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lunedì 9 ottobre 2023

Cassazione: va garantito un salario minimo costituzionale. - Giuseppe Bulgarini d'Elci

 


La Suprema corte, chiarisce che il salario minimo fissato per legge non è esente da una verifica del giudice sulla congruità rispetto ai parametri costituzionali della giusta retribuzione.

La presenza di una legge sul salario legale non può realizzarsi operando un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva, in quanto anche in questo caso occorre muoversi nella cornice dei parametri costituzionali di sufficienza e adeguatezza della retribuzione.

Il nostro ordinamento è ispirato a una nozione della remunerazione non come prezzo di mercato in rapporto alla prestazione di lavoro, ma come retribuzione adeguata e sufficiente per assicurare un tenore di vita dignitoso .

La circostanza che la retribuzione minima sia determinata sulla scorta del contratto collettivo comparativamente più rappresentativo nell’ambito del settore di attività non impedisce, laddove sia dedotto un contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, di allargare l’analisi ad altri parametri concorrenti.

Questa regola si applica, ad avviso della Cassazione (sentenza 27711/ 2023, depositata ieri,) anche nel caso del «salario minimo legale» , quando la determinazione del trattamento economico sia devoluta per legge a uno specifico contratto collettivo.

Il rispetto dei parametri costituzionali opera anche in presenza di una disciplina legale del salario minimo dove, come avviene per il settore del lavoro in cooperativa (articolo 3, legge 142/2001), è previsto che il lavoratore abbia diritto a un trattamento economico complessivo non inferiore ai livelli minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale “leader” di settore.

La Cassazione perviene a questa soluzione osservando che l’assetto costituzionale vigente impedisce «una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario».

Se, in prima battuta, il rispetto dei parametri costituzionali sulla giusta retribuzione richiede di sottoporli a una verifica di conformità sulla base del contratto nazionale di lavoro firmato dalle associazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative, come prevede la legge 142/2001, l’eventuale esito negativo impone di allargare l’indagine ad altri parametri concorrenti.

In questo passaggio ritroviamo un elemento di grande interesse perché viene chiarito che il parametro di valutazione non sono solo gli altri contratti collettivi di settori affini, ma anche fonti esterne come gli indicatori economici e statistici utilizzati per misurare la soglia di povertà (indice Istat) o la soglia di reddito per accedere alla pensione di inabilità.

La Corte di legittimità non fornisce un elenco analitico di parametri alternativi e richiama, tuttavia, alcuni istituti di immediata lettura, tra cui spiccano i dati Uniemens censiti dall’Inps per il salario medio, i valori dell’indennità Naspi, i trattamenti di integrazione salariale in presenza di riduzione o sospensione dell’attività e altre forme di sostegno al reddito.

Un elemento di forte richiamo è agli indicatori statistici individuati dalla Direttiva Ue sui salari minimi adeguati (2022/2041), di cui la Cassazione sottolinea l’obiettivo di perseguire la dignità del lavoro, l’inclusione sociale e il contrasto alla povertà.

In un contesto sociale influenzato da severe dinamiche inflazionistiche e da cronici ritardi nei rinnovi dei contratti collettivi emerge una situazione di lavoro povero, declinato dalla Cassazione come «povertà nonostante il lavoro», che i Ccnl non sono sempre in grado di intercettare.

È su questo piano che agisce la Suprema corte, prevedendo che il salario minimo fissato per legge non è esente da una verifica di congruità rispetto ai parametri costituzionali della giusta retribuzione.

https://www.ilsole24ore.com/art/cassazione-salario-minimo-rispetti-parametri-costituzionali-giusta-retribuzione-AF77Rp4

mercoledì 2 febbraio 2022

Più occupati: bene donne e under 50, male gli autonomi. - Claudio Tucci

 

A dicembre tasso di occupazione al 59%. Ma rispetto a febbraio 2020 ancora 286mila lavoratori in meno. A novembre e dicembre primi segnali di frenata.

I punti chiave


Il 2021 si è chiuso con +540mila occupati, -184mila disoccupati e -653mila inattivi (tra cui moltissimi scoraggiati). Il tasso di occupazione è salito al 59% (+1,9% tendenziale), tornando ai livelli pre Covid. A dicembre c’è un miglioramento dell’occupazione femminile (+54mila unità in un mese), ma continua il crollo degli indipendenti (-51mila nel confronto su novembre, -50mila sull’anno), a testimonianza di come la ripartenza del lavoro si stia concentrando sul lavoro alle dipendenze: sull’anno, +157mila lavoratori a tempo indeterminato e +434mila a termine. Tra i giovani il tasso di disoccupazione è sceso al 26,8 per cento.

Tra nodi economici e mismatch.

Tutto bene così, quindi? La fotografia scattata dall’Istat su dicembre 2021 mostra luci e ombre. Negli ultimi due mesi dell’anno, novembre e dicembre, il numero di occupati è stabile (anzi in lieve calo) colpa di un clima di incertezza piuttosto generalizzato prodotto da un mix di fattori: il perdurare della pandemia con un elevato numero di contagi, il riaccendersi dell’inflazione, i rincari dei costi dell’energia (i prezzi di gas ed elettricità schizzati alle stelle), le difficoltà nelle forniture di materie prime e semilavorati, rigidità normative. La crescita del Pil è una buona notizia, ma sono urgenti misure ad hoc per non rallentare la ripresa occupazionale. Rispetto al periodo pre pandemia, poi, se il tasso di occupazione è tornato allo stesso livello (59%), il tasso di disoccupazione è ancora inferiore di 0,6 punti e quello di inattività è salito dal 34,6% al 35,1%. Senza considerare poi l’elevato valore del mismatch: una assunzione prevista su tre è difficile, specie nelle materie tecnico-scientifiche. È ormai urgentissimo rilanciare il link scuola-lavoro, massacrato dai precedenti governi.

