, avvocati. "Non è un invito a rinunciare al diritto di voto  -  spiega Scordato, rettore di San Francesco Saverio all'Albergheria  -  ma un modo per scuotere i candidati e indurli a impegnarsi nella lotta contro sperequazioni e latrocini pubblici perpetrati a danno dei cittadini in una regione che vanta le indennità più alte per i deputati, gli stipendi d'oro dei manager e il numero più elevato di onorevoli e impiegati all'Ars". 

lunedì 8 ottobre 2012

Lombardia, Pd trasparente a metà. Spese online, ma non si sa chi spende e perché. - Thomas Mackinson


Un dettaglio delle spese del Pd lombardo


Dopo le polemiche per gli scandali nel Lazio e per la gestione opaca dei fondi consiliari, il Partito democratico in Lombardia (a differenza di Pdl e Lega) sceglie di rendere pubbliche le spese del proprio gruppo con una sezione apposita del sito. Ma il risultato ha l'effetto contrario: una lista indistinta di cifre, senza alcuna giustificazione né riferimento a chi le ha commissionate e per cosa.

Una fattura da 21mila euro senza beneficiario. Arredi per 4mila euro senza indicazione del destinatario. Assegni di rappresentanza da 500 euro senza causale. Ma è tutto regolare, giurano, perché “La trasparenza non è uno slogan”. Con queste parole il Pd lombardo ha annunciato di aver messo online il bilancio del proprio gruppo regionale con voci di dettaglio. Dopo tante polemiche, benvenuta trasparenza. Al rendiconto si accede cliccando un bottone sulla sinistra della home page. E bisogna dire che almeno i democratici hanno fatto un tentativo, a differenza di Pdl e Lega. Ma l’entusiasmo finisce presto, al termine della prima riga. Tanto basta per accorgersi che l’elenco delle spese caricato online è stato preventivamente “sbianchettato”. Possibile? Verificate voi stessi.
Cliccando sulla dicitura “dettaglio” compaiono due elenchi, uno per le spese di comunicazione e l’altro per il funzionamento dei gruppi. In entrambi sono riportati gli importi parziali e il totale delle spese, ma non prima di aver accuratamente omesso i nomi dei beneficiari degli acquisti, dei fornitori, le stesse causali sono state rese accuratamente generiche e criptiche. Il rendiconto si presenta come un lungo elenco che dice poco o nulla, anzi, pare fatto proprio per dire tutto senza dire niente. Impossibile, ad esempio, ricavare una qualche informazione utile da diciture come “Taxi, 70 euro”, “pranzi più taxi 442 euro” o “rimborso chilometrico 181 euro”. Per andare dove? Per mangiare in quanti? 
Le ragioni di tanto mistero le ha illustrate al Fatto Quotidiano il consigliere Stefano Tosi. Di fronte al rifiuto a mostrare le fatture – rifiuto che in Lombardia ha accomunato Pd, Lega e Pdl – il consigliere ha invocato ragioni di tutela della privacy degli eletti, il rischio di finire dileggiati nella mani di giornalisti in malafede e (perla tra le perle) il fatto che un prezzo fatto loro da un fornitore, se reso pubblico, potrebbe mettere quest’ultimo in seria difficoltà, qualcuno leggendo potrebbe anche scoprire di aver pagato quello stesso bene/servizio molto di più. Insomma, il prezzo politico è bene che resti segreto.
Per allontanare dubbi e sospetti dal Pd arriva così la promessa di un’operazione trasparenza che ha richiesto circa due settimane di tempo. Forse proprio per decidere cosa rendere trasparente e cosa no. Il risultato è un bilancio organizzato per “progetti” e voci aggregate, ma le omissioni sono tali da produrre l’effetto contrario a quello voluto. L’idea che qualcuno abbia selezionato quali informazioni rendere disponili e quali no alimenta i sospetti. La mezza trasparenza induce proprio a cercare l’omessa-omissione, a indugiare su brandelli di spese discutibili.
Esempi? C’è un corso di comunicazione per consiglieri da 6mila euro. Se non si sa chi ne ha beneficiato, chi lo ha tenuto e per quante lezioni, il cittadino non sarà mai messo in condizioni di dire se sia stato investimento formativo o spreco. C’è un bonifico per tre fatture da 26mila euro per “analisi e assistenza in campo economico”. Se a fare lezione è stato Paul Krugman nessun problema, altrimenti il dubbio che la lezione di economia non sia stata poi così economica può venire. Il cadeau da 940 euro per la festa della donna per 24 dipendenti, più pranzo da 615 euro più cento di mimose: è giusto che il bel pensiero del gruppo del Pd sia pagato con i soldi dei contribuenti? Il risultato finale è un’esibizione più di facciata che di sostanza. La trasparenza, per ora, è rimasta uno slogan.