Non funzionerà. Bisognava fare come in Olanda. È tutto un magna magna. Non funziona. Con quello che ci hanno mangiato. Non ha funzionato. Sono tutti corrotti. Servirebbe ben altro. Le locuzioni che avete letto sono una selezione ristretta dei pareri comuni sul Mose, il sistema di barriere mobili per trattenere fuori dalla laguna l’acqua alta che rovina Venezia ed eccita i turisti.
Come un magnete, dal 2003 l’opera attrae i dubbi degli scettici. Giustamente. Dopo 25 anni dai primi abbozzi del progetto, dopo 15 anni dalla posa della prima pietra, dopo avere spento e spanto con generosità babilonese 5 miliardi pubblici, Venezia non ha ancora le dighe mobili e l’altra settimana è finita ancora una volta sott’acqua, 156 centimetri.
Dopo il passato, ecco i fatti di oggi.
Primo. Il Mose non funziona ancora perché potrà funzionare solamente quando sarà finito.
Secondo. Ormai è quasi del tutto completo.
Terzo. Finora è costato la cifra paperonesca di 5,15 miliardi.
Quarto. La stagione delle tangenti e dei satrapi è finita e da 4 anni l’opera è gestita con oculatezza e sobrietà dall’Autorità anticorruzione con la Prefettura di Roma e il Provveditorato alle opere pubbliche.
Quinto. Alla fine dei lavori sarà costato 5,49 miliardi.
Sesto. Le barriere mobili saranno completate a settimane, ma per far funzionare il Mose bisognerà realizzare la parte impiantistica.
Settimo. Potrà essere sperimentato tra un anno con le acque alte dell’autunno 2019.
Ottavo. Si è visto che alcune parti si ammalorano prima del previsto e la manutenzione sarà assai cara, forse un centinaio di milioni l’anno.
L’acqua alta
Venezia sprofonda da quand’è nata perché i terreni sabbiosi con il tempo si compattano e si assestano. Il fenomeno si chiama subsidenza. La subsidenza è diventata velocissima nel Novecento quando il polo industriale di Marghera ha cominciato a estrarre dalle falde acquifere del sottosuolo fiumi di acque produttive. Le foto di un secolo fa mostrano una Venezia orgogliosa e alta sulle acque, oggi è una città seduta al pelo dell’acqua.
Venezia sprofonda da quand’è nata perché i terreni sabbiosi con il tempo si compattano e si assestano. Il fenomeno si chiama subsidenza. La subsidenza è diventata velocissima nel Novecento quando il polo industriale di Marghera ha cominciato a estrarre dalle falde acquifere del sottosuolo fiumi di acque produttive. Le foto di un secolo fa mostrano una Venezia orgogliosa e alta sulle acque, oggi è una città seduta al pelo dell’acqua.
Al fenomeno della subsidenza si sono sommati sbancamenti e scavi in laguna e soprattutto si sommerà l’alzarsi del livello dei mari, che sarà reso più drammatico e veloce quando il riscaldamento del clima scioglierà i ghiacci polari.
La laguna di Venezia è un bassofondo di acqua salmastra diviso dal mare da un cordone di isole e unito al mare da tre vastissimi canali naturali, le bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia. Ogni sei ore la marea cresce e ogni sei ore scende. Quando luna e sole sommano il loro effetto astronomico con l’apporto delle piogge e con il vento di scirocco che gonfia l’Adriatico contro la laguna, a Venezia l’acqua sale fino ad allagare piazza San Marco (70 centimetri, il punto più basso della città).
Il 4 novembre 1966 (chi scrive aveva 5 anni e ne ha un ricordo vago in bianco-e-nero) ci fu la più devastante delle “tempeste perfette” in cui si concentrarono tutti gli effetti disastrosi, il livello dell’acqua arrivò a 194 centimetri, con danni incalcolabili.
Il 16 aprile 1973 venne varata la Legge Speciale che dichiarò Venezia «di preminente interesse nazionale».
Dighe invisibili, scandalo visibile
Nel mondo ci sono molti esempi di paratoie che difendono i bassopiani costieri, per esempio in Olanda o alla foce del Tamigi in Inghilterra. Ma invece di grandi opere di ingegneria semplice e ingombrante, per Venezia negli anni ’70 si decise: le barriere contro l’acqua alta dovranno avere due caratteristiche irrinunciabili.