Primeggiano i contratti a termine.

L’aumento dell’occupazione è trainato dai rapporti a termine: a dicembre, su novembre, i lavoratori temporanei crescono di 59mila unità (è l’unica tipologia contrattuale che aumenta). Sull’anno i lavoratori a tempo sono 434mila.
Il tasso di occupazione femminile sale al 50,5%.
Una buona notizia arriva dalle donne, il cui tasso di occupazione a dicembre sale al 50,5% (ma quello maschile è al 67,6%). In un anno ci sono 377mila occupate in più. Le donne, tuttavia, sono più soggette a lavori temporanei. In quest’ottica, bisogna subito migliorare nelle misure di conciliazione vita-lavoro, con incentivi più robusti. Le donne occupate sono 9 milioni 650mila le donne, gli uomini 13,1 milioni.

Migliora la fascia under 50, male gli autonomi.

Nei dati dell’Istat emerge un miglioramento dell’occupazione nella fascia 35-49 anni, quella centrale del lavoro (+8mila occupati sul mese). In generale, sale l’occupazione di tutta la fascia under50, +29mila tra i 25 e i 34 anni. Continua invece il crollo del lavoro autonomo, specie nei servizi, ancora in fortissimo affanno. Probabilmente, su tutto il lavoro indipendente, è tempo di iniziare a fare una profonda riflessione (e trovare maggiore attenzione nel Legislatore).

martedì 8 ottobre 2019

Manovra, Istat: “Gli elevati livelli di evasione riducono crescita e competitività”. Bankitalia: “Incide su efficienza ed equità”.

Manovra, Istat: “Gli elevati livelli di evasione riducono crescita e competitività”. Bankitalia: “Incide su efficienza ed equità”

Il presidente Gian Carlo Blangiardo, in audizione sulla Nadef, ha ribadito quello che economisti, addetti ai lavori e istituzioni internazionali ripetono da anni: i soldi sottratti alle casse pubbliche da chi non paga le tasse contribuiscono ad affossare le prospettive di sviluppo. Il vice direttore generale di Bankitalia Signorini e la Corte dei Conti invece hanno avvertito che serve "cautela" nell'indicare come coperture i proventi dalla lotta all'evasione, che sono incerti.
dati contenuti nel rapporto sull’economia non osservata allegato alla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza mostrano “la persistenza di elevati livelli di evasione fiscale e contributiva, aspetti critici per il rafforzamento della capacità competitiva e di crescita del nostro paese e per l’efficacia e l’equità delle politiche pubbliche”. Il presidente Istat Gian Carlo Blangiardo, in audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha ribadito quello che economisti, addetti ai lavori e istituzioni internazionali ripetono da anni: i soldi sottratti alle casse pubbliche da chi non paga le tasse contribuiscono ad affossare le prospettive di crescita dell’Italia. La relazione annuale presentata insieme alla Nadef quantifica il “tax gap” medio – cioè la differenza fra il gettito teorico e quello effettivo, che stima l’evasione fiscale – in 109,7 miliardi nel periodo 2014-2016.
Dal canto suo il vice direttore generale di Bankitalia, Luigi Federico Signorini, sempre nel corso dell’audizione ha sottolineato che “in Italia l’evasione sottrae all’erario una quantità elevata di gettito, ma il gettito mancato non è l’unica conseguenza dei comportamenti irregolari nei confronti del fisco. Chi evade riesce a offrire beni o servizi a un prezzo più basso rispetto ai concorrenti onesti; la connessa distorsione altera l’allocazione dei fattori della produzione, con conseguenze negative sull’efficienza, sulla produttività e sulla crescita. L’evasione si traduce in un inasprimento dei tributi per le aziende in regola, ostacolandone la competitività relativa; analogamente, l’aumento della pressione fiscale in capo ai contribuenti che adempiono correttamente agli obblighi fiscali pone un problema di equo trattamento dei cittadini, a maggior ragione se l’effetto di dichiarazioni infedeli si estende oltre il campo strettamente fiscale, per esempio alle agevolazioni o ai servizi sociali previsti per i meno abbienti. L’evasione insomma incide tanto sull’efficienza quanto sull’equità: ostacola il regolare funzionamento del mercato e altera i meccanismi redistributivi disegnati dalla legge. C’è, giustamente, ampio consenso sulla necessità di prendere misure efficaci per contrastarla.
Signorini però ha anche avvertito che serve “cautela” nella valutazione “dei risultati che si possono ottenere in un singolo anno nel contrasto all’evasione fiscale”da cui il governo conta di ricavare nel 2020 oltre 7 miliardi. “Gli effetti delle misure che si introducono e i loro tempi non possono essere quantificati in anticipo con certezza, ed è bene continuare a valutarne analiticamente, caso per caso, l’efficienza e l’efficacia, ed eventualmente fare le correzioni tecniche opportune”, ha spiegato Signorini. “In ultima analisi l’evolversi dei comportamenti dei contribuenti, che per lo più è graduale, ha un ruolo cruciale”.
D’accordo la Corte dei Conti secondo cui il ricorso “massiccio” per la copertura della manovra alla lotta all’evasione “rafforza le riserve su tale modalità di copertura”. “Sul fronte delle entrate, all’impegno per il riassorbimento di sacche di evasione ed elusione, dovrebbe necessariamente accompagnarsi un processo di riforma più complessivo, che risponda a criteri di equità e semplificazione del sistema e che restituisca un ambiente più favorevole alla crescita”. Considerate le dimensioni dell’evasione fiscale, stimata tra i 90 e oltre 100 miliardi, “sicuramente i margini d’intervento ci sono. Quello che noi abbiamo storicamente cercato di sottolineare è l’esigenza di una strategia coordinata, fatta di tante misure”, spiega il consigliere della Corte dei conti ed ex direttore dell’Agenzia delle entrate, Massimo Romano. “Non c’è uno strumento unico che risolve il problema ma una linea di interventi che devono avere una loro coerenza”.
L’auspicio è che si possano mettere in campo”, sottolinea Romano. L’utilizzo dei pagamenti elettronici “è un complemento, un pezzo di una strategia, non l’unica strategia possibile”.
Per quanto riguarda i dati macro della Nadef, l’Istat giudica “coerente” l’obiettivo di crescita programmatica fissato dal governo per il 2019, pari a +0,1%, “in assenza di perturbazioni derivanti da una significativa involuzione dello scenario internazionale”. Le previsioni complete sul 2020 verranno pubblicate il 4 dicembre. “Per un paese in cui il debito pubblico rappresenta uno dei principali fattori di fragilità, assicurare che la variazione abbia quanto meno il segno giusto è il minimo”, ha detto invece Signorini. “La situazione di questi anni è storicamente eccezionale. I tassi nominali sono i più bassi che si ricordino. Questa situazione va sfruttata per mettere il rapporto tra debito e prodotto su un sentiero di durevole discesa”. Per Signorini è necessaria una riforma fiscale complessiva e organica, fondata su un’attenta analisi che non può consistere nell’abbattere tutte le imposte. Nella definizione dei provvedimenti da adottare sarà opportuno prendere in considerazione in modo complessivo gli strumenti disponibili, incluse le imposte indirette”.
Quotazioni in borsa ed evasione fiscale non aiutano l'economia mondiale, ma contribuiscono a determinare una sostanziale differenza economica tra ricchi, sempre più ricchi perchè azionisti ed evasori fiscali, e poveri sempre più poveri perchè schiavi di chi non rispetta le regole. Cetta.

