domenica 22 agosto 2010

Bellissima!







Il David, Renzi, Bondi e il regio decreto




Polemica tra il sindaco di Firenze e il ministro della Cultura sul capolavoro...

Ma è la vicenda Mills il vero cruccio del Cavaliere.



Il premier: indispensabile approvare apposite
norme a riguardo
La sentenza prevista per marzo
UGO MAGRI
ROMA
L’unica cosa che davvero preme a Berlusconi è nascosta tra le pieghe del documento finale, sotto la voce «Giustizia». Consiste nel passaggio (soppesato parola per parola nel vertice a Palazzo Grazioli) sulla ragionevole durata dei processi. Sarà «indispensabile», sostiene il premier, «approvare apposite norme» a riguardo. Un testo c’è già, ed è quello licenziato a Palazzo Madama prima dell’estate. Se passerà così com’è pure alla Camera, il Cavaliere riuscirà a salvarsi dalla condanna che incombe sul suo capo a Milano (vicenda Mills).

Bisogna però che la legge proceda al galoppo, perché l’avvocato Ghedini prevede la sentenza in arrivo tra marzo e aprile. Ma soprattutto, dal punto di vista del premier, è necessario che nessuno modifichi la norma transitoria, cucita su misura per far saltare i suoi processi. Se Fini ci sta, e pone la sua firma sotto il processo breve, la crisi può considerarsi virtualmente conclusa. Se invece non ci sta, «alle urne perché anche se la Lega va forte io vinco uguale...».

Questa è la sostanza della giornata. Tutto il resto è stato detto (in conferenza stampa del premier) e scritto (nel documento di 10 pagine) solo in quanto un vertice era convocato, mica si poteva più disdire, il punto politico andava tenuto, e così è stato, secondo copione. L’unico vero «fuor d’opera» è la risposta che Berlusconi ha dato all’Ansa, sulle elezioni da tenersi a dicembre nel caso in cui la crisi dovesse precipitare. Passi per la tesi, enunciata all’inizio del documento, secondo cui l’ultima parola spetta al popolo e non al Capo dello Stato.

Ma perlomeno sulla data delle elezioni il Cavaliere poteva trattenersi: rientra infatti nelle prerogative del Quirinale, netta è l’invasione di campo. I collaboratori provano a giustificarlo, «in fondo Silvio che altro avrebbe potuto rispondere alla domanda?». Silenzio dal Colle, un po’ per non gettare altra benzina sul fuoco, ma soprattutto in quanto le posizioni di Napolitano sono ben note, chiare in merito all’eventuale scioglimento delle Camere, dunque «non cambiano», osserva un consigliere presidenziale, «poiché trovano fondamento nella Costituzione».

Resterà deluso chi immagina chissà quali discorsi dietro le quinte del vertice. A quanto risulta, i partecipanti hanno passato ore sul testo, chi aggiungendo una riga, chi tagliandone un’altra. Le correzioni di Tremonti sono state minime, altri ministri si sono esercitati con più passione. Il risultato finale non si discosta molto dalla bozza scritta alla vigilia da Bonaiuti, che il Cavaliere si è portato in tasca dalla Sardegna, irritatissimo per aver dovuto interrompere la sua breve vacanza. Al telefono con un vecchio amico, ieri mattina, letteralmente smoccolava.

Ovvio che fra le quattro mura si sia ragionato di numeri, e che ciascuno abbia detto la sua. Conclusione collettiva: al momento della fiducia, 10-12 deputati potranno tranquillamente aggiungersi ai 308 di cui Berlusconi già dispone sulla carta. Si tratterebbe, pare, di centristi a spasso, di cani sciolti, anche di finiani in crisi. Ma senza particolari «campagne acquisti» per non esasperare lo scontro col presidente della Camera. Contro il quale Berlusconi poteva lanciarsi alla carica, stuzzicato dai giornalisti. Invece dalla sua bocca è uscita solo qualche frase smozzicata, ardua da interpretare. E’ un silenzio che parla da sé.



Cari economisti scendete a terra.




Continua lo scambio di accuse su chi è responsabile della peggior recessione mondiale dai tempi della Grande depressione: i finanzieri che sono stati incapaci di gestire il rischio o i regolatori che non sono riusciti a fermarli. Ma una parte non indifferente della colpa spetta agli economisti di professione. Hanno rassicurato i regolatori fornendo modelli di mercati che si auto-regolavano, si auto-correggevano ed erano efficienti. Regnava sovrana l'ipotesi del mercato efficiente. Oggi l'economia è andata a rotoli insieme, si può sperare, al paradigma economico che prevaleva negli anni prima della crisi.

