mercoledì 26 settembre 2018

L'ultima eclissi - James Rollins



Un estratto:

San Francisco. Durante un'eclissi totale di sole, un violentissimo terremoto scuote la città, che viene ridotta a un cumulo di macerie. E purtroppo non si tratta di un disastro isolato: nello stesso momento, infatti, l'intera costa occidentale del continente americano, dall'Alaska alla Terra del Fuoco, è colpita da una serie di calamità naturali... Okinawa. Karen Grace, un'antropologa di fama mondiale, non crede ai suoi occhi: al largo del Giappone sono emerse due enormi piramidi di metallo, coperte d'iscrizioni in una lingua sconosciuta. E, all'interno di una di esse, Karen trova un manufatto a forma di stella, realizzato con un materiale impossibile da ottenere anche con le tecniche più avanzate e che possiede proprietà sconcertanti... Oceano Pacifico. È un'emergenza nazionale quella che costringe Jack Kirkland, ex ufficiale della US Navy, a rientrare in servizio: l'Air Force One è precipitato in mare, trascinando verso una morte orribile il presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, quando giunge sul luogo dell'incidente, Jack si trova di fronte a ....

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Ponte Genova, il ministero: «Autostrade rinviava i lavori per far rincarare i pedaggi». - Maurizio Caprino

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Avrebbero risparmiato persino sulla manutenzione “spicciola” del Ponte Morandi, per poter poi fare tanta costosa manutenzione straordinaria. Che, contrariamente a quella ordinaria, si può far molto pesare per rincarare i pedaggi. Bisogna arrivare a pagina 84 (sulle 88 complessive di testo principale) della relazione della commissione ispettiva ministeriale sul crollo del Ponte Morandi per leggere quella che forse è l’accusa più grave mossa finora dal Governo ad Autostrade per l’Italia (Aspi) dopo la tragedia del 14 agosto.

Un’accusa alla quale la società controllata dai Benetton non pare aver replicato esplicitamente nel comunicato seguito alla pubblicazione della relazione sul sito del ministero, ma che andrebbe comunque dimostrata fino in fondo dalla Procura di Genova per essere utilizzata ai fini del processo ai responsabili del disastro. Andrebbe infatti accertato che i vertici di Aspi hanno consapevolmente scelto questa politica proprio per ottenere quella «massimizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali» di cui parla la relazione ministeriale.

Ma di sicuro su quest’accusa farà leva il Governo per andare avanti con la procedura di «caducazione» della concessione di Aspi, avviata già il 16 agosto. Un iter che, come quel giorno chiarì il premier Giuseppe Conte, non attenderà l’esito del processo. Ma di sicuro durerà molto e forse addirittura di più, considerato che poi probabilmente Aspi si opporrà alle decisioni governative, con ricorsi al Tar e/o al Tribunale civile.

Meno manutenzione, più corrosione.
Per argomentare la loro accusa, i commissari ministeriali parlano di «irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria». Come la mancata pulizia degli scarichi dell’acqua piovana, «segnalata con frequenza nelle schede di ispezione trimestrale».E già nel 1981 il progettista del viadotto, Riccardo Morandi, aveva rilevato infiltrazioni d’acqua nei «cassoni» - cioè all’interno degli impalcati (parti orizzontali di cemento sui cui si trova l’asfalto) che sono sostenuti dai piloni - che avevano innescato processi di corrosione. 

Un particolare importante, nella ricostruzione che fanno i commissari: secondo loro, le cause più probabili all’origine del crollo sarebbero proprio cedimenti negli impalcati cassonati e non negli stralli (le grandi “bacchette” di calcestruzzo che scendono oblique dall’estremità superiore delle «antenne», i tre piloni più alti del viadotto per completare il sostegno dei cassoni, che poggiano su «cavalletti» posti in corrispondenza di questi piloni), su cui invece pare si concentrino soprattutto i periti nominati dalla Procura di Genova.

La minimizzazione degli interventi è denunciata dalla relazione ministeriale anche per le condizioni di usura degli impalcati tampone (le parti orizzontali di cemento che stanno sospese, con gli estremi appoggiati sugli impalcati a cassone). Durante le normali ispezioni periodiche, era emerso che alcuni cavi metallici di armatura delle travi (le parti longitudinali che compongono la parte bassa degli impalcati tampone) erano rotti. Secondo i commissari, si sarebbe potuto ipotizzare con «alta probabilità» che la rottura dei cavi riguardasse tutti e 10 gli impalcati tampone da cui è costituito il viadotto.

