domenica 10 novembre 2019

Ma quale scudo. - Marco Travaglio

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Sullo “scudo penale” per chi gestisce l’Ilva, introdotto da Renzi nel 2015, bocciato in parte dalla Consulta nel 2018 e, dopo varie giravolte, cancellato un mese fa, mentono tutti. Mentono i due Matteo e il Pd, che lo rivogliono dopo averlo abolito. Mentono politici, sindacalisti e opinionisti che, per malafede o ignoranza, ripetono che, senza scudo, i commissari e Mittal rischiano di pagare per i reati dei predecessori: la responsabilità penale è personale e ciascuno risponde di quel che fa lui, non altri. Mente, o non sa quel che dice, chi chiede una norma per interpretare l’art.51 del Codice penale: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. Questa “scriminante”, che nei processi comporta la non punibilità di chi ha violato una norma (di solito per omissione), già si applica al manager che deve attuare il piano di risanamento imposto dalla legge o dal giudice in una fabbrica vetusta e insicura: se la messa in sicurezza richiede tempo, chi deve gestirla può violare provvisoriamente la 231 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e le norme a tutela dell’ambiente e della salute.

Ora si chiede una nuova norma per richiamare l’articolo 51. Ma, semprechè le bonifiche siano in corso (e finora nessuna gestione dell’Ilva ha rispettato i tempi e i modi imposti dai giudici), l’art. 51 già esime chi le fa da condanne penali. Senza bisogno di scudi: che senso avrebbe una nuova legge sull’art. 51 se questo è già in vigore? Qui, trattandosi di reati colposi, non c’è neppure il rischio di rispondere “in continuazione” dei reati dei predecessori: per essere “continuati”, i reati in serie devono essere commessi nel “medesimo disegno criminoso”, cioè dolosi. Ma, si obietta, l’esimente dell’art. 51 scatta durante le indagini o addirittura il processo: intanto finisci indagato, forse imputato e le spese legali te le paghi tu. Vero, ma siccome l’applicabilità dell’esimente al caso concreto deve stabilirla il giudice, un’indagine e a volte un processo sono inevitabili. E non c’è legge che possa impedirli (salvo che sia incostituzionale, ma allora verrebbe bocciata dalla Consulta). Invece si può pensare a uno “scudino” non penale, che copra le spese legali di chi viene indagato o imputato adempiendo il dovere di realizzare gradualmente il piano ambientale; e magari gli dia più tempo, fissando però non solo il termine finale, ma anche un cronoprogramma a tappe intermedie. Così governo e magistratura potranno verificare day by day il rispetto degli obblighi di bonifica. Cosa che, nella vergognosa storia dell’Ilva, non è mai avvenuta.

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Ex Ilva, a Jersey il tesoro di Mittal, l’uomo che deciderà il futuro di Taranto. - Angelo Mincuzzi

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Le immense ricchezze di Lakshmi Mittal, l’uomo che vuole abbandonare l’Ilva di Taranto al suo destino, rimandano a un piccolo paradiso nel Canale della Manica, l’isola di Jersey.

Platino, argento, titano, cromo, osmio, americio. Metalli o elementi del metallo. Chi vuole capire dove sono custodite le immense ricchezze di Lakshmi Mittal, l’uomo che vuole restituire l’Ilva di Taranto, deve partire da questi sei nomi e da un piccolo paradiso nel Canale della Manica, l’isola di Jersey. Qui ci sono i sei trust della famiglia indiana che controlla il più grande gruppo siderurgico del mondo: ArcelorMittal.

Le casseforti dei Mittal e dei Riva.
E qui a Jersey si mescolano anche gli ingredienti di una storia che non ha ancora una fine ma che fa emergere coincidenze dal passato. Perché - per capriccio o ironia della sorte - le casseforti dei Mittal distano solo una manciata di metri dagli otto trust di Jersey attraverso i quali le famiglie di Emilio e Adriano Riva controllavano, guarda caso, la stessa Ilva. O almeno così è stato fino a quando, a causa di un’inchiesta giudiziaria, i Riva sono stati espropriati dallo Stato e lo Stato ha poi ceduto l’Ilva - ancora un caso - alla ArcelorMittal della famiglia indiana.

