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giovedì 1 dicembre 2016

Firme false, a Verona 71 condannati Pd, Fi, Lega a Ncd. Ma nessuno si dimette. - Andrea Tornago

Firme false, a Verona 71 condannati Pd, Fi, Lega a Ncd. Ma nessuno si dimette

Mentre la polemica politica si infiamma sul caso Palermo, nel silenzio generale decine di amministratori da destra a sinistra patteggiano per lo stesso reato, in relazione alle elezioni del 2014. Fra questi, tre sindaci e decine di consiglieri comunali. Nessuno, però, ne chiede la testa e le pene sono inferiori ai limiti della Severino. L'indagine nata d un esposto M5s.

Migliaia di firme sospette o falsificate a sostegno delle liste elettorali raccolte senza la ratifica di un pubblico ufficiale. C’è un altro caso firme in Veneto, passato sotto silenzio mentre imperversa lo scandalo delle firme false del M5s a Palermo, che ha coinvolto in modo trasversale più partiti, dal Pd alla Lega, da Ncd Forza Italia alle liste civiche. La vicenda riguarda le amministrative del 2014 nel veronese e un’inchiesta della Procura di Verona, nata in seguito a un esposto del M5s, ha portato 71 imputati a patteggiare pene fino a 5 mesi per aver raccolto firme in modo irregolare e, in alcuni casi, per aver falsificato gli elenchi dei sottoscrittori. Tra gli imputati che il 15 novembre scorso hanno chiesto l’applicazione della pena figurano decine di consiglieri comunali, ex assessori provinciali, i sindaci del Pd di Pescantina San Bonifacio, in provincia di Verona, e il sindaco Ncd di Pressana. E sono rimasti tutti al loro posto.
Nel caso di San Bonifacio, il sindaco dem Giampaolo Provoli ha patteggiato una pena di 5 mesi e 19 giorni insieme – tra gli altri – ad Alberto Bozza, ex assessore provinciale di Forza Italia e ora assessore allo Sport del Comune di Verona (5 mesi e 29 giorni), Luigi Frigotto, ex assessore provinciale all’Agricoltura in quota Lega (6 mesi), Alice Leso, ex consigliere provinciale del Pd, e il sindaco di Pressana, ex segretario provinciale dell’Udc, Stefano Marzotto (5 mesi e 20 giorni). Stessa situazione anche a Pescantina, in Valpolicella, dove il primo cittadino del Pd, Luigi Cadura, ha patteggiato 5 mesi e 12 giorni insieme – tra gli altri – al membro del Cda di Autobrennero, ex sindaco leghista di Affi ed ex assessore provinciale alla Viabilità, Carla De Beni (5 mesi e 20 giorni), oltre agli ex consiglieri provinciali Franca Maria Rizzi del Pd e Francesca Zivelonghi di Forza Italia. La vicenda riguarda anche i comuni di LegnagoAffi e Bussolengo, sempre in provincia di Verona, e coinvolge sia i pubblici ufficiali incaricati di verificare e garantire la regolarità delle sottoscrizioni, sia coloro che hanno materialmente raccolto le firme a sostegno delle liste.
Nel caso di San Bonifacio e Pescantina tra l’altro risultano imputati anche i candidati sindaci usciti sconfitti, tanto che lo scorso 18 novembre i deputati del M5s Francesca Businarolo e Mattia Fantinati hanno scritto al prefetto di Verona, Ugo Mulas, chiedendo che venissero invalidate le elezioni amministrative nei due comuni in quanto “non tutte le liste avevano le firme sufficienti per essere presentate”. Ma la legge Severino prevede l’ipotesi decadenza solo in caso di condanna superiore a sei mesi. In questo caso, le pene applicate sono tutte inferiori. E gli amministratori restano tutti tranquillamente in carica.

giovedì 7 luglio 2016

Angelino Alfano, il problema del ministro Ncd è il fratello Alessandro: dalle indagini sulla laurea all’assunzione alle Poste. - Giuseppe Pipitone

Angelino Alfano, il problema del ministro Ncd è il fratello Alessandro: dalle indagini sulla laurea all’assunzione alle Poste

Negli ultimi anni Alessandro Alfano ha provocato più di un momento di apprensione al ministro dell'Interno: dalle indagini sul titolo di studio, al concorso vinto alla Camera di commercio di Trapani fino alle interrogazioni parlamentari sul curriculum.


Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha un problema e non è la percentuale da prefisso telefonico raccolta dal suo partito alle ultime elezioni amministrative. Non è neanche (non del tutto) Antonio Marotta, il deputato finito indagato nell’inchiesta anticorruzione della procura di Roma. La vera preoccupazione di Alfano, invece, ha una natura molto più intima. È un cruccio rappresentato da un ragazzotto classe 1975 che con il ministro dell’Interno condivide il cognome, i genitori, persino una leggera somiglianza fisica: si chiama Alessandro Alfano, ed è suo fratello minore.
L’indagine sulla laurea - E non solo perché è l’uomo che Raffaele Pizza sostiene di aver fatto assumere alle Poste per fare un favore al leader del Ncd (poi costretto al commento “sull’uso politico di materiale scartato dai magistrati”). Alessandro Alfano, infatti, negli ultimi anni ha provocato più di un momento di apprensione al potente fratello ministro. Nato – come il leader di Ncd – ad Agrigento da Angelo Alfano e Calogera Sciumé, una coppia originaria di Sant’Angelo Muxaro (piccolo comune della provincia), Alfano Junior (nella foto tratta dal suo profilo facebook) inizia a creare imbarazzo in famiglia già al momento di laurearsi: è il 2009 quando consegue – a 34 anni – la laurea triennale in Economia e CommercioSolo che quell’esame di laurea finisce al centro di un’inchiesta della procura di Palermo che iscrive trenta studenti nel registro degli indagati. Il motivo? Erano tutti sospettati di avere pagato un’impiegata della segreteria che in cambio inseriva nel database informatico dell’università esami mai sostenuti. La posizione di Alfano il minore verrà in seguito archiviata, ma quell’indagine crea più di un grattacapo al potente fratello, che in quel momento si è appena dimesso da ministro della Giustizia per installarsi alla segreteria del Pdl, poltrona dalla quale avrebbe dovuto poi raccogliere il testimone da Silvio Berlusconi.
“Quel concorso lo vincerà Alfano junior” - Quell’inchiesta sulle lauree false, infatti, apre una crepa nel curriculum di Alfano Junior che nel 2006, quando ancora non aveva conseguito il titolo di dottore in Economia e Commercio, era stato nominato segretario generale di Unioncamere Sicilia. Quattro anni dopo, a laurea acquisita, ecco che Alessandro Alfano vince il concorso da segretario generale della Camera di Commercio di Trapani: solo che ben prima che si tenesse quella selezione pubblica, un esposto anonimo aveva incredibilmente predetto la vittoria del fratello dell’ex ministro della Giustizia. E in quell’esposto, una mano anonima aveva anche fatto riferimento al fatto che Alfano junior non avesse alle spalle cinque anni di esperienza dirigenziale, requisito fondamentale per partecipare alla concorso di segretario generale della Camera di Commercio trapanese. È per questo motivo che nel dicembre del 2011  gli uomini della squadra mobile di Palermo piombano negli uffici della Camera di commercio di Trapani, sequestrando il fascicolo del concorso vinto da Alfano junior. Il clima tra Palermo e Roma si fa incandescente, Berlusconi si è appena dovuto dimettere da presidente del Consiglio e Angelino Alfano gioca un ruolo di primo piano nella larga maggioranza che sostiene il governo di Mario Monti: Alessandro è costretto dunque a fare un passo indietro, dimettendosi da segretario generale.
“Il fratello del ministro ha mentito nel curriculum” - Le polemiche su quel concorso e sui titoli vantanti da Alfano il minore, però, non si spengono: anzi, finiscono addirittura in Parlamento. “Alcune delle dichiarazioni contenute nella suddetta domanda (quella presentata per partecipare alla selezione della Camera di commercio ndr) peccano anche sotto il profilo della veridicità della ricostruzione curriculare da parte dell’interessato. Il dottor Alfano ha autocertificato, relativamente al ruolo di direttore regionale di Confcommercio Sicilia, in un periodo antecedente alla sua nomina a segretario generale di Unioncamere Sicilia, avvenuta a fine 2006. Risulta, infatti, che in realtà egli sia stato semplicemente distaccato presso la sede di Confcommercio regionale, in veste di semplice direttore provinciale di Agrigento, e che in tale Confederazione non ha mai rivestito il ruolo di Direttore regionale, visto che da tempo vi era un altro soggetto che rivestiva tale funzione, l’avvocato Marino Julo Cosentino”, scrive nell’estate del 2013 il parlamentare di Sel Erasmo Palazzotto, in un’interrogazione indirizzata a Flavio Zanonato, l’allora ministro dello Sviluppo Economico. Tradotto: per vincere il concorso alla Camera di Commercio il fratello del ministro dell’Interno avrebbe inserito nel suo curriculum un incarico al vertice della Confcommercio siciliana. Problema: quell’incarico, secondo Palazzotto,  era già ricoperto da un’altra persona, mentre Alfano Junior era all’epoca  direttore della sezione provincia di Agrigento. Un bel problema, anche per Alfano senior, che nel frattempo è diventato vice del premier Enrico Letta. A quell’interrogazione depositata nell’agosto del 2013, tra l’altro, non è mai seguita una risposta del ministero.
La scalata alle Poste - Nel frattempo, però, Alfano il minore ha già trovato un’altra sistemazione: nel settembre del 2013 viene nominato direttore della divisione Business Development di Postecom spa: solo il primo gradino di una fulminante carriera tutta interna al gruppo Poste italiane. Due anni dopo, infatti, viene promosso direttore del settore Offerta e Post Vendita di Poste tributi, nel maggio scorso, invece, approda direttamente alla società principale come dirigente.  Incarico che avrebbe ottenuto –stando alle intercettazioni della Guardia di Finanza – grazie all’interessamento del faccendiere Raffaele Pizza, arrestato nell’operazione anticorruzione di ieri, a sua volta fratello di Giuseppe, ex sottosegretario del governo Berlusconi, famoso soprattutto per aver rivendicato l’uso esclusivo del storico simbolo della Dc. Quello dei fratelli che provocano qualche imbarazzo, insomma, non è un problema comune solo in casa di Alfano. È probabile, però, che in queste ore al ministro dell’Interno sia tornato in mente un vecchio proverbio noto nella sua Sicilia: i parenti te li dà Dio, gli amici te li cerchi tu. Vista la lunga lista d’indagati del Nuovo centrodestra, si può dire che il responsabile del Viminale abbia avuto scarsa fortuna in entrambi i campi.

sabato 24 ottobre 2015

Stabilità, porte aperte al nero: scompare obbligo pagamenti tracciati per affitti e fatture autotrasporto. - Carlo Di Foggia

Stabilità, porte aperte al nero: scompare obbligo pagamenti tracciati per affitti e fatture autotrasporto


Nelle ultime bozze della manovra si apre alla possibilità di pagare in contanti nei due settori considerati "a rischio infiltrazione criminale".

Quattro righe criptiche e il colpo di spugna è servito: niente obbligo di usare solo pagamenti tracciati per versare gli affitti, o saldare fatture nell’autotrasporto, settore a rischio di “infiltrazione criminale”. Due conquiste, manco a dirlo, volute a suo tempo dal Pd, che ora la legge di stabilità di Matteo Renzi cancella del tutto. Nel messaggio “sbagliatissimo” (copyright Raffaele Cantone) – come molti tra magistrati ed esperti definiscono la decisione del premier di alzare il limite all’uso del contante dai mille attuali a tremila euro – ce n’è un altro passato inosservato: il dietrofront è su tutta la linea, perfino per settori nei quali quel limite non valeva. Perchè sensibili.
Andiamo con ordine. In tutte le bozze della Stabilità circolate finora (il testo definitivo dovrebbe approdare oggi in Senato) all’articolo 65 (“circolazione del contante”) figurano due commi, che abrogano altrettante misure tutt’ora in vigore. La prima riguarda una novità introdotta dalla legge di stabilità 2014, governo di Enrico Letta: “I pagamenti dei canoni di locazione di unità abitative, fatta eccezione per l’edilizia residenziale pubblica, sono corrisposti obbligatoriamente, quale ne sia l’importo, in forme che escludano l’uso del contante e ne assicurino la tracciabilità”. Una misura voluta per arginare il fenomeno endemico degli affitti in “nero”, per un’evasione stimata in 3,5 miliardi (per la Cgil nel 2013 quelli versati dagli studenti hanno nascosto un imponibile da 1,5 miliardi). Chi l’ha voluta? Il Pd, che il 12 dicembre 2013 fa passare un emendamento in commissione bilancio, firmato dal capogruppo Marco Causi. La norma fa infuriare il solito Ncd, che si duole per bocca di Renato Schifani: “Non può valere come regola generale, è bene evitare misure che troppo drasticamente impediscano la circolazione della moneta”.
Stessa storia per l’autotrasporto. A ottobre, in sede di conversione del famoso decreto “sblocca Italia”, in Senato il Pd fa approvare un emendamento che recita così: “Tutti i soggetti della filiera dei trasporto merci su strada provvedono al pagamento del corrispettivo per le prestazioni rese utilizzando strumenti elettronici di pagamento e comunque ogni altro strumento idoneo a garantire la piena tracciabilità delle operazioni, indipendentemente dall’ammontare dell’importo”. Il motivo? “La prevenzione delle infiltrazioni criminali e del riciclaggio del denaro derivante da traffici illegali”. Ora tutto viene cancellato.
“È una scelta così specifica che sembra suggerita da qualcuno”, spiega Cinzia Franchini, presidente nazionale della Cna-Fita, che da anni si batte contro le infiltrazioni criminali nel settore e per questo ha ricevuto lettere di minaccia e proiettili: “Eravamo orgogliosi di quella norma, cancellarla è un grave errore inspiegabile, di sicuro alcuni festeggeranno. Noi chiederemo un incontro urgente, anche perché le imprese sane già pagavano tutto in maniera tracciata”.
Non è un dettaglio da poco. In entrambi i casi, infatti, il Pd fa approvare le norme, senza però specificare le sanzioni. Quella sugli affitti, infatti entra in vigore a gennaio 2014, ma il 4 febbraio, con il governo Letta ormai morente, il Tesoro emette una nota interpretativa che conferma l’incredibile svista: visto che non le hanno specificate, si applicano solo le sanzioni già previste dalla normativa antiriciclaggio, quella che prevede la soglia dei mille euro. Al di sotto, si infrange la legge ma non si rischia nulla. Anche sull’autotrasporto l’emendamento democrat – firmato dalla relatrice dello “Sblocca Italia”, Chiara Braga – curiosamente si scorda le sanzioni. Di più, nel testo si fa riferimento a un altro decreto per cui non viene punito chi viola la norma ma solo il commercialista che non comunica la violazione. “Ora il governo invece di fare un passo avanti ne fa due indietro”, continua Franchini.
Tradotto: il Pd fa approvare di due misure per contrastare il “nero” e il riciclaggio di denaro in settori a rischio di “infiltrazione criminale”, poi le svuota, e ora, invece di migliorarle le cancella del tutto. Peraltro adesso, per incorrere nelle sanzioni la soglia viene alzata a tremila euro. Un segnale, appunto. Resta una domanda: se alzare il limite per Matteo Renzi “aumenta i consumi e sblocca le famiglie”, togliere l’occhio di riguardo per affitti e trasporti cosa sblocca?