Eppure «Aspi aveva effettuato interventi di rinforzo solo su tre di questi», mentre i rimanenti - quelli della parte ovest verso Savona non toccata dal crollo, dove non ci sono le pile alte con gli stralli ma i periti della Procura in effetti hanno riscontrato quasi subito un «degrado rilevante e diffuso» - non era stato ancora «previsto alcun intervento, per ragioni ignote a questa Commissione».

Sottovalutazioni e ritardi.
In generale, i commissari si soffermano molto su problemi riscontrati nelle ispezioni periodiche su varie parti del viadotto. Soprattutto per evidenziare la sottovalutazione nel classificarli (con voti) e il ritardo con cui sono stati sanati (quando lo sono stati), anche quando la gravità riconosciuta dagli stessi ispettori avrebbe comportato interventi in somma urgenza (secondo il manuale sulla manutenzione programmata predisposto proprio da Aspi).

Proprio i ritardi avrebbero contribuito a degradare il ponte sempre più. La relazione ministeriale sembra suggerire che l’intento del gestore fosse quello di arrivare alla fine a massimizzare i costi della manutenzione straordinaria da far riconoscere ai fini dei rincari del pedaggio, ma invece nel caso del Ponte Morandi l’effetto dei ritardi, unito alla sottovalutazione dei rischi potenziali, è stato il crollo.

Guerra di cifre sui costi.
In altre parole, non si sarebbe fatto in tempo a spendere i soldi che ormai erano divenuti necessari per mantenere aperto il viadotto. La relazione ministeriale vuole dimostrarlo anche evidenziando che dal 2005 a oggi (cioè dopo il primo quinquennio di gestione Aspi) per gli interventi non strutturali sul Ponte Morandi si sono spesi 8,7 milioni, per quelli strutturali appena 440mila euro (circa 23mila l’anno). Prendendo in considerazione la vita del viadotto dal 1982 in poi, appena il 2% dei costi per interventi strutturali è stato sostenuto da Aspi: il 98% era stato a carico della precedente gestione, quella statale dell’Iri.

Aspi nel suo comunicato di ieri obietta che non avrebbe dovuto spendere nulla di più: il grosso dei costi per interventi strutturali sarebbe stato dovuto alla necessità di correggere i difetti di costruzione del Ponte Morandi (su cui non a caso l’amministratore delegato Giovanni Castellucci ha battuto fin dalle sue prime dichiarazioni dopo il crollo), venuti fuori già durante la gestione Iri.

Ma i commissari scrivono che la spesa di Aspi si è mantenuta bassa «nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado». Quindi anche per il gestore privato ci sarebbe stato da spendere.

L’autodifesa del ministero.
La minimizzazione, secondo i commissari, non riguardava solo le decisioni di effettuare lavori, ma anche il modo in cui il progetto di rinforzo («retrofitting») degli stralli del viadotto che stava per essere attuato era stato presentato al ministero delle Infrastrutture. L’operazione era stata definita solo come un mero ripristino conservativo dell’opera.

Ciò avrebbe tratto in inganno gli organi ministeriali dalla cui approvazione era passato il progetto, inducendoli a non far intervenire il Consiglio superiore dei lavori pubblici.

Ciò avrebbe comportato un’approvazione “meno accurata”, a causa della quale ora tra gli attuali indagati per il crollo ci sono anche membri del Comitato tecnico amministrativo dell’ufficio territoriale del ministero, il Provveditorato alle opere pubbliche.

Dunque, un’accusa pesante come la minimizzazione di interventi e problemi per massimizzare i profitti serve anche al ministero per allontanare da sé sospetti che, nelle prime settimane dell’inchiesta penale sulla vicenda, si erano fatte sempre più imbarazzanti.

Il modo di operare di Autostrade.
In ogni caso, il tono complessivo della relazione sembra suggerire che la noncuranza facesse parte del modo di Aspi di gestire la propria rete, pari a metà delle autostrade italiane: dal fatto che gli utenti sarebbero stati utilizzati come inconsapevoli cavie alla mancata preoccupazione per le incertezze dei metodi adottati per valutare il degrado del viadotto (aspetto già emerso almeno riguardo agli stralli fin dalle prime battute dell’inchiesta della Procura), fino alle risposte dei dirigenti di Aspi sentiti dai commissari.