lunedì 5 agosto 2019

Istat, economia verso "lieve miglioramento".

Istat, economia verso lieve miglioramento

L'economia del nostro Paese procede a passo di lumaca, anzi - tra dato sul Pil e produzione industriale - è praticamente ferma ma guardando in prospettiva appare uno scenario "di lieve miglioramento dei livelli produttivi". Dalla nota mensile di luglio sull'andamento dell'economia italiana diffusa oggi dall'Istat, il pil in valori concatenati con anno di riferimento 2010, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, in base alla stima preliminare, ha registrato nel secondo trimestre una variazione congiunturale pari a zero a sintesi di una diminuzione del valore aggiunto dell’industria e dell’agricoltura e di un contenuto incremento in quello dei servizi. Sia la domanda nazionale (al lordo delle scorte) sia la componente estera netta hanno fornito un contributo nullo.
L'Istituto evidenzia che a giugno, l’indice destagionalizzato della produzione industriale è diminuito dello 0,2% in termini congiunturali. Nella media del secondo trimestre, la produzione si è contratta dello 0,7% rispetto al trimestre precedente (+1,0% in T1). Il dato mensile ha mostrato un aumento congiunturale solo per l’energia (+2,4%) mentre si sono registrate flessioni per i beni di consumo (-0,7%), i beni intermedi (-0,6%) e, in misura più lieve, per i beni strumentali (-0,1%).

Nonostante il deciso incremento congiunturale di maggio (+2,5%), gli ordinativi dell’industria nel trimestre marzo-maggio hanno segnato una crescita contenuta (+0,2% sul trimestre precedente) a causa del peggioramento della componente interna (-0,7%) che, spiega la nota mensile di luglio dell'Istat, ha in parte compensato l’andamento positivo di quella estera (+1,5%).
A luglio, rileva ancora l'Istat, l’indice del clima di fiducia dei consumatori ha segnato un marcato aumento per effetto di un miglioramento di tutte le componenti. Il recupero della fiducia dei consumatori è stato determinato soprattutto dalla componente economica e dalle attese sulla disoccupazione. Con riferimento alle imprese, l’indice di fiducia ha segnato un progresso, raggiungendo il valore massimo da ottobre 2018. L’aumento è stato diffuso tra i settori economici a eccezione del settore manifatturiero per il quale sono peggiorati i giudizi sul livello degli ordini e migliorati quelli sulle attese sulla produzione, con una diminuzione del saldo relativo alle scorte di prodotti finiti.