Per i non-economisti, è difficile capire quanto fossero strani i modelli macroeconomici dominanti. Molti di essi presupponevano che la domanda doveva essere pari all'offerta, vale a dire che non poteva esserci disoccupazione (in questo momento, tanta gente si sta godendo una dose di svago in più, e la sua infelicità è una questione che riguarda la psichiatria, non l'economia). Molti si basavano su "agenti rappresentativi", su individui presunti tutti identici, vale a dire che non potevano esserci mercati finanziari significativi (chi avrebbe prestato denaro a chi?).

Né c'era posto per l'informazione asimmetrica, la chiave di volta dell'economia moderna, ovviamente le asimmetrie si sarebbero prodotte solo se gli individui fossero stati affetti da schizofrenia acuta, un assunto incompatibile con un altro, fondamentale: erano totalmente razionali.

I cattivi modelli portano a cattive politiche, per esempio le banche centrali si sono occupate soprattutto di piccole inefficienze economiche dovute all'inflazione, senza badare a quelle ben maggiori dovute alle disfunzioni dei mercati finanziari e alle bolle dei prezzi degli asset. D'altronde i modelli dicevano che i mercati erano sempre efficienti. Fatto degno di nota, i modelli macroeconomici standard non comprendevano neppure un'analisi adeguata delle banche. Perciò nel suo famoso mea culpa, Alan Greenspan, l'ex governatore della Federal Reserve, s'è detto sorpreso dal fatto che le banche non avessero mostrato più competenza nel gestire i rischi. La vera sorpresa è stata la sua: bastava un'occhiata veloce agli incentivi perversi offerti alle banche e ai loro direttori per prevederne il comportamento miope mentre correvano rischi eccessivi.

Ai modelli standard andrebbero assegnati voti in base alla loro capacità predittiva, e in particolare nelle circostanze che contano. È meno importante disporre di previsioni più accurate in tempi normali (sapere se la crescita economica sarà del 2,4 o del 2,5%) che di una buona misura del rischio di forte recessione. Su questo punto i modelli sono falliti miseramente e la loro credibilità è stata completamente minata dalle decisioni prese dai policy-maker che li hanno usati. Questi ultimi non hanno visto arrivare la crisi, dopo che era scoppiata la bolla hanno detto che i suoi effetti erano contenuti, hanno pensato che le conseguenze sarebbero state transitorie e meno severe di come sono state in realtà.

Per fortuna, mentre quei modelli fallaci andavano per la maggiore, numerosi ricercatori si occupavano di sviluppare alternative. La teoria economica aveva già dimostrato che molte delle conclusioni centrali dei modelli standard non erano robuste, nel senso che minimi cambiamenti negli assunti facevano variare di molto le conclusioni. Asimmetrie anche piccole dell'informazione, o imperfezioni nei mercati dei rischi, indicavano che i mercati non erano affatto efficienti. E venivano contraddetti risultati famosi, come la mano invisibile di Adam Smith: quella mano era invisibile perché non c'era. Oggi sono rimasti in poche le persone pronte a sostenere che i manager delle banche, nel perseguire il proprio interesse, hanno fatto il bene dell'economia.

La politica monetaria influisce sull'economia attraverso la disponibilità del credito e i termini con i quali viene messo a disposizione di piccole e medie imprese. Per capirlo occorre analizzare le banche e le loro interazioni con il settore creditizio ombra. La divergenza fra il tasso determinato dal Tesoro e quello praticato può variare notevolmente. Con rare eccezioni, le banche centrali hanno prestato scarsa attenzione al rischio sistemico e a quelli generati dalle interconnessioni del credito. Anni prima della crisi, alcuni ricercatori hanno studiato proprio questi problemi, compresa la possibilità di bancarotte a cascata che nella crisi avrebbero avuto un ruolo così determinante. È un esempio dell'importanza di creare modelli accurati delle interazioni complesse tra gli agenti economici (famiglie, società, banche), interazioni impossibili da studiare nei modelli in cui gli agenti siano tutti uguali. È finito sotto tiro persino l'assunto sacrosanto della razionalità: esistono deviazioni sistemiche dalla razionalità e conseguenze sul comportamento economico che vanno esplorate.

È arduo cambiare paradigma perché ci sono stati troppi investimenti nei modelli sbagliati. Com'è accaduto con i tentativi tolemaici di conservare una visione geocentrica dell'universo, verranno fatti sforzi eroici per complicare e affinare quello attuale. Forse ne risulteranno modelli migliori e forse serviranno per politiche migliori, ma è molto probabile che falliranno di nuovo. Ci vuole niente di meno di un nuovo paradigma e credo che sia a portata di mano. I mattoni intellettuali ci sono, e l'Institute for new economic thinking è l'ambito nel quale un gruppo variegato di studiosi sta cercando di costruirlo. In palio, ovviamente, c'è ben più della credibilità della professione, o dei policy-maker che ne usano le idee, ma la stabilità e la prosperità delle nostre economie.

(Traduzione di Sylvie Coyaud)

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