martedì 1 settembre 2015

Cara di Mineo, Odeveine: “Così ci spartivamo i soldi. Castiglione? Aveva vantaggi elettorali”.

Cara di Mineo, Odeveine: “Così ci spartivamo i soldi. Castiglione? Aveva vantaggi elettorali”

Le dichiarazioni ai pm dell'ex vicecapo di gabinetto di Veltroni, l’uomo di Mafia capitale nel business immigrazione. “La cooperativa La Cascina finanziò nascita Ncd. Il bando era scritto in modo da rendere certa la vittoria dell'Associazione temporanea d'imprese. A livello nazionale credo che il Ncd ha preso il 3 o 4 per cento, in quella zona ha preso il 40 per cento: i comuni del consorzio più o meno di centrosinistra, diventano, tranne uno, di centrodestra".

Cento milioni di euro all’anno, tremila ospiti che diventavano spesso anche il doppioappalti e fornitori, posti di lavoro e voti. In cima c’è la figura del sottosegretario Giuseppe Castiglione, indagato dalla procura di Catania per turbativa d’asta, luogotenente di Angelino Alfano in Sicilia, genero del potentissimo senatore Pino Ferrarello; poi ci sono tutti gli altri: faccendieri, politici e manager spregiudicati. Intorno un’intera provincia che cambia preferenza elettorali: dal centrosinistra al nuovissimo partito di Alfano e Castiglione. Eccolo qui il sistema del Cara di Mineo, il centro richiedenti asilo più grande d’Europa, finito nel ciclone dell’inchiesta su Mafia Capitale.
“La mia parte? Era di 10mila euro al mese anche se la richiesta complessiva era di 20 mila euro. Ma non erano solo per me: mi servivano per le cooperative sociali che presiedevo”, spiega davanti ai pm romani Luca Odevaine, l’uomo di Mafia capitale nel mondo dell’immigrazione, già vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni in Campidoglio, poi “spedito” al Cara di Mineo. “Se ho favorito la vittoria delle gare per la gestione del centro? Sì, l’ho fatto” ammette nei verbali pubblicati dal Messaggero e dal Corriere della Sera Arrestato per corruzione nel primo troncone dell’inchiesta su Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, Odevaine ha deciso di parlare. E davanti ai pm Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, ricostruisce ogni singolo passaggio della gestione occulta del Cara di Mineo, un sistema perfetto che produceva consenso elettorale e denaro contante.
E più cresce Mineo, più aumenta l’influenza di Castiglione, che lascia il Pdl per aderire al Nuovo Centrodestra, subito promosso dalla provincia di Catania a Montecitorio e poi al governo, come sottosegretario all’Agricoltura.  Un cursus honorum che – come documentato a più riprese dal fattoquotidiano.it – s’incrocia con la nascita di Mineo, e con la proliferazione di appalti e posti di lavoro al centro d’accoglienza .  “Il vantaggio che ha avuto Castiglione- dice Odevaine – è di natura elettorale. Sostanzialmente possiamo parlare di scambio di voti“. Dopo l’apertura di Mineo, infatti, la zona del Calatino, intorno al centro richiedenti asilo, cambia radicalmente convinzioni politiche. “Castiglione aveva preso il posto di suo suocero, il senatore Firrarello. I comuni del consorzio più o meno di centrosinistra, diventano, tranne uno, di centrodestra“.
Il racconto di Odevaine parte dal 2011, quando dopo lo scoppio della Primavera araba comincia l’ondata di sbarchi dal nord Africa . Il governo Berlusconi decreta lo stato d’emergenza e decide di utilizzare le 400 villette del residence degli Aranci, tra le campagne in provincia di Catania, per creare il più grande centro per profughi di tutta Europa. Una scelta che arriva proprio quando la Pizzarotti di Parma, che è proprietaria di quel residence, riceve dalla marina militare degli Stati Uniti (che affitta quelle villette per i soldati di stanza a Sigonella) una disdetta in blocco. “Mi hanno riferito – racconta Odevaine nei verbali pubblicati dal Messaggero e dal Corriere della Sera – che quella struttura fu scelta anche per fare un piacere a Pizzarotti che in quel momento aveva dei problemi. Non sono in grado di dire se i rapporti di Pizzarotti fossero più con Gianni Letta o con Berlusconi, io ritenevo con Letta in quanto la gestione della struttura  venne poi affidata con affidamento diretto alla Croce Rossa di Milano e la presidente della Croce Rossa della Lombardia era la sorella di Letta”. Poi però gestione di Mineo passa subito alla protezione civile e quindi al consorzio dei comuni della zona.
Ed è quel punto che Odevaine si materializza in Sicilia, dove incontrerà con l’allora presidente della provincia di Catania Castiglione e Salvo Calì presidente della cooperativa Sisifo, iscritta a Legacoop, capofila dei gestori di Mineo fin dalla creazione del centro. È il famoso pranzo con una sedia vuota .”Castiglione – dice Odevaine – non mi disse esplicitamente che Sisifo doveva vincere la gara, ma io capii perfettamente anche perché accompagnandomi all’aeroporto mi disse che Sisifo era per lui il gruppo più adatto a gestire Mineo; mi disse che erano cooperative di centrosinistra e quindi lui non aveva un interesse politico, ma li promuoveva perché li considerava capaci. Mi disse anche che vi era una esigenza politica primaria di favorire cooperative operanti sul territorio”.
E’ in questo modo che nasce la prima gara d’appalto milionaria per gestire Mineo, una gara che Odevaine racconta senza mezzi termini di avere praticamente truccato. “Il bando era scritto in modo da rendere certa la vittoria dell’Associazione temporanea d’imprese: la decisione fu presa congiuntamente da Paolo Ragusa, da me, da Castiglione, da Giovanni Ferrera“.  Ragusa, anche lui indagato con Castiglione, è un grande elettore del Nuovo Centrodestra, il partito creato da Alfano che nella zona del Calatino prende percentuali massicce di voti. A sentire Odevaine, non solo aveva ruolo nella gestione del centro, ma “imponeva la scelta dei fornitori dai quali acquistare e gestiva le convenzioni con i privati. privati presso i quali gli ospiti del centro potevano spendere 2,5 euro al giorno con una tessera”. Ferrera, invece, è il direttore generale del Cara, l’uomo che bolla come irrilevante il parere dell’Anticorruzione di Raffaele Cantone e riaffida la gestione di Mineo a Sisifo quando già lo scandalo su Mafia capitale ha coinvolto il centro richiedenti asilo: poche settimane dopo la prefettura di Catania commissarierà tutto.
Ma non è finita qui: perché dopo che Castiglione e Odevaine si accordano sul nome di Sisifo per gestire il centro, la rete comincia ad allargarsi. “Quando incontrai di nuovo Castiglione gli dissi che era necessario individuare una struttura in grado di gestire pasti, per cui gli consigliai di rivolgersi alla Cascina. In più di un’occasione Menolascina (dirigente della cooperativa) mi ha detto che La Cascina ha stretto rapporti con LupiAlfano e Castiglione e che finanziava la nascita di Ncd“. La cooperativa vicino a Comunione e Liberazione, dunque, secondo Odevaine è tra i main sponsor del nuovo partito di Alfano, diventato nel frattempo il principale partito politico dei comuni del Calatino.
Ma come avviene la metamorfosi elettorale nella zona? “Il tema fondamentale di tutta questa vicenda sono le assunzioni di personaleQuella struttura è diventata l’industria più grande della zona, l’Ikea sta a 20 kilometri e ha 150 dipendenti, attualmente il centro di Mineo ne sta occupando 400 tra una cosa e l’altra: in un’area dove 50 voti eleggono un sindaco. A livello nazionale credo che il Ncd ha preso il 3 o 4 per cento, in quella zona ha preso il 40 per cento”. In pratica l’asse Castiglione  – Mineo riesce a trasformare i posti di lavoro del Cara in un massiccio sostegno elettorale. E non è un caso che ad ogni nuova assunzione al centro:“tutti i sindaci appartenenti al consorzio si sono riuniti con Paolo Ragusa per spartire il numero delle assunzioni da fare”.