L’indicatore anticipatore, osserva l'Istituto di statistica, ha interrotto la tendenza alla flessione in atto dalla fine dello scorso anno, prospettando uno scenario di lieve miglioramento dei livelli produttivi.

https://www.adnkronos.com/soldi/economia/2019/08/05/per-istat-economia-ferma_E8uYPRqotF0bhGmCZI5qNK.html

giovedì 11 gennaio 2018

I giovani? Pagati 6.500 euro in meno dei coetanei europei. - Alberto Magnani



L'attacco (con retromarcia) di Berlusconi al Jobs act ha fatto riemergere numeri e risultati della riforma voluta dal governo Renzi nel 2014. Tra i primi beneficiari della legge ci sarebbero dovuti essere i giovani, una delle categorie che ha sofferto e continua a soffrire di più sul mercato italiano. Come è andata dal 2015 ad oggi? Gli ultimi dati Istat hanno registrato una disoccupazione giovanile al 32,7%, dato che brilla rispetto ai picchi di oltre il 40% raggiunti dopo la crisi. Ma la statistica inquadra il fenomeno solo in parte. In primo luogo perché con «giovanile» si intende esclusivamente la fascia dai 15 ai 24 anni, in larga parte assorbita dagli studi secondari e universitari (dove è più raro dedicarsi a tempo pieno alla ricerca di lavoro, l’attività che qualifica appunto come disoccupati). In seconda battuta perché non contempla alcuni fattori integrati all'occupazione in sé, dalla tipologia di contratto alla retribuzione media.
Se si dà uno sguardo all'andamento delle assunzioni tra 2015 e 2017, secondo i dati stimati dall'Inps, emerge un quadro un po' più articolato. Le assunzioni dei giovani sono in crescita, ma con contratti a termine e retribuzioni basse sia rispetto agli altri blocchi anagrafici che alla media in Europa.
Crescono le assunzioni, cala la stabilità 
Per iniziare dai contratti, il triennio 2015-2017 rispecchia l'andamento complessivo del mercato: un calo delle assunzioni a tempo indeterminato che si bilancia alla crescita di quelle a termine, incoraggiate anche dall'obbligo di stabilizzare i vecchi rapporti di collaborazione (aboliti proprio dal Jobs Act). Il risultato è che, nell'arco di tre anni, si è passati dalle 397.878 nuove assunzioni a tempo indeterminato per 15-29enni nel periodo gennaio-ottobre 2015 alle 235.600 dello stesso periodo del 2017: 
144.278 rapporti permanenti in meno rispetto agli standard di tre anni prima, nonostante il viatico delle cosiddette tutele crescenti. Viceversa, i contratti a termine per under 29 sono lievitati nello stesso periodo dai circa 1,01 milioni del 2015 agli 1,5 milioni del 2017.
La prevalenza dei rapporti a termine non è di per sé patologica, e si allinea agli standard europei sui cosiddetti temporary contracts (contratti temporanei). Su scala continentale, secondo dati Eurostat, il 43,8% dei lavoratori dai 15 ai 24 viene assunto con contratti a breve termine, con picchi di oltre il 70% in paesi come la Slovenia e Spagna, del 66,3% in Portogallo e del 58,3% in Francia. Il problema è che nel resto d’Europa la percentuale scende al 13,1% quando si passa alla fascia 25-49 anni d’età. In Italia, sempre tra 2015 e 2017, i lavoratori nella fascia 25-29 anni hanno visto aumentare le assunzioni a termine da 501.386 a 690.718 (+189.332) e calare quelle a tempo indeterminato da 222.727 a 132.288 (-90.439).
Stipendi al palo: in Germania un giovane guadagna 11mila euro in più. 
L’instabilità si fa sentire anche in busta paga. Sulle circa 4 milioni di assunzioni a tempo attivate nel 2017, quelle che prevedono retribuzioni sotto ai 1.500 euro lordi sono oltre 1,4 milioni. Più di una su tre. Le retribuzioni dei giovani, però, sembrano anche più confinate in una sorta di limbo distante sia dalla media delle altre fasce anagrafiche sia, e soprattutto, rispetto alle attese dei coetanei assunti in Francia e Germania. JobPricing, una società, di ricerca, ha evidenziato che la Ral (retribuzione annua lorda) per il 2017 nella fascia 25-34 anni viaggia sui 25.632 euro lordi, contro i 29.238 euro lordi della platea complessiva di lavoratori dai 15 ai 55 anni. E il dato è anche generoso rispetto a quello rilevato dall’Istat per il blocco 16-29 anni nel 2015, anno di debutto del Jobs Act: 13.553 euro lordi, in discesa dai 13.667 euro del 2014.
Potrebbe essere ovvio che la retribuzione cresca con l’esperienza, permettendo a un over 50 di guadagnare di più di un 26enne ai primi contratti. Ma l’anomalia italiana sta nel fatto che la curva degli stipendi viaggia a un ritmo rallentato rispetto alla media Ue: nel resto del Continente le remunerazioni salgono già dai primi anni e raggiungono l’apice a 40, in Italia bisogna aspettare oltre ai 55 per avvicinarsi alle stesse condizioni.
Non a caso il paragone si fa più pesante su scala europea, termine di confronto naturale per neolaureati e professionisti disposti a trasferirsi (anche) a seconda delle retribuzioni. Secondo dati di Willis Tower Watson, una società di consulenza, un giovane assunto comeentry level (contratto di ingresso) dopo la laurea magistrale in Germania guadagna in media 37mila euro lordi all’anno: circa 11mila euro in più rispetto ai 25-34enni italiani fotografati da JobPricing. Se si allarga il confronto ad altri paesi Ue, la forbice si allarga a oltre 6.500 euro lordi: dai circa 25.600 euro lordi che si guadagnano in Italia ai 32.214 euro nella media dei laureati magistrali tra Francia Irlanda, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svezia .

