mercoledì 5 agosto 2009

L'agenda rossa e la sentenza di Pilato - di Anna Petrozzi.



di Anna Petrozzi - 4 agosto 2009Quattro paginette a conferma di un copione che appariva già scritto. Con poche spiegazioni, di carattere strettamente tecnico, lo scorso 17 febbraio, la Corte di Cassazione presieduta dal dottor Giovanni de Roberto ha respinto il ricorso presentato dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta contro la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Giovanni Arcangioli. L’ufficiale dei carabinieri era stato accusato di furto pluriaggravato nell’ambito delle indagini sull’agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita misteriosamente appena pochi istanti dopo la deflagrazione di Via D’Amelio.Per anni, nonostante la denuncia dei familiari, non si era riusciti ad individuare come e dove potesse essere stata sottratta quella preziosa agenda nella quale il giudice Borsellino annotava in gran riservatezza le sue intuizioni investigative, i suoi pensieri e forse anche quanto avrebbe voluto riferire all’autorità giudiziaria che investigava sulla morte di Falcone come lui stesso ebbe modo di rivelare pubblicamente durante il suo ultimo discorso pubblico alla biblioteca comunale di Palermo. Ma non fece in tempo. Il magistrato era a conoscenza di delicati segreti, forse aveva capito chi e perché avrebbe ricavato vantaggio dalla morte del suo fraterno amico e dalla sua che sapeva imminente. Forse perché aveva parlato con la persona sbagliata che l’aveva tradito, forse perché i suoi nemici erano troppi e dappertutto. Sta di fatto che qualcuno sapeva dell’agenda, sapeva quale rischio potesse comportarne il ritrovamento e si premurò di prevenire il danno.Per questo era fondamentale aprire un dibattimento che accertasse con precisione cosa accadde esattamente in quel maledetto pomeriggio del 19 luglio 1992. Occorreva che Arcangioli, ripreso con molta chiarezza dalle telecamere mentre si allontana con in mano la valigetta del giudice, chiarisse dove stava andando, dicesse quando aveva preso la borsa e venisse messo a confronto pubblico con gli altri testimoni che hanno invece smentito le sue dichiarazioni.La Suprema Corte ha voluto accogliere con pienezza le già sufficientemente assurde ricostruzioni avanzate del Gip che si spingono a mettere in dubbio l’esistenza dell’agenda rossa perché nessuno dei testimoni, arrivati dopo che Arcangioli era entrato in possesso della borsa del giudice, dice di averla vista. Così facendo ha ignorato ancora una volta le testimonianze dirette dei familiari del giudice, la moglie e due dei tre figli, che si sono dichiarati certi che il congiunto l’avesse portata con se.Insomma piuttosto che muoversi per cercare di scoprire la verità su un documento fondamentale per comprendere almeno una parte dei moventi che possono aver condotto all’omicidio brutale di cinque fedeli e coraggiosi servitori dello Stato e dell’uomo simbolo di integrità e credibilità delle Istituzioni si ha la netta sensazione che si vogliano confondere le carte in tavola. Di recente il pentito Angelo Fontana, visionando alcune immagini filmate, ha dichiarato di aver riconosciuto tra le lamiere accartocciate uomini dei servizi che erano abitualmente in contatto con Cosa Nostra. La sue parole così come quelle di Spatuzza hanno aperto nuovi scenari sulla strage di via D’Amelio. Forse ce lo dirà lui cosa ci faceva Arcangioli con la borsa del giudice, magari sa anche chi da quella valigetta ha sottratto l’agenda rossa.


4 agosto 2009


LA QUESTIONE MERIDIONALE

Quella meridionale resta una questione irrisolta sin dal 1861, anno dell’unità d’Italia. Per prima ci provò la monarchia sabauda ad estendere il suo potere istituzionale nel meridione semifeudale. Poi venne la volta di Benito Mussolini e del fascismo, impegnati senza successo a debellare la mafia siciliana attraverso la violenza di Stato perpetrata dal prefetto Mori. Un potere mafioso talmente radicato nell’isola siciliana (ma anche nelle altre regioni) da poter scendere a patti, nella persona di don Calogero Vizzini, persino con gli americani prima e dopo lo sbarco del 10 luglio 1943. Gli anni del dopoguerra hanno sì portato alla riforma agraria voluta da Amintore Fanfani nel 1950 e ad un certo grado di sviluppo, ma la secolare questione di chi debba comandare ancora al Sud resta ancora una ferita aperta dell’Italia repubblicana. Passando alla cronaca dei nostri giorni, hanno destato forte impressione una incredibile serie di coincidenze verificatesi negli ultimi tempi. Da qualche mese il Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, presidente della Regione Sicilia, è in fermento, alla ricerca continua ed esasperata delle prebende promesse dal Cavalier Berlusconi durante la travolgente campagna elettorale del 2008. Le minacce di Lombardo si sono limitate prima alla semplice uscita dalla maggioranza di centro-destra e poi, roba di questi giorni, si sono allargate sino alla dichiarata volontà di fondare un vero e proprio partito del Sud che si contrapponga al coagulo di interessi rappresentato dall’asse Tremonti-Bossi-Berlusconi. Voci di corridoio parlano anche di scontri interni tra i feudatari siciliani del PDL, con il partito Miccichè-Dell’Utri-Prestigiacomo in rotta di collisione con gli ultralealisti Schifani-Alfano. Un fuoco di fila lanciato dai dissidenti allo scopo di ottenere l’allargamento dei fili della borsa dei finanziamenti destinati al meridione (gli ormai famosi fondi FAS). Giorni di rapporti difficili e di cene risolutorie nella residenza romana del monarca di Palazzo Grazioli, hanno portato alla classica conferenza stampa prevacanziera in cui tutti gli attori della commedia si sono presentati col sorriso in volto e le saccocce piene: 4 miliardi di euro subito per la Sicilia, questo il risultato della mediazione berlusconiana; di copertura finanziaria e sblocco della disponibilità del denaro se ne riparlerà a settembre. Intanto, l’aria che si respira è quella di una tregua armata. Armata perché a 50 magistrati siciliani è stata rafforzata la scorta perché a Caltanissetta si è riaperta l’indagine sulle stragi del ’92-’93. Una coincidenza troppo clamorosa per risultare casuale. A quasi 20 anni da quei tragici fatti si ritorna a parlare di ciò che tutti sapevano: apparati deviati dello Stato, servizi segreti corrotti, la trattativa tra mafia e Istituzioni, il papello di Totò Riina, il tentativo del Generale Mori (quello che arrestò Riina ma non Provenzano) di mettere in contatto il referente mafioso Vito Ciancimino e Luciano Violante, al tempo presidente della Commissione Antimafia. È stato proprio Violante a vuotare il sacco di fronte ai magistrati alcuni giorni fa, parlando delle insistenti richieste di Mori per una “trattativa politica” tra mafia e Stato. Incredibile se non ci trovassimo in Italia.

Ma chi sono i veri mafiosi?

3 agosto 2009
di domenico camodeca

http://www.ccsnews.it/dettaglio.asp?id=9278&titolo=LA%20QUESTIONE%20MERIDIONALE