Mittal e Riva. Riva e Mittal. Su binari diversi ma paralleli, le storie delle due famiglie si intrecciano in precisi punti geografici della vecchia Europa e si sovrappongono negli schemi utilizzati per mettere al sicuro il patrimonio di famiglia. Sullo sfondo, ma neppure tanto, c'è il dramma dell'Ilva e dei suoi 15mila lavoratori, la tragedia di Taranto e di quell'aria colorata di ruggine che penetra nei polmoni. L'incertezza del futuro.

L'uomo da 12,5 miliardi.
Mittal è un uomo seduto su una montagna di soldi. Tanti soldi. Almeno 12,5 miliardi di dollari secondo Bloomberg, 11,9 miliardi secondo Forbes, che lo colloca al 129° posto tra i più ricchi della terra. È lui l'imprenditore che il 6 novembre ha incontrato per tre ore il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e che si appresta a sostenere una battaglia legale contro il governo italiano in caso di mancato accordo sul futuro dell'Ilva.

Sessantanove anni, una moglie, due figli, dal 2008 nel board di Goldman Sachs, Lakshmi Mittal abita in una villa di 5.109 metri quadrati a Kensington Palace, nel centro di Londra, acquistata per 57 milioni di sterline da Bernie Ecclestone. L'abitazione è chiamata “Taj Mittal” per la sfarzosità dei suoi marmi e del suo arredamento.

La lettera di ArcelorMittal ai commissari Ilva: ecco perché ce ne andiamo - Zingaretti apre a un nuovo scudo
Il Sole 24 Ore ha ricostruito i passaggi attraverso i quali la famiglia del miliardario indiano controlla il 37,39% di ArcelorMittal, di cui Lakshmi Mittal è presidente e chief executive officer e il figlio Aditya è responsabile finanziario. La chiave per accedere alle stanze segrete del patrimonio di Lakshmi Mittal si trova a 2.200 chilometri a Nord di Taranto. Ma per comprenderlo meglio, bisogna riavvolgere il nastro della storia e tornare a un'estate di nove anni fa. A Jersey.

I sei trust di St. Helier.
Lakshmi Mittal e sua moglie Usha danno un ultimo sguardo ai fogli di carta prima di firmare. Quello che hanno davanti è un documento di 25 pagine zeppo di clausole e di cavilli, scritto con il linguaggio burocratico che hanno tutti i contratti. Si intitola “The platinum settlement” ed è l'atto di nascita di un trust: il più importante dei sei che quel giorno blindano a doppia mandata il controllo di ArcelorMittal, il gruppo siderurgico che sette anni dopo si aggiudicherà l'Ilva di Taranto.

È venerdì 18 giugno 2010 e come tutti i venerdì, a St. Helier, ordinata e noiosa cittadina dell'isola di Jersey, nel Canale della Manica, i pub sono pieni di avventori per un boccale di birra prima del week end. Il pomeriggio è fresco e il vento ha concesso una tregua nell'isola di proprietà della Corona britannica. I colori sono l'azzurro del mare e il verde acceso dei prati su cui pascolano vitelli dalla carne pregiata. Di impianti siderurgici neppure l'ombra.

Si brinda nei pub del centro. E si festeggia anche negli uffici della Hsbc Trustee. La società è stata nominata amministratrice fiduciaria dei trust dell'uomo più ricco della Gran Bretagna, quell'indiano arrivato dal Rajasthan che con l'acciaio ha ribaltato la storia dell'Impero britannico colonizzando Londra e l'Europa.

Lakshmi Mittal e sua moglie, insieme ai due figli Aditya e Vanisha, sono i beneficiari di quei trust i cui nomi testimoniano un attaccamento all'elemento che ha fatto la loro fortuna: si chiamano Platinum, Silver, Titanium, Americium, Osmium e Chromium Trust. Nessun dubbio che appartengano alla più importante dinastia dell'acciaio.

I poteri di Mr. Mittal.
Jersey è il regno dei trust, un istituto giuridico nato nel mondo anglosassone all'epoca delle Crociate, quando tra il 1300 e il 1400 i Cavalieri che partivano dalla Gran Bretagna per la Terra Santa affidavano i loro beni a persone di fiducia che li amministravano durante la loro assenza: i trustee. Gli averi venivano poi restituiti al legittimo proprietario al suo ritorno, oppure alla sua famiglia in caso di morte.