mercoledì 5 aprile 2017

La disoccupazione giovanile diminuisce ma c'è un trucco: aumentano gli inattivi. - Claudio Paudice



In tre mesi meno 86mila giovani disoccupati, più 86mila giovani inattivi. È in questo rapporto a saldo zero il dato più interessante che emerge dal bollettino Istat sul lavoro. Il Partito Democratico non ha esitato molto prima di esultare per i numeri diffusi dall'Istituto Nazionale di Statistica: a febbraio la disoccupazione giovanile ha toccato il livello più basso, scendendo dell'1,7% al 35,2%, da agosto 2012. "Possono dire tutto quello che credono: ma il Jobs Act funziona, ormai negarlo è impossibile amici", ha scritto l'ex premier Matteo Renzi nella sua e-news.
Ma spulciando meglio i dati si capisce che forse non è il caso di festeggiare. Il dato relativo alla disoccupazione giovanile è infatti accompagnato da quello sugli inattivi che, in maniera speculare, segue l'andamento opposto. Per inattivi, vale la pena ricordare, si intende coloro che non hanno un lavoro e che hanno smesso di cercarlo, solitamente perchè sfiduciati. L'Istat riporta un calo di 41mila unità tra le persone d'età compresa tra i 15 e i 24 anni alla ricerca di un lavoro a febbraio rispetto al mese precedente. A fronte di questa buona notizia ce n'è una cattiva: l'incremento di 38mila unità tra gli inattivi.

ISTAT

Se da un lato quindi molti giovani spariscono dal conteggio di coloro che sono alla ricerca di un'occupazione, dall'altro ricompaiono improvvisamente nella platea di chi ormai il lavoro non lo cerca più. Non si tratta di una tendenza nuova: il percorso opposto e speculare tra giovani disoccupati e inattivi è confermato dal calcolo fatto in base alle serie storiche Istat. Negli ultimi tre mesi (dicembre 2016-febbraio 2017) i disoccupati sono calati di 86mila unità mentre gli inattivi sono aumenti della stessa cifra, fa notare il direttore della Fondazione Adapt Francesco Seghezzi. Gli occupati invece sono diminuiti di 7mila unità. In sintesi il numero di chi è alla ricerca di un lavoro (disoccupati) non cala perché ha trovato un'occupazione (occupati) ma perché ha smesso di cercarla (inattivi).

ISTAT

"Credo che la polemica sulle cifre sia molto da addetti ai lavori. Oggi la statistica più bella non è quella sul voto nei circoli, è che finalmente scende la disoccupazione giovanile, che il Jobs Act funziona, che i numeri dell'economia italiana non vanno ancora bene come vorrei ma vanno un po' meglio", ha dichiarato Renzi a Rds. Tuttavia un altro indizio che le cose per i giovani non stiano migliorando - come invece pare nella narrazione dell'ex segretario del Pd - arriva dal dato sugli occupati, fermo al 16,4% e stabili su gennaio.
L'aumento degli inattivi, se risulta molto evidente per la fascia d'età più bassa, riguarda però tutto il mercato del lavoro. Tra i 15 e i 64 anni la stima nell'ultimo mese è in crescita (+0,4%, pari a +51 mila). L'aumento si concentra tra gli uomini, mentre calano leggermente le donne e coinvolge tutte le classi di età ad eccezione degli ultracinquantenni.


Ultimi 3 mesi +86mila giovani inattivi e -86mila giovani disocc. Hanno ricominciato a studiare a febbraio o hanno smesso di cercare lavoro?

Proprio sugli ultracinquantenni vale la pena sottolineare un altro dato. "Al netto dell'effetto della componente demografica, su base annua, cresce l'incidenza degli occupati sulla popolazione in tutte le classi di età e si conferma il ruolo predominante degli ultracinquantenni nello spiegare la crescita occupazionale, anche per effetto dell'aumento dell'età pensionabile", scrive l'Istat nel suo bollettino. Nell'ultimo anno gli occupati sono cresciuti di 15mila unità tra i giovani, sono calati di 17mila nella fascia 25-34 anni, sono diminuiti significativamente di 106mila nella fascia tra i 35-49 anni mentre per gli over 50 ci sono stati +402mila occupati. Una tendenza che è dovuta, spiega tra le righe l'Istat, agli effetti della legge Fornero che ha posticipato l'età per andare in pensione. In sintesi, per buona parte non si tratta di nuovi occupati ma di persone che escono più tardi dal mercato del lavoro.
http://www.huffingtonpost.it/2017/04/03/la-disoccupazione-giovanile-diminuisce-ma-ce-un-trucco-aumenta_a_22024065/

Come definirli?
Buffoni, bugiardi, furbi, stupidi, .....?
Di certo non responsabili.
Questi non prendono in giro noi, si autoridicolizzano da soli!

lunedì 22 febbraio 2016

Inflazione, frena il carrello della spesa Prezzi fermi o in calo in dieci città.

Inflazione, frena il carrello della spesa
Prezzi fermi o in calo in dieci città

L'Istat dice che l'indice dei prezzi a gennaio aumenta allo 0,3%, ma in molti capoluoghi i prezzi restano in forte stagnazione.

L'inflazione a gennaio è aumentata dello 0,3% su base annua. Lo rende noto l'Istat, confermando la stima preliminare e parlando di "lieve rialzo". Su base mensile, invece, i prezzi al consumo sono calati dello 0,2%. E a gennaio frena il rincaro del cosiddetto carrello della spesa: l'aumento su base annua dei prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona si ferma allo 0,3%, dallo 0,9% di dicembre.