venerdì 12 giugno 2015

Azzollini e il dirigente suicida: “Dal senatore pressioni per ostacolare i pm”. - Mario Portanova

Azzollini e il dirigente suicida: “Dal senatore pressioni per ostacolare i pm”

Il 12 marzo 2013 Enzo Tangari, responsabile del settore appalti del Comune di Molfetta, si lancia con la sua Panda nelle acque del porto. Una testimonianza agli atti dell'inchiesta corrobora il legame fra la tragedia e l'appalto per il faraonico nuovo scalo, che vede il presidente della commissione bilancio di Palazzo Madama indagato per truffa ai danni dello Stato.

Una Panda beige imbocca l’ingresso del porto a forte velocità, percorre il molo, alla curva tira dritto senza frenare. L’auto finisce in mare, proprio sotto il faro, dove ancora oggi si vede la banchina sbrecciata sul bordo. Così, alle 8 e mezzo del mattino del 12 marzo 2013, ha messo fine alla sua vita Enzo Tangari, 59 anni, moglie e tre figli, dirigente del Settore appalti del Comune di Molfetta, in provincia di Bari. Cinque mesi più tardi, il 7 ottobre, due persone finiranno in carcere e altre sessanta indagate nell’inchiesta della Procura di Trani sulla costruzione del nuovo porto, un affare da 70 milioni di euro per il quale, però, le casse pubbliche ne hanno già stanziati circa 170compreso l’ultimo fondo da dieci milioni garantito dalla legge di stabilità 2015.
E’ la vicenda che vede inquisito, tra gli altri, l’ex sindaco Antonio Azzollini (a sinistra nella foto)Ncd, presidente della Commissione bilancio del Senato, accusato di truffa ai danni dello Stato e altri reati. Un’inchiesta che ha travolto la macchina comunale e le società appaltatrici, guidate dalla coop rossa Cmc di Ravenna. Le manette sono scattate ai polsi di Vincenzo Balducci, dirigente comunale responsabile unico dell’appalto, e del procuratore speciale della Cmc, nonché direttore del cantiere, Giorgio Calderoni. Secondo l’accusa, l’amministrazione Azzollini ha dirottato ad altri scopi parte del fiume di denaro piovuto sulla città, riconoscendo per di più alle aziende appaltatrici “risarcimenti” milionari, contestati dai magistrati, per i ritardi nei lavori dovuti alla presenza di migliaia di ordigni bellici inesplosi sui fondali dell’erigendo nuovo porto. Il contestatissimo affare del porto è la pista principale imboccata dalla Procura di Trani sulla morte di Enzo Tangari. La pm Silvia Curione ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, poi passata ad Antonio Savasta, uno dei titolari dell’indagine sul faraonico scalo a oggi incompiuto.
Quasi due anni dopo il volo di quella Panda nelle acque del porto di Molfetta, da palazzo di giustizia di Trani non si ha più alcuna notizia. Ma ilfattoquotidiano.it è in grado di rivelare una testimonianza, resa alla pm Curione il 25 settembre 2013 da un noto professionista della città, che corrobora il legame tra la morte del dirigente comunale e la gestione della grande opera voluta e gestita dal sindaco-senatore Azzollini. Il professionista racconta di essere stato ricevuto in Comune tre giorni prima della tragedia, perché aveva segnalato problemi di ordine pubblico nel centro storico. Il commissario straordinario Giacomo Barbato, subentrato al sindaco Azzollini che si era dimesso mesi prima per poter correre alle elezioni politiche del febbraio 2013, lo indirizza da Enzo Tangari. Mentre espone le proprie lamentele nell’ufficio di Tangari, il professionista sente delle urla provenienti dalla stanza del segretario comunale Michele Camero (anche lui poi risultato indagato). A gridare è Azzollini, che pur non essendo più il primo cittadino continua a frequentare assiduamente gli uffici comunali, dove è già cominciata l’aquisizione di documenti sull’appalto del nuovo porto da parte della Guardia di Finanza e della Guardia forestale (l’inchiesta della Procura di Trani era iniziata nel 2009) . “Mo’ viene pure da me”, è il commento rassegnato di Tangari. Sempre secondo la testimonianza del professionista, le sfuriate di Azzollini in quei giorni riguardano proprio gli atti relativi al porto, e sono rivolte a scoraggiare la collaborazione dei funzionari del municipio con gli inquirenti. All’ulteriore sorpresa manifestata dall’interlocutore, la risposta di Tangari è la più classica: “Tengo famiglia”. Tre giorni dopo, il tuffo mortale dal molo di Molfetta. Azzollini è tra i primi ad accorrere, con altri dipendenti comunali. E a quanto raccontano alcuni testimoni, vicino alle sbarre dell’ingresso del porto (quasi sempre aperte, come quella mattina) si lascia andare a una nuova sfuriata contro la magistrature e le sue inchieste.
Del resto il sindaco-senatore è noto in città e a Roma per i suoi scatti d’ira, gli sfoghi in dialetto molfettese, i fronteggiamenti a muso duro, a volte anche fisici, con gli avversari politici. Nel lungo elenco di accuse che la Procura di Trani gli rivolge in relazione all’affare del porto, ce ne sono due per violenza e minaccia. Nel primo caso, già prescritto secondo i pm, Azzollini avrebbe pressato Luigi Nicola Alcaro, ricercatore  dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la ricerca Ambientale) “abusando dei suoi poteri di presidente della commissione Bilancio del Senato”. Il problema è sempre quello della presenza degli ordigni bellici sul fondale, che di fatto impediscono il proseguimento dei lavori. In una riunione presso la Regione Puglia il 30 giugno 2008, racconta Alcaro ai pm, “Azzollini, con un atteggiamento intimidatorio, sollecitò l’avvio dei lavori di prospezione proprio partendo dal Porto di Molfetta. Ricordo che parlava in dialetto molfettese e non proferiva parole gentili, fondamentalmente inveiva contro la Regione Puglia dicendo che avrebbe fatto un casino in Senato“. Il tecnico Alcaro, peraltro, si dice certo che “il Comune di Molfetta, era sicuramente a conoscenza della smodata presenza di ordigni bellici nei fondali del realizzando Porto, in quanto nel 2005 aveva affidato lavori di prospezione dei fondali, propedeutici all’esecuzione dell’opera, alla ditta specializzata Lucatelli s.r.l.”. Le pressioni hanno effetto e l’esito della riunione è l’accelerazione del “risanamento”. Che però a oggi, oltre sei anni dopo, non è ancora ultimato.
La seconda accusa per violenza e minaccia riguarda invece le pressioni su Antonello Antonicelli, che da dirigente del servizio ecologia della Regione Puglia doveva rilasciare, nel 2010, l’autorizzazione ai primi lavori di dragaggio del fondale. Con Azzollini, dice Antonicelli ai pm, “tra il 2008 ed il 2009 ho avuto vari contrasti, taluni pure con toni accesi; in pratica il sindaco di Molfetta pretendeva che il mio ufficio desse una corsia preferenziale alla pratica del porto di Molfetta e io replicavo che la Regione doveva valutare una serie di interventi e valutare le priorità; in quell’occasione l’interlocuzione col sindaco, che aveva un fare impetuoso e spavaldo, fu molto accesa”. Il 30 maggio 2010 Azzollini si presenta a far valere le proprie “ragioni” nell’ufficio di Antonicelli con un seguito decisamente sproporzionato: una decina di persone del suo staff. Proprio di questo si parla in una delle intercettazioni telefoniche (quella del 4 maggio 2010) per cui il Senato, con il voto determinante del Pd, ha negato al gip di Trani l’autorizzazione all’utilizzo: “Ahhhhh! Porca troia, quello qualche volta gli devo dare due cazzotti … dammi il numero, scusa va …”, dice Azzollini a Balducci, il dirigente comunale poi arrestato.
Scorci del metodo Azzollini. Fatto sta che dal giorno in cui il professionista mette piede nella Procura di Trani per rendere la sua testimonianza sul suicidio di Enzo Tangari succedono “fatti molto strani, perché sia io che il testimone siamo stati oggetto di critiche velenose e, per quel che riguarda il teste, anche di aggressioni fisiche da parte di ‘fiancheggiatori’ dell’ex sindaco”. Lo scrive al procuratore della Repubblica Valeria Tangari, cugina di Enzo, in una lettera datata 15 gennaio 2014. Mentre la moglie del dirigente ha scelto il silenzio pubblico sulla vicenda, lei continua a sollecitare le indagini e a sottolineare i legami tra la vicenda di Enzo e l’appalto del porto. Cosa che nella piccola città pugliese non la rende esattamente popolare. Sempre nella lettera ai pm di Trani, Valeria segnala un’altra stranezza di questa storia. Il legale della moglie e dei figli del dirigente scomparso è lo stesso che difende l’ex sindaco Azzollini nel procedimento sul nuovo porto: l’avvocato Felice Petruzzellache secondo Valeria Tangari si è offerto spontaneamente di assistere la vedova e la famiglia subito dopo la morte di Enzo. Un doppio incarico “deontologicamente scorretto”, sostiene la cugina della vittima nella lettera. A ilfattoquotidiano.it, Valeria descrive Enzo come “un ragazzone d’oro”, che non aveva mai manifestato angosce personali tali da far pensare a un gesto del genere. Né si è mai saputo di un suo messaggio di addio che ne spiegasse le ragioni. Al vertice dell’Ufficio appalti era stato chiamato proprio da Azzollini, che prima di lasciare la poltrona cittadina per correre verso Roma aveva rinnovato per cinque anni il suo incarico e quello degli altri dirigenti del “cerchio magico” comunale, a cominciare dal solito Balducci.
Certo è che il nome di Enzo Tangari ricorre nelle carte dell’inchiesta, e in corrispondenza dei nodi più delicati. Come dirigente del settore Appalti, Tangari firma i documenti chiave dell’affare. Ma, precisano i pm, è “tratto in errore” da Balducci. Il 16 ottobre 2006 appone il via libera al bando discilplinare di gara, che secondo l’accusa contiene già una violazione di legge. In Comune, affermano i pm, tutti sapevano benissimo che il fondale del futuro porto era cosparso di residuati bellici, e che quindi sarebbe stato impossibile realizzare i lavori, affidati al massimo ribasso all’associazione di imprese guidata da Cmc per oltre 57 milioni di euro (destinati a lievitare negli anni senza che a oggi il porto abbia visto la luce). “Nella determina non si fa alcun riferimento al fatto che le aree non erano in parte disponibili”, notano i pm, “perché il Comune aveva deciso di procedere autonomamente, previo reperimento di altro finanziamento, alla bonifica dei fondali da ordigni residuati bellici e, di conseguenza, i lavori di dragaggio dei fondali previsti nel progetto non potevano avere inizio”. Cosa peraltro segnalata il 2 gennaio, dieci mesi prima, dalla ditta incaricata della bonifica, che comunicava “notevoli difficoltà” sul punto. Tangari, inoltre, è membro della Commissione di gara, insieme a Balducci. Anche questa, per l’accusa, viziata da irregolarità.
Che cosa abbia spinto davvero Enzo Tangari a togliersi la vita, e quanto abbiano pesato le pressioni e le preoccupazioni legate ala storia nera del faraonico progetto del porto di Molfetta,  lo svelerà forse l’inchiesta dei magistrati di Trani. Tangari, ha affemato il Procuratore capo Carlo Maria Capristo nella conferenza stampa dopo gli arresti del 7 ottobre 2013, è morto “in circostanze molto poco chiare”. Gli inquirenti, ha promesso dunque il magistrato, faranno di tutto per capire “perché questo funzionario così corretto abbia deciso di farla finita, e in quel modo. Buttandosi proprio nel porto”. 
(Ha collaborato Mary Tota)