Nel mondo ci sono molti esempi di paratoie che difendono i bassopiani costieri, per esempio in Olanda o alla foce del Tamigi in Inghilterra. Ma invece di grandi opere di ingegneria semplice e ingombrante, per Venezia negli anni ’70 si decise: le barriere contro l’acqua alta dovranno avere due caratteristiche irrinunciabili.
Primo, dovranno essere invisibili, non come quei colossi olandesi che rovinano il paesaggio e ingombrano ettari su ettari.
Secondo, non solamente invisibili ma anche “reversibili”. Cioè se un domani si inventasse una tecnologia oggi sconosciuta, le barriere dovranno poter essere dimenticate come se non fossero mai esistite.
L’unica soluzione per conseguire questi due princìpi irrinunciabili era costruire barriere che quando fossero a riposo sparissero sott’acqua senza dare alcun ingombro. A scomparsa: questo il principio secondo cui dal primo progetto di massima del 1981 sono state progettate le dighe mobili.
Quando l’acqua salirà oltre il livello stabilito (è stato deciso di chiudere le barriere con una marea di 110 centimetri, ma con questa scelta sarà allagata parte di piazza San Marco) le barriere saliranno dal fondo delle tre bocche di porto e divideranno la laguna dall’Adriatico.
Fu creato un potentissimo concessionario unico per lo Stato, il Consorzio Venezia Nuova, formato da imprese, il quale dopo dissipazioni colossali di denaro il 14 maggio 2003, alla presenza del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, avviò la costruzione delle dighe a scomparsa.
Costo iniziale previsto, 3.200 miliardi di lire, ovvero 1,6 miliardi di euro. Di sperpero in sperpero, oggi si sa che l’opera costerà 5,5 miliardi di euro, tre volte e mezzo di più.
Gli euro scorrevano a fiumi con generosità: partiti politici, imprese, funzionari dello Stato, associazioni di ogni colore e tonalità, comprese bocciofile e cori di battellieri, ricevettero segnali di tanta generosità. Il gioco si interruppe con lo scattare di manette. Inchieste, retate, scatoloni di documenti, un’infinità di intercettazioni.
Spento il forno bruciasoldi, bisognava finire il lavoro. Nel 2014 la spesa finale di 1,38 miliardi fu messa sotto la gestione severa dei commissari scelti dall’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Giuseppe Fiengo (Avvocatura di Stato) e Francesco Ossola (Politecnico di Torino), i quali controllano con minuzia ogni atto insieme con il provveditore alle opere pubbliche Roberto Linetti, il committente che èroga i finanziamenti (già stanziati fino all’ultimo euro).
Il Mose oggi.
Ai primi di novembre l’acqua alta è tornata. Più che l’altezza superba, stavolta ha colpito la continuità: nelle 6 ore di calo l’acqua non calava e rimaneva alta; per dimensioni la quarta acqua alta della storia di Venezia. Se ci fossero state le paratoie del Mose, la barriera sarebbe rimasta in funzione quasi 22 ore di fila.
Ai primi di novembre l’acqua alta è tornata. Più che l’altezza superba, stavolta ha colpito la continuità: nelle 6 ore di calo l’acqua non calava e rimaneva alta; per dimensioni la quarta acqua alta della storia di Venezia. Se ci fossero state le paratoie del Mose, la barriera sarebbe rimasta in funzione quasi 22 ore di fila.
Sono state posate 67 delle 78 paratoie mobili, ne vengono aggiunte un paio la settimana. Finora sono stati chiusi lavori per 5,14 miliardi. Lavori importanti, come il mini-Mose che difende il paesino di Malamocco (funziona). Vanno completati lavori per gli ultimi 300 milioni come l’allestimento degli edifici di comando, gli impianti elettrici, i sistemi di monitoraggio, le rapide per acqua e aria che movimentano le paratoie.
A mano a mano che l’opera viene realizzata se ne scoprono i difetti.
Per esempio le cerniere delle dighe mobili, garantite per 50 anni, in realtà hanno già punti di ruggine e se non si farà una manutenzione accurata potranno durare meno di 20 anni. I problemi finora scoperti portano a un sovraccosto di una cinquantina di milioni, l’1% di un’opera da 5 miliardi.
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