Prezzi fermi o deflazione in 10 grandi città - Se l'inflazione mostra una lieve ripresa, però, dieci grandi città italiane a gennaio mostrano un indice dei prezzi che oscilla tra lo zero e il segno meno. Guardando al dato annuo, secondo le tabelle diffuse dall'Istat sono a zero Milano, Firenze, Perugia, Palermo, Reggio Calabria e Ravenna, mentre sono in deflazione Bari (-0,3%), Potenza (-0,2%), Trieste (-0,2%) e Verona (-0,1%). Sul territorio restano dunque aree (Comuni capoluogo o con oltre 150 abitanti) con listini congelati o in negativo.

Lieve ripresa con frenata ribassi energia - La lieve ripresa dei prezzi è dovuta soprattutto al ridimensionamento della flessione dei beni energetici non regolamentati (-5,9%, da -8,7% di dicembre) e all'inversione della tendenza dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+0,5% da -1,7% di dicembre): dinamica che è attenuata dal rallentamento della crescita degli alimentari non lavorati (+0,6% dopo il +2,3% del mese precedente).

Al netto degli alimentari non lavorati e dei beni energetici, l'"inflazione di fondo" sale a +0,8% (da +0,6% di dicembre) e quella al netto dei soli beni energetici passa a +0,8% (da +0,7% di dicembre). Il ribasso mensile dell'indice generale è essenzialmente dovuto alla diminuzione dei prezzi dei beni energetici (-2,4%). L'inflazione acquisita per il 2016 è pari a -0,4%.

I prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto diminuiscono dello 0,3% in termini congiunturali e segnano un aumento su base annua dello 0,1% (la variazione tendenziale era nulla a dicembre).


Dice di ave abbassato le tasse (?????) e di aver fatto tante riforme in breve tempo: a noi risulta, invece, che le tasse siano aumentate, che le riforme fatte dal governo abbiano generato una gran confusione, come dice anche Squitieri, e che siano diminuiti i servizi... e della crescita economica paventata dal pidocchietto io non ricevo sentore, noto, invece, solo una crescita dell'inflazione....

martedì 8 gennaio 2013

Lavoro, tasso disoccupazione giovanile a novembre 37,1%. Record dal ’92.


Lavoro, tasso disoccupazione giovanile a novembre 37,1%. Record dal ’92


Secondo l'Istat il tasso di disoccupazione a novembre resta all’11,1%, lo stesso livello di ottobre e quindi ancora ai massimi da gennaio 2004. A novembre 2012 tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro, ovvero disoccupate, sono 641 mila e rappresentano il 10,6% della popolazione. Italia quarta per livelli di disoccupazione tra i giovani in Europa.