venerdì 5 giugno 2015

Cara Mineo, Giuseppe Castiglione e il potere di Ncd sull’accoglienza in Sicilia. - Giuseppe Pipitone

Cara Mineo, Giuseppe Castiglione e il potere di Ncd sull’accoglienza in Sicilia

Il rapporto tra il sottosegretario e Luca Odevaine, l'ex capo di gabinetto di Veltroni, considerato l'uomo di Mafia Capitale dentro il business migranti. L'appalto per la riassegnazione del centro nonostante il parere di Cantone. E una rete, quella del Nuovo Centrodestra, che si estende oltre i cancelli di Mineo negli appalti per l'accoglienza e nello strapotere elettorale.

C’è il potente sottosegretario, titolare di migliaia di preferenze, capace di fare eleggere l’europarlamentare più votato del partito. C’è l’ex consulente legale del Cara di Mineo, poi promossa sindaco del comune in provincia di Catania, e ci sono i dirigenti del centro per richiedenti asilo, abili a mantenere l’appalto a nove cifre tra le mani del consorzio bipartisan che va da Comunione e Liberazione e arriva fino alla Legacoop. È un marchio pesante quello impresso dal Nuovo Centro Destra sul business dell’immigrazione, motore principale degli affari di Mafia Capitale, che adesso è diventato ufficialmente oggetto d’indagine anche per la procura di Catania.
L’ufficio giudiziario guidato da Giovanni Salvi ha confermato con una nota l’indagine a carico di Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’Agricoltura, luogotenente di Angelino Alfano in Sicilia. Castiglione è accusato di turbativa d’asta per l’appalto da cento milioni bandito per la gestione del centro, giudicato illegittimo dal presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, ma riassegnato alla stessa associazione temporanea d’imprese che godeva degli appoggi di Luca Odevaine, l’ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni in Campidoglio, l’uomo di Mafia Capitale nel business della gestione dei migranti. È un sistema tentacolare e blindato quello che nasce a partire dal 2011 all’ombra del residence degli Aranci, cioè le 403 villette costruite per i militari statunitensi di stanza a Sigonella poi trasformato nel centro richiedenti asilo più grande d’Europa. Un sistema che riesce a gestire voti, appalti e influenze politiche. 
“Castiglione fa il sottosegretario, però è il loro principale referente in Sicilia, cioè quello che poi gli porta i voti, perché poi i voti loro li hanno tutti in Sicilia”, è la descrizione che fa Odevaine del braccio destro di Alfano.
Ex presidente della provincia di Catania, da soggetto attuatore del Cara di Mineo, è Castiglione a scegliere Odevaine come consulente del centro, e – secondo le intercettazioni – è sempre Castiglione a portare a pranzo l’uomo di Mafia Capitale e a fargli capire chi doveva vincere la gara d’appalto per il Cara. “Praticamente arrivai e capìi che quello che veniva a pranzo con noi era quello che avrebbe dovuto vincere la gara”, dice sempre Odevaine intercettato. “Ribadisco la mia assoluta serenità nella vicenda e sono immediatamente a disposizione della magistratura per qualunque circostanza”, dice oggi il sottosegretario indagato.
“La scelta di Odevaine? Era un esperto del settore immigrazione”, spiega, glissando sul fatto che anche il suo successore alla guida del consorzio che è ente attuatore del Cara ha rinnovato periodicamente gli incarichi di Odevaine. Ed è per questo motivo che insieme a Castiglione, la procura di Catania indaga anche un altro esponente del partito di Alfano, cioè Anna Aloisi, avvocato ex collaboratore del Cara di Mineo, presidente del consorzio Calatino Terra di Accoglienza, poi eletta sindaco del comune in provincia di Catania, dove il Nuovo Centro Destra ha sempre sbancato ad ogni turno elettorale fin dalla sua nascita. Merito di alcuni importantissimi grandi elettori: uno di questi è Paolo Ragusa, presidente del consorzio Sol Calatino, un conglomerato di cooperative della zona componente dell’associazione temporanea d’imprese che gestisce il Cara.
È una realtà importante il Sol Calatino, considerato leader nel settore dell’accoglienza, un vero e proprio asso pigliatutto nel business dell’immigrazione che nel 2014 ha affiancato la gestione del Cara di Mineo con quella dello Sprar di Caltagirone, un punto di accoglienza da appena 25 posti, ma che vale quasi mezzo milione di euro. Anche Ragusa è indagato per l’appalto del Cara di Mineo, insieme a Marco Aurelio Sinatra, sindaco del comune di Vizzini, anche lui eletto con il centro destra, e Giovanni Ferrera, direttore generale del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza. È Ferrera che il 15 maggio, come raccontato da ilfattoquotidiano.it, prende carta e penna per riassegnare l’appalto della gestione del Cara all’associazione temporanea d’imprese coinvolta in Mafia Capitale, bollando come “non è vincolante” il giudizio di Cantone, che nel frattempo aveva scritto direttamente ad Alfano, non ricevendo alcuna risposta. Appena due settimane fa, quindi, le imprese che avevano vinto l’appalto da cento milioni erano tornate formalmente a gestire senza impedimenti il centro per richiedenti asilo.
L’ombra lunga del partito di Alfano, però, non si scorge soltanto a Mineo: pochi mesi fa il direttore in pectore (dimessosi dopo le polemiche) del nuovo centro di primo soccorso di Lampedusa era Lorenzo Montana, suocero di Alessandro Alfano, fratello minore del Ministro dell’Interno. Il centro di Lampedusa aveva suscitato scalpore nel 2012, con le docce antiscabbia praticate ai migranti: all’epoca a gestirlo c’era la Sisifo, iscritta a Legacoop, presente nella cordata che gestisce Mineo (insieme alla Cascina, vicina a Cl, duramente colpita dalla seconda tranche dell’inchiesta capitolina). A Catania il consorzio Sisifo ha deciso d’installare la propria sede in un appartamento di piazza Roma: il proprietario è Giovanni La Via, ex assessore regionale all’Agricoltura di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, eletto europarlamentare con il Nuovo Centro Destra nel 2014. La Via ha spiegato di aver affidato la gestione del suo appartamento ad un’agenzia immobiliare, che per una coincidenza ha deciso di affittarlo proprio a Sisifo. Un anno fa il politico aveva raccolto più di 56mila preferenze, risultando il primo degli eletti a Bruxelles (diecimila voti in più dell’allora ministro Maurizio Lupi) nel partito di Alfano: sono i famosi voti di Castiglione, noti persino ad Odevaine.

Mafia Capitale, ‘illegittimo l’appalto al Cara di Mineo’. Ma Alfano ignorò Cantone. - Marco Lillo

Mafia Capitale, ‘illegittimo l’appalto al Cara di Mineo’. Ma Alfano ignorò Cantone

La gara da 100 milioni di euro dell'aprile 2014, al centro dell'inchiesta della Procura di Catania che vede indagato il sottosegretario Ncd Giuseppe Castiglione insieme ad altre 5 persone, era stata segnalata dall'Anticorruzione al ministero dell'Interno, che non è mai intervenuto.

La lettera che Il Fatto Quotidiano ha potuto leggere :Lettera Cantone Lillonon proviene dagli atti giudiziari ma è fondamentale per capire l’inadeguatezza del Ministero guidato da Angelino Alfano nel gestire la questione più importante dell’indagine: l’appalto da 100 milioni del Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Mineo (Catania). Il 27 maggio scorso il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone scrive al ministro Alfano una lettera pesante: l’appalto del Cara di Mineo vinto nell’aprile 2014 da un raggruppamento di imprese che comprende la Cascina (i cui manager sono stati arrestati ieri) è illegittimo.
Alfano non ha ancora risposto. Cantone terminava le sue sette pagine segnalando la delibera del Consorzio di Comuni Calatino Terra di Accoglienza che confermava l’appalto del Cara nonostante un parere contrario dell’Anticorruzione nelle mani delle imprese che lo avevano vinto, in testa La Cascina. Cantone scrive anche ad Alfano: “Tale problematica sarà sottoposta da Anac al giudice contabile per eventuali
profili di danno erariale”.
Tutto inizia il 25 febbraio scorso quando Cantone firma un parere sulla gara vinta dal consorzio comprendente La Cascina, vicina a Luca Odevaine, arrestato a dicembre per vicende analoghe. La gara da 100 milioni per gestire il centro per rifugiati più grande d’Europa in Sicilia sembrava ritagliata su misura del consorzio che già gestiva il Cara. Cantone nel parere scrive che la gara è “illegittima” perché “in contrasto con i principi di concorrenza,proporzionalitàtrasparenza, imparzialità e economicità”. La bacchettata lascia indifferente il Consorzio Calatino Terre di Accoglienza presieduto da Anna Aloisi, sindaco Ncd di Mineo, feudo elettorale del sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione, grande portatore di voti del partito di Alfano (oggi indagato dalla Procura di Catania per turbativa d’asta).
Un mese dopo il parere di Cantone, il 25 marzo, il prefetto Mario Morcone interviene davanti ai parlamentari del Comitato Schengen: “Dico una cosa che non piacerà: ho qualche dubbio sulla decisione del presidente Cantone, che peraltro conosco, apprezzo e stimo moltissimo”. Morcone si schiera con chi gestisce il centro: “A noi hanno detto sempre che il general contractor (come quello scelto da Odevaine e compagni per il Cara di Mineo, ndr) era la soluzione e che si risparmiava e ora improvvisamente per un contratto del 2013 si è stabilito che è stata impedita la partecipazione alle piccole e medie imprese”. Morcone chiude critico: “A certe situazioni bisogna fare attenzione perché ci sono sicuramente aspetti di opacità ma anche tanta gente per bene”. Forti anche delle parole di Morcone, il 13 aprile il direttore generale del Consorzio Calatino Giovanni Ferrera e la presidente Aloisi inoltrano a Cantone una “richiesta di riesame del parere”. Nell’istanza, Ferrera si fa forte di un parere del 10 aprile 2015 della Direzione centrale dei Servizi civili per l’immigrazione del Ministero che “ha confermato l’indirizzo assunto da questo consorzio nel 2014 e negli ultimi sette anni dalle Prefetture”. Effettivamente il 10 aprile il direttore centrale vicario, Maurilia Bove, scrive alla Prefettura di Catania una lettera che sembra un via libera alla strada scelta a Mineo. Dieci giorni dopo lo stesso viceprefetto Bove corregge un po’ il tiro con una seconda lettera alla Prefettura: specifica che la prima nota non faceva “riferimento al caso specifico” di Mineo.
Cantone comunque non si piega e il 6 maggio scrive al Consorzio Calatino che l’Anac non rivede il suo parere: la gara è illegittima. Il 15 maggio Ferrera, del Consorzio Calatino, firma e pubblica la determina che conferma l’appalto da 100 milioni e chiude la questione anche perché l’Anac ha solo un potere consultivo. Grazie alle lettere della direzione che dipende da Morcone e dopo l’audizione anti-Cantone del prefetto, l’appalto ne è salvo. 
Ora Angelino Alfano dovrà rispondere finalmente una volta per tutte alla domanda implicita della lettera del 27 maggio di Cantone: l’appalto di Mineo da 100 milioni, per il quale Luca Odevaine pretendeva mazzette di 10-20 mila euro mensili dai manager della Cascina arrestati ieri, assegnata grazie a una gara definita ‘illegittima’ da Cantone, al Ministro va bene?

giovedì 19 marzo 2015

Incalza fa emendamenti, Ncd li presenta. E se non passano “cazziatone ai deputati”. - Giorgio Meletti e Carlo Tecce

Incalza fa emendamenti, Ncd li presenta. E se non passano “cazziatone ai deputati”

LE CARTE - Il superburocrate al telefono con Vito Bonsignore discute del testo per la Orte-Mestre (10 miliardi) bocciato in Commissione. "Quei tre sono tutti di Ncd, si può intervenire, no? Sto chiamando Lupi". La risposta: "Bernardo e Pagano si sono presi il cazziatone. Vignali mi ha raccontato una palla, lo vado a beccare e gli faccio il culo". Pochi giorni dopo Vignali non sarà più tesoriere del Nuovo Centrodestra.