I sei trust erigono un muro di riservatezza intorno agli averi della famiglia Mittal. In teoria il trust crea una separazione tra i beni e i suoi proprietari, che non ne possono più disporre avendoli affidati a un trustee: in questo caso Hsbc. Ma la legge di Jersey è una legge particolare. E tra le clausole dell'atto di nascita dei sei trust ce n'è una che dice che ogni decisione importante deve essere assunta con il consenso scritto di Lakshmi Mittal, che è contemporaneamente settlor (cioé il disponente), il protector e il beneficiario dei trust.

IN SEI FIDUCIARIE LE CHIAVI DELL'IMPERO ARCELORMITTAL
Le società che permettono alla famiglia di Lakshmi Mittal di controllare la società siderurgica



Sulla rocca di Gibilterra.
Il possesso e i dividendi delle azioni ArcelorMittal finiscono ai beneficiari dei sei trust. Ma non direttamente. Prima i soldi devono percorrere migliaia di chilometri in mezza Europa, in gran parte all'interno di paradisi fiscali.

I trust controllano il 100% di una società che è a 1.939 chilometri di distanza da Jersey. È la Grandel Limited, domiciliata nel paradiso fiscale di Gibilterra. Il Platinum e il Silver Trust posseggono rispettivamente il 70% e il 30% delle azioni di tipo A della Grandel. Si tratta di titoli che posseggono il diritto di voto ma non il diritto a percepire un dividendo. Gli altri quattro trust si dividono il 100% delle azioni di tipo B, che percepiscono una remunerazione ma non hanno la possibilità di votare.

Con 35mila abitanti e 60mila società registrate, a Gibilterra le imprese pagano solo il 10% di imposte sugli utili e se non svolgono alcuna attività nel territorio britannico d'oltremare possono esserne addirittura esentate. Qui si concentrano i dividendi che la famiglia Mittal riceve dalla sua partecipazione azionaria nel gruppo ArcelorMittal e nelle altre società che controlla. Dividendi che vengono poi incassati dai trust di Jersey.

L'approdo nel Granducato.
Per arrivare ad ArcelorMittal la strada è però ancora lunga. Bisogna percorrere altri 2.314 chilometri per varcare i confini del Lussemburgo, dove i Mittal posseggono il 100% della Value Holdings, società che nel 2018 ha registrato un utile netto di 346 milioni di dollari, dopo aver ripianato perdite precedenti per 915 milioni di dollari.

Value Holdings è l'entità che controlla le due società che hanno direttamente in pancia le azioni di ArcelorMittal: la Nuavam Investments (che possiede il 6,24% di ArcelorMittal) e la Lumen Investments (che controlla invece il 31,15% del gruppo siderurgico). I dividendi che queste due società hanno pagato a Value Holdings sono ammontati nel 2018 a 37 milioni di dollari. È questo il guadagno che la famiglia Mittal ha ricavato dal possesso delle azioni di ArcelorMittal. E qui il passato torna a sovrapporsi al presente. Nel Granducato c’erano (e ci sono ancora) anche i Riva, che controllavano Ilva attraverso le holding Utia e Stahlbeteiligungen. Lo schema, insomma, si ripete.

Dai trust di Jersey alla ArcelorMittal, ci sono dunque tre livelli intermedi che si interpongono tra la proprietà e la holding quotata del gruppo siderurgico. E scendendo ancora più in basso c'è un altro livello prima di arrivare all'ex Ilva: la Am Investco Italy.

Gli interessi in Italia.
Ma la più grande acciaieria europea non è l'unico interesse della famiglia Mittal in Italia, dove opera tra l'altro anche la ArcelorMittal Italy Holding. A Massalengo, in provincia di Lodi, e a Podenzano (Piacenza) ci sono gli stabilimenti della Aperam Stainless Services & Solution, 180 dipendenti, 262 milioni di fatturato nel 2018 e un utile di 1,7 milioni. La società fa capo alla lussemburghese Aperam SA, controllata dalla Value Holdings II, a sua volta posseduta dalla Grandel II Limited,di Gibilterra. Dove abbiamo sentito questi nomi? Lo schema è esattamente lo specchio di quello di ArcelorMittal, ma in questo caso raggruppa le società siderurgiche della famiglia indiana che non fanno parte di ArcelorMittal. Lakshmi Mittal, dunque, lascerà pure la ex Ilva ma non abbandonerà l'Italia. E i dividendi, mercato permettendo, continueranno ad affluire verso i verdi prati dell'isola di Jersey.