In Italia più di un giovane, tra i 15 e i 24 anni, non aveva un lavoro nel mese di novembre. Un dato drammatico se si pensa che è lo stesso tasso del 1992. Secondo i dati dell’Istat, infatti, il tasso di disoccupazione giovanile è stato pari al 37,1%: record assoluto, ai massimi sia dalle serie mensili, ovvero da gennaio 2004, sia dalle trimestrali, cominciate nel quarto trimestre di venti anni fa. A novembre 2012 tra i giovani italiani le persone in cerca di lavoro sono 641 mila e rappresentano il 10,6% della popolazione nella stessa fascia d’età.
In generale a novembre gli occupati sono 22 milioni 873 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto a ottobre (-42 mila) sia su base annua (-37 mila). Il tasso di occupazione, pari al 56,8%, è in diminuzione di 0,1 punti percentuali “nel confronto congiunturale e invariato rispetto a dodici mesi prima” informa l’Istituto di statistica. Il tasso di disoccupazione a novembre resta all’11,1%, lo stesso livello di ottobre e quindi ancora ai massimi da gennaio 2004, inizio serie mensili, e dal primo trimestre del 1999, guardando alle serie trimestrali. Su base annua il tasso è in aumento di 1,8 punti.   
In termini generali la fotografia dell’Istat non è meno infelice. A novembre il numero di disoccupati resta vicino ai 2,9 milioni, precisamente pari a 2 milioni 870 mila, in lieve calo (-2 mila) rispetto a ottobre ma solo perché la diminuzione riguarda la sola componente femminile).  Su base annua, invece, la disoccupazione cresce del 21,4%, ovvero di 507 mila unità. A novembre 2012 gli occupati sono 22 milioni 873 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto a ottobre con un calo di 42 mila unità, sia su base annua, con una diminuzione di 37 mila unità. 
“A novembre l’occupazione maschile cala dello 0,2% in termini congiunturali e dell’1,5% su base annua. L’occupazione femminile cala dello 0,2% rispetto al mese precedente, ma aumenta dell’1,7% nei dodici mesi – rileva l’Istat -. Il tasso di occupazione maschile, pari al 66,3%, diminuisce rispetto a ottobre di 0,2 punti percentuali e di 0,9 punti su base annua. Quello femminile, pari al 47,3%, cala di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali, mentre cresce di 0,9 punti rispetto a dodici mesi prima”.
Rispetto a ottobre la disoccupazione aumenta dell’1,3% per la componente maschile e diminuisce dell’1,7% per quella femminile. “In termini tendenziali la crescita interessa sia gli uomini (+28,3%) sia le donne (+14,0%) – continua l’Istat -. Il tasso di disoccupazione maschile, pari al 10,6%, cresce di 0,1 punti percentuali rispetto a ottobre e di 2,2 punti nei dodici mesi; quello femminile, pari al 12,0%, cala di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e aumenta di 1,2 punti rispetto a novembre 2011″. Il quadro che ne emerge è quello di una crescita del numero di coloro che non hanno un’occupazione: “Il numero di inattivi aumenta nel confronto congiunturale per effetto della crescita sia della componente maschile (+0,1%) sia di quella femminile (+0,4%). Su base annua si osserva un calo dell’inattività sia tra gli uomini (-3,0%) sia tra le donne (-3,6%)”. 
“L’aumento della disoccupazione e le previsioni negative per il 2013 non sono un fallimento del governo Monti” dice il ministro del LavoroElsa Fornero, intervistata da Radio Capital. “Ci sono forze e tendenze di lungo periodo e noi paghiamo errori di lungo periodo – ha spiegato -. C’è molto nella riforma del lavoro che tende a contrastare la precarietà, soprattutto per giovani e donne, ma si deve dire che il lavoro non si fa a comando ma ricostituendo l’economia e migliorando la formazione”. Fornero ha sottolineato che al centro della riforma “c’è l’apprendistato” e che nei due mesi che restano lavorerà “ogni giorno per una aggiunta di costruzione al nuovo apprendistato”.  E sulla definizione dei giovani come schizzinosi, Fornero precisa: “E’ un episodio che rivela le difficoltà avute nella comunicazione. Io non ho detto che i giovani sono ‘choosy‘. Un tempo usavo dire ai miei studenti di non esserlo, oggi invece i giovani non sono nella condizione di esserlo, perché hanno solo lavori precari. E’ quasi il contrario di quanto mi è stato attribuito. Poi dire che non lo avevo detto è stato inutile, pazienza”.
Anche a livello europeo i dati sono sconfortanti. Cresce ancora il record di disoccupazione nell’Eurozona. A novembre 2012, secondo i dati Eurostat depurati dalle variazioni stagionali, ha raggiunto l’11,8% (11,7% a ottobre), pari a 18,8 milioni di persone. Nello stesso mese del 2011 i senza lavoro erano il 10,6%. In 12 mesi la disoccupazione ha colpito 2,015 milioni di persone in più. Nell’insieme dell‘Unione europea a 27, la disoccupazione a novembre scorso è stata registrata al 10,7%, stabile rispetto al mese precedente. A novembre 2011 era al 10,0%. Secondo l’ufficio europeo di statistica i senza lavoro nei 17 paesi della valuta comune in un mese i disoccupati sono cresciuti di 113.000 unità. In Italia la disoccupazione di novembre è all’11,1%, stabile rispetto a ottobre 2012. Dodici mesi prima era al 9,3%. In un anno i senza lavoro sono aumentati in 18 degli stati membri della Ue-27, si è ridotta in sette tra i quali la Germania (da 5,6% a 5,4%) e le repubbliche baltiche.
Gli aumenti più forti su base annuale, in Grecia (dal 18,9% al 26,0% registrato da settembre 2011 a settembre 2012), Cipro (dal 9,5% al 14,0%), Spagna (dal 23,0% al 26,6%) e Portogallo (dal 14,1% al 16,3%). A novembre scorso il tasso di disoccupazione giovanile nell’Eurozona ha raggiunto il 24,4% (24,2% ad ottobre), pari a 3,788 milioni di persone. Rispetto ad un anno fa, quando era al 21,6%, ci sono 420mila giovani disoccupati in più. L’Eurostat, per l’Ue a 27, indica un tasso di disoccupazione giovanile del 23,7%.  L’Italia, con il 37,1% di disoccupati tra i giovani fino a 25 anni registrato a novembre scorso, è quarta nell’Eurozona per i livelli di disoccupazione giovanile. A ottobre era al 36,5%, nel novembre 2011 al 32,2%. Peggio, soltanto la Grecia (57,6%, dati di settembre 2012), la Spagna (56,5%) ed il Portogallo (38,7%).
E "loro" che fanno? Si preoccupano di cucire alleanze e assicurarsi il posto in poltrona anche comprando voti, sempre ed esclusivamente con i nostri soldi.

venerdì 16 novembre 2012

Italia terra di diseguaglianza: “Un Paese ricco abitato da poveri”. - Nunzia Penelope


Baraccopoli


Il tesoro privato degli italiani, tra denaro contante, case, azioni e titoli, ammonta in totale a 8.640 miliardi di euro netti. Somma che equivale a oltre quattro volte il debito pubblico, con i suoi 1972 miliardi registrati ad agosto 2012. L'inchiesta nel nuovo libro di Nunzia Penelope.

Nunzia Penelope torna in libreria con “Ricchi e poveri” (Ponte alle Grazie): la prima inchiesta sulla diseguaglianza in Italia. Come vive chi può spendere 10mila euro al giorno? E come sopravvive chi ne guadagna 1.000 al mese? Ne esce un Paese in cui convivono chi colleziona case e chi vive in camper, chi fa shopping col jet privato e chi non riesce a fare la spesa.
Se la ricchezza italiana fosse una montagna, sarebbe alta quanto il K2, mentre il debito pubblico, al confronto, risulterebbe come il monte Pisanino nelle Alpi Apuane: 8611 metri contro poco meno di 2000. La ricchezza di cui stiamo parlando costituisce il tesoro privato degli italiani, tra denaro contante, case, azioni e titoli, per un totale di 8.640 miliardi di euro netti, cioè oltre quattro volte il debito, con i suoi 1972 miliardi registrati ad agosto 2012.
SE L’ITALIA FOSSE UN’AZIENDA. Un’azienda con rapporti analoghi tra passivo e patrimonio non rischierebbe il fallimento, anzi, avrebbe risorse sufficienti anche per investire, crescere, arricchirsi ulteriormente. L’Italia, invece, è costantemente sull’orlo del default, costretta a tirare la cinghia, a tagliare la spesa, a non avere mai un soldo. I molti e diversi motivi di questa situazione, spiegati diffusamente da economisti di ogni orientamento, ce n’è però anche uno molto semplice: il debito è di tutti, al contrario della ricchezza, che è di pochi.
Il debito pubblico è spalmato su 60 milioni di cittadini, per una quota di circa 32 mila euro ciascuno: inizia al momento della nascita e finisce solo con la morte. Per una famiglia di tre persone equivale a un fardello da quasi 100mila euro, che si trascinerà a vita perché impossibile da estinguere. Non funziona nello stesso modo per la ricchezza nazionale. La metà, e cioè oltre 4 mila miliardi di euro, appartiene a una piccola minoranza pari al 10 per cento della popolazione: sei milioni di persone che vivono nell’assoluto benessere. Al 90 per cento dei cittadini, 54 milioni di persone, resta da dividersi l’altra metà.
Sembra quasi un gioco di parole, ma spiega la ragione fondamentale per cui l’Italia è quel paradosso che è: un paese ricco, abitato da poveri. Teoricamente, infatti, siamo molto più ricchi di quanto non fossimo negli anni del boom economico; nel 1965 la ricchezza complessiva era pari all’equivalente di un miliardo e 137 milioni di euro, contro gli oltre 8mila miliardi del 2011; quella pro capite pari superava di poco i 21mila euro, contro i 142 mila dei nostri giorni. E siamo ricchi anche nel confronto internazionale: la ricchezza delle famiglie italiane nel 2010 era pari a 8,3 volte il reddito disponibile, contro il 7,5 della Francia, il 7,8 della Germania, il 7 del Giappone, il 5,5 delCanada e il 4,9 degli Usa.
DOVE SONO I SOLDI? Da una parte ci sono gli 8600 miliardi dei patrimoni privati conteggiati dalla Banca d’Italia, dall’altra i patrimoni, ancor più privati, dell’economia illegale. I grandi evasori portano i soldi altrove. Nelle banche e nei caveau della sola Svizzera ci sono tra i 150 e i 200 miliardi di euro che battono bandiera tricolore. Ma ancora non si è trovato un modo di riportarli a casa: le lunghe discussioni sulla possibilità di accordi tra il governo italiano e quello svizzero, finalizzate a tassare quei capitali, si sono arenate di fronte alla considerazione che un accordo del genere rappresenterebbe l’ennesimo condono. L’esodo di capitali oltre confine si è intensificato, spinto soprattutto dalla possibilità, pur remotissima, che prima o poi i conti pubblici richiedano la cura urto della patrimoniale. Non si tratta dei capitali di mafia e camorra, o almeno non solo: al riciclaggio ricorrono in massa anche imprese e professionisti, e il vero sport nazionale, ormai, non è ripulire i soldi sporchi, ma nascondere quelli puliti per non pagarci le tasse.
DALLA ROULOTTE… Nell’ultimo censimento dell’Istat risulta che sono oltre 71mila gli italiani che vivono in baracche, tende, roulotte. Nel 2001 erano appena 23 mila, sono più che triplicati in un decennio. Un aumento che lo stesso Istat ha definito “vertiginoso”, ma la notizia non ha avuto dai media il rilievo che sarebbe stato necessario; eppure, settantamila persone equivalgono alla popolazione di una città nemmeno tanto piccola, come Trapani, Pavia, Cosenza.
 …AL JET PRIVATO. Con 60 mila euro si può fare il giro del mondo in jet privato. Partenza da Londra e poi a zonzo: dal Mali allo Zambia, dalle Maldive alla Cambogia, dall’India a Lisbona. Il viaggio si chiama “Impero ed esploratori”. Ma queste sono stravaganze da nuovi ricchi. Quelli veri, consolidati, viaggiano discreti e sotto traccia con i loro jet personali, che ormai in tutto il mondo sono una flotta forse perfino più numerosa di quella in dotazione alle compagnie aeree commerciali. Gioiellini volanti, di cui il più bello, dicono gli esperti, è quello che Diego Della Valle si è regalato nel 2011: un Gulfstream 55 bireattore, 13 mila chilometri di autonomia senza scalo. Gli interni sono all’altezza della reputazione: salottino privato, due divanetti con schermi tv da 24 pollici e sei posti singoli. Il tutto per poco più di 50 milioni di dollari. Quelli che non possono spendere nemmeno la benzina per la macchina, invece, restano a casa. Ed è ormai questa, da qualche tempo, la scelta obbligata per metà della popolazione italiana.
di Nunzia Penelope
da Il Fatto Quotidiano del 15 novembre 2012
I NUMERI
1.286 euro lo stipendio medio dei dipendenti
16mila euro lo stipendio di un ministro
8.640 miliardi di euro la ricchezza privata in Italia
2mila miliardi il debito pubblico italiano
2,5 milioni le famiglie ricche
3,2 milioni le famiglie povere