“Abbiamo fatto un emendamento, ricordi? L’hanno reso inammissibile”, dice Ercole Incalza, il controllore, all’amico Vito Bonsignore, il controllato. Sono allarmati. “Adesso vedo di parlarne con Capezzone e Epifani, mi sto muovendo”, replica il controllato. Bisogna manovrare i lavori parlamentari. Una storia esemplare di come si sfascia l’Italia. La nuova autostrada Orte-Mestre è un affare da 10 miliardi di euro, almeno due dei quali pubblici. Il promotore dell’ambizioso project-financing è Bonsignore, ex europarlamentare Udc, oggi vicino a Ncd, ma soprattutto potente uomo d’affari, indagato dalla Procura di Firenze per induzione indebita: avrebbe promesso a Incalza (arrestato lunedì scorso) la direzione lavori della nuova arteria per Stefano Perotti (arrestato anche lui) in cambio della promessa da parte del superburocrate del ministero delle Infrastrutture di “un favorevole iter delle procedure amministrative relative al finanziamento dell’opera”. La fotografia del verminaio di Porta Pia dove non si capisce più chi è guardia e chi ladro, ma è chiaro solo che nessuno difende l’interesse pubblico, è affidata dai pm fiorentini alla ricostruzione di un giro di telefonate con cui si tenta di modificare nientemeno che il Codice degli appalti.
Nel pomeriggio di martedì 28 gennaio 2014 Daniele Capezzone e Guglielmo Epifani, presidenti delle commissioni Finanze e Attività produttive della Camera, dichiarano inammissibili alcune centinaia di emendamenti al decreto legge “Destinazione Italia”del governo Letta. Tra questi c’è quello scritto da Incalza e presentato da tre parlamentari Ncd, Alessandro PaganoNino Minardo e Maurizio Bernardo: serve ad agevolare il percorso della Orte-Mestre modificando l’articolo 175 del Codice degli appalti, che riguarda la cosiddetta “bancabilità” del project- financing. E qui ricordiamoci che stiamo parlando di miliardi di euro. Un affare enorme, tanto che il piano di sostenibilità economico-finanziaria, approvato dal Cipe a novembre 2013 ma da allora fermo alla Corte dei conti, è per legge segretato.
La bocciatura dell’emendamento stranamente agita Incalza più di Bonsignore. È il superburocrate a dare la notizia all’imprenditore. “Abbiamo fatto fare ricorso all’inammissibilità da… come tu sai… tre parlamentari… che sono Pagano, Minardo e Bernardo… ne conosci qualcuno di questi tre?”. Bonsignore: “Come no?! Pagano è uno dei nostri, anche Bernardo”. Incalza, allora, incalza l’amico: “Sono tutti e tre di Ncd, puoi intervenire?.. no? … Si vota tra un’ora … un’ora e mezza… sto chiamando Lupi … tutti sto chiamando (…) basterebbe sentire… o Vignali che è il relatore.”Raffaello Vignali, uomo di Cl, è in quel momento tesoriere del neonato partito di Angelino Alfano, di cui Bonsignore è finanziatore. E suggeritore: “Ah Vignali , e come no ?!… è un altro dei nostri … vabbè… vado io alla Camera adesso… vabbè”.
A questo punto Incalza chiama Antonio Bargone, ex proconsole dalemiano a Brindisi, sottosegretario ai Lavori pubblici nel governo Prodi che nel 1999 privatizzò la società Autostrade. Adesso è manager autostradale (noblesse oblige) e presiede la Sat, che deve costruire la nuova Livorno-Civitavecchia. Incalza è disperato, come se la Orte-Mestre fosse sua: “Non si è mosso nessuno per ora… solo noi… vabbè… (…) Non so che cazzo può fare”. Bargone lo rassicura: “Io mo’ vado alla Camera vediamo che succede.” Arrivano i nostri. Bargone è indagato con Bonsignore.
Nel frattempo Bonsignore ha parlato con Vignali, e riferisce a Incalza che il relatore si sente impotente, pare addirittura che alla Camera ci sia qualcuno che difende la legalità: “Proprio mi ha detto guarda… ‘gli uffici sono irremovibili sono spaventati dalla Presidenza della Repubblica per queste cose qui… hanno un orientamento molto rigido’”. Ma niente paura. Se il Quirinale non vuole nuove norme fantasiose infilate come emendamenti in leggi che non c’entrano niente, Bonsignore vuole fortissimamente farlo lo stesso: “Vediamo quale può essere il veicolo dove lo mettiamo (…) Voi ne avete qualcuno in preparazione?”. Incalza è pronto come un autonoleggio: “E adesso vediamo… ce ne stanno otto, dieci, ce ne stanno no uno, dieci! Però se l’atteggiamento è questo mi preoccupa”. Intanto Bonsignore lo rassicura: “Bernardo e Pagano si son presi il cazziatone… hanno lasciato Vignali da solo”. Poi tocca anche a Vignali il cazziatone. Incalza spiega a Bonsignore che il relatore del “Destinazione Italia” gli ha raccontato un sacco di balle. Bonsignore si incazza: “Allora mi ha raccontato una palla… è scemo allora (…) ecco fammi una cortesia … perché io domani (…) lo vado a beccare e gli faccio il culo… e infatti… è inutile allora… una persona inutile“. Pochi giorni dopo Vignali non sarà più tesoriere di Ncd.
Ma entra in scena un nuovo controllore, Alessandra Dal Verme, dirigente del ministero dell’Economia che si occupa del Cipe, il rubinetto da cui escono i miliardi per le grandi opere. È un controllore gallonato, sindaco revisore di Poste Italiane e di Anas, mica poco. Eccola al telefono con Incalza: “La questione è molto complicata … e non faranno fare altri emendamenti (…) o noi siamo in grado di riformulare quelli esistenti… allora… in quelli per Expo si può mettere Rho-Monza (…) perché bene o male lo riformulo (…) però mandateli gli emendamenti (…) e quell’altro di Orte-Mestre… mandatemi questi due (…) che io provo a riformulare quelli esistenti … (inc.)”.
Con questo livello di rigore e trasparenza il sistema Incalza si preparava a spendere 10 miliardi di euro per la Orte-Mestre.
Da Il Fatto Quotidiano del 19 marzo 2015