D’altra parte, la relazione non li cita, ma gli episodi importanti emersi nella gestione della rete di Aspi che potrebbero confermare il sospetto di noncuranza si sono moltiplicati in questo decennio e sono di certo noti ai commissari. Dal degrado accertato delle barriere che avrebbe concorso a far precipitare un bus dal viadotto Acqualonga dell’A16 presso Avellino il 28 luglio 2013 (altri 40 morti, sentenza di primo grado attesa per il prossimo dicembre con imputati anche dirigenti di Aspi tra cui l’amministratore delegato, Giovanni Castellucci) alla mancata manutenzione degli impianti antincendio del delicatissimo tratto urbano bolognese dell’A14 (vi morì bruciata una ragazza a giugno 2013). Dai sequestri del 2014 sull’Autosole delle vecchie barriere del tratto appenninico dell’A1 presso Firenze (lasciate sui viadotti per anni in attesa dei lavori di ampliamento del tratto a sud della nuova Variante di valico) e a fine 2013 del cavalcavia dello svincolo di Ferentino (costruito male da un’impresa in odor di camorra che si era aggiudicata vari lavori di Aspi) al crollo di un portale segnaletico (di quella stessa impresa) a Santa Maria Capua Vetere nel 2011. Fino al crollo di un cavalcavia dell’A14 a Camerano (Ancona) il 9 marzo 2017 con due morti, nell’ambito dei lavori per la terza corsia che avrebbero richiesto massima attenzione perché si svolgevano a traffico aperto.

Briatore e l’attrazione fatale per il mare «dei ricchi» dal Billionaire al mega yacht. - Chiara Beghelli

Flavio Briatore, a destra, e Ferdinando Tarquini, comandante del Force Blu durante l’udienza preliminare al palazzo di Giustizia di Genova (foto Ansa)
Flavio Briatore, a destra, e Ferdinando Tarquini, comandante del Force Blu durante l’udienza preliminare al palazzo di Giustizia di Genova (foto Ansa)

"Uomo libero, tu amerai sempre il mare! Il mare è il tuo specchio; contempli la tua anima nello svolgersi infinito della sua onda, e il tuo spirito non è un abisso meno amaro»: anche se in passato ha affermato di non essere un appassionato lettore, Flavio Briatore potrebbe far suoi i versi di Charles Baudelaire. Il mare è un elemento ricorrente, un mantra, nella sua vita: in un’intervista di qualche anno fa ricordava quasi con nostalgia quando da ragazzo partiva dalla natale Verzuolo (Cuneo) con gli amici per andare in Sardegna, dove si accampava sulle spiagge e da lì ammirava i mega yacht «dei ricchi».
In riva allo stesso mare, quello di Porto Cervo, nel 1998 ha inaugurato il primo dei suoi locali “Billionaire”, nome emblematico come un desiderio, di un geometra figlio di maestri di scuola elementare di Verzuolo, che nel 2007 è arrivato sulla copertina del numero speciale di Forbes dedicato, appunto, ai “billionaries”, i miliardari. Sulle rive dell’oceano, in Kenya, un altro luogo simbolo, la villa che ospitò tanti illustri amici, da Silvio Berlusconi a Beppe Grillo, poi trasformata in resort cinque stelle.
E il mare è anche lo scenario dell’ultima vicenda che lo coinvolge, legata allo yacht Force Blue, 63 metri di lunghezza, palestra e 12 suites, e che ha le sue stesse iniziali: una vicenda che prosegue dal 2010, attraverso due gradi di giudizio (l’ultimo lo ha condannato a 18 mesi, pena ridotta rispetto ai 23 del primo grado) e che oggi si arricchisce di un nuovo capitolo.
«Non ho mai pensato né dovuto evadere le tasse. Le società che evadono il fisco sono quelle che vanno male», affermò Briatore al Tribunale di Genova, dove il processo si è tenuto, tre anni fa. «Il mio lavoro è avere l’intuito di fondare società che anticipano i desideri dei clienti. Nell’ambito dello yachting volevo fare barche per persone ricche. Le barche a sette stelle so come farle».

La magistratura farà il suo corso, ma è vero: Briatore, proprio perché li ha osservati a lungo, sa come esaudire i desideri delle «persone ricche». Il Billionaire ne è l’esempio: nei club da Dubai a Monte Carlo scorrono fiumi di denaro e champagne. Ad agosto un americano ha pagato un conto da 150mila euro a Porto Cervo, anche se Briatore non era lì ad accoglierlo. Nel 2013, infatti, ha ceduto la quota di maggioranza del marchio al fondo Bay Capital, con base a Singapore, con l’obiettivo di espanderlo in area Far e Middle East.
Con effