martedì 31 luglio 2012

Buio sul gigante. Se l'India va in panne. - Federico Rampini


Buio sul gigante Se l'India va in panne

Milioni di persone sono rimaste al buio a causa della "madre di tutti i blackout". Interruzioni della corrente elettrica affliggono il subcontinente da anni, A far deragliare il miracolo economico nella seconda nazione più popolosa al mondo è l'amministrazione pubblica: inerte e corrotta. Per far fronte al rischio di una crisi, il Paese si affida al premier.
Trecentosessanta milioni immersi nell'oscurità, senz'acqua e senza luce, paralizzati sui treni e sui metrò, negli ingorghi del traffico impazzito senza semafori, nel calore soffocante senza il sollievo di aria condizionata o ventilatori. "La madre di tutti i blackout" ha colpito ieri. Non poteva che accadere in India. Dalla capitale New Delhi agli Stati del Rajasthan, Punjab, Uttar Pradesh, Kashmir e altri ancora: quasi un terzo della popolazione indiana, l'equivalente di tutta l'Unione europea è rimasta senza elettricità. Un evento clamoroso da qualsiasi altra parte del mondo, eppure in India non ha quasi suscitato sorpresa. È dal 1951 che l'India fallisce regolarmente negli obiettivi che si fissa per la produzione di energia. È uno dei paradossi di un Paese che ha compiuto tanti miracoli eppure continua ad arrendersi davanti al suo avversario più feroce e implacabile: la sua stessa amministrazione pubblica.

"La burocrazia indiana: l'unica potenza ad avere sconfitto James Bond". La battuta amara circola a New Delhi da quando la produzione dell'ultimo film di 007 ha dovuto rinunciare alle riprese sui treni.

Un burocrate locale si era incaponito a negare il permesso. Per riuscire (forse) a superare l'ostacolo ci sarebbero voluti dei mesi: troppo per i tempi del cinema. L'agente segreto di Sua Maestà è l'ennesima vittima illustre di un flagello che può far deragliare il miracolo economico nella seconda nazione più popolosa del mondo. Almeno la disavventura di James Bond fa notizia. Invece un miliardo di cittadini indiani "ostaggi" della loro pubblica amministrazione non hanno nemmeno questa piccola compensazione morale. Eppure ci sono fra loro, insieme ai più poveri che subiscono le angherìe peggiori, tante vittime "eccellenti" nelle professioni del ceto medioalto che rappresentano il volto più avanzato della nazione. Per esempio i residenti di Gurgaon: un milione e mezzo di persone, in una "neopoli" o New City sorta alla periferia di Delhi con la vocazione di ospitare multinazionali, centri informatici, colossi del software. A Gurgaon hanno la loro sede indiana Google e American Express.

La città è stata oggetto di una protesta singolare: ancora prima della "madre di tutti i blackout", gli abitanti erano scesi in piazza all'inizio di luglio, "solo" per chiedere la corrente elettrica. Nonostante la sua modernità, Gurgaon è afflitta dalla stessa sventura che in altre aree del paese non fa neppure notizia: i blackout a singhiozzo, a tutte le ore del giorno. A Gurgaon le multinazionali debbono dotarsi di gruppi elettrogeni, per garantire che le loro banche dati non siano paralizzate dai blackout. Ma quando i loro ingegneri informatici rientrano a casa, con 40 gradi all'ombra, vorrebbero trovare il frigo funzionante. "I monsoni sono in ritardo, quindi è basso il corso dei fiumi che alimentano i bacini delle dighe idroelettriche. E poi questa è la stagione della semina, la priorità nell'erogazione di corrente va data ai contadini". Questa è la spiegazione ufficiale, fornita da Sanjiv Chopra che dirige la utility elettrica Dhbvn. Lascia attoniti: una superpotenza economica che è la sede di colossi hi-tech come Infosys e Tata, ancora dipende dai monsoni per accendere la luce. 

Lo spaventoso ritardo nelle infrastrutture (l'energia è solo un esempio, autostrade, ferrovie e aeroporti non stanno meglio) si può ricondurre in buona parte allo stesso problema: una pubblica amministrazione inerte, scassata e corrotta. "La peggiore di tutta l'Asia": così la definisce uno studio autorevole, la classifica redatta dalla Political and Economic Risk Consultancy con sede a Hong Kong, per confrontare le nazionidel"miracolod'Oriente". L'India è ultima: peggio di Vietnam, Indonesia, Filippine, Cina. Riuscirà il mitico Babu  -  come viene chiamato familiarmente lo statale di New Delhi  -  a far deragliare il boom dell'India? I segnali di crisi ci sono. La crescita è rallentata. Dopo un periodo in cui il Pil aumentava regolarmente dell'8% all'anno, l'anno scorso è cresciuto del 6,5% e quest'anno potrebbe chiudersi con un +5%. Sono ritmi di sviluppo irraggiungibili per qualsiasi nazione occidentale; ma per l'elefante indiano rappresentano una frenata. 

A questo si aggiungono altri segnali d'allarme. Standard&Poor's ha minacciato di declassare i titoli di Stato indiani fino al rango infimo di "junkbond", spazzatura. La solvibilità di New Delhi si starebbe deteriorando sotto il duplice impatto del rallentamento nella crescita e dell'aumento del deficit pubblico. Veerapp Moily, ministro dell'Industria, ha definito questi giudizi "inaccettabili". Lo sdegno ha qualche giustificazione: a sinistra, molti sono convinti che il mondo della finanza globale voglia castigare il governo indiano per le sue azioni contro la speculazione. Per esempio la messa al bando dei futures sulle materie prime agricole. Poi un analogo divieto di speculare sui futures della rupia. Infine una proposta di "tassa retroattiva" sulle multinazionali straniere. Tutte decisioni che fanno dell'India una pioniera del "neo-protezionismo progressista", un trend che l'accomuna al Brasile, e certo non piace ai Signori dei Rating né ad altri rappresentanti del capitalismo occidentale.

Il risultato di queste tensioni lo si vede sul fronte monetario. La rupia negli ultimi 12 mesi ha perso il 20% nei confronti del dollaro. L'indebolimento della valuta coincide con una fuga di capitali speculativi. Gli investitori stranieri hanno ritirato 350 milioni di dollari dalla Borsa di Mumbai in tre mesi, mentre nello stesso periodo dell'anno precedente vi avevano investito 1,15 miliardi di dollari. Forse si sta sgonfiando la "bolla" indiana, dopo un decennio di euforìa: tra il 2001 e il 2011 l'aumento dei prezzi immobiliari a Delhi e Mumbai aveva raggiunto il 284%, di che far impallidire anche il boom cinese, russo, brasiliano. "Ora molte imprese multinazionali cominciano ad avere dei ripensamenti  -  dice il banchiere Deepakh Parekh della Hdfc  -  sulla cosiddetta "opportunità da un miliardo" (cioè l'opportunità di conquistare un miliardo di clienti indiani), perché l'India si sta penalizzando da sola". 

Per ora, segnali di una fuga delle multinazionali non ci sono. Ikea e Coca Cola hanno annunciato nuovi progetti d'investimento che da soli valgono 5 miliardi di dollari. Di recente un'indagine Onu ha individuato nell'India la terza destinazione favorita per gli investimenti esteri diretti, dopo Cina e Stati Uniti. E tuttavia proprio quell'indagine, della United Nations Economic and Social Commission for Asia, rivela un paradosso. L'India si piazza terza quando si rilevano le intenzioni d'investimento. Ma nella realtà, fino all'anno scorso gli investimenti erano ben più consistenti negli altri Bric: 124 miliardi di dollari in Cina, 67 in Brasile, 53 in Russia, contro i 32 miliardi affluiti in India. È come se ci fosse un divario permanente tra il sogno indiano, le opportunità potenziali, e ciò che si può fare davvero. La chiave, ancora una volta, sta nella "dittatura dei Babu", la cappa opprimente di divieti, ostacoli, intralci frapposti dai burocrati a chiunque voglia investire.

Di fronte al rischio che arrivi una crisi vera  -  come quella che nel 1991 portò l'India sull'orlo della bancarotta, a corto di valuta per pagare le importazioni di petrolio  -  il paese rivolge le sue speranze allo stesso uomo che la salvò allora. È Manmohan Singh, primo ministro che ha appena assunto ad interim anche il dicastero delle Finanze. Singh  -  all'origine un economista con dottorato a Oxford, un "tecnico" cooptato al potere da Sonia Gandhi che dirige il partito del Congresso  -  fu l'uomo delle grandi riforme che nel 1991 segnarono l'ingresso dell'India nell'economia globale. Fu lui a volere un primo ridimensionamento della burocrazia, smantellando il"raj", una ragnatela di permessi amministrativi che paralizzava l'attività imprenditoriale. Quel cantiere di riforme è incompiuto. Ora Singh ci riprova, ma con 80 anni sulle spalle, e una fama logorata dalla lunga permanenza al governo. Che sia lui il Superman capace di piegare l'esercito dei Babu, non lo crede certo Anna Hazare, il leader del più vasto movimento contro la corruzione che abbia mai agitato l'India, il "nuovo Gandhi" secondo i suoi seguaci. Per Hazare la prepotenza della pubblica amministrazione indiana non sarà piegata da chi fa parte dell'establishment.



http://www.repubblica.it/esteri/2012/07/31/news/rampini-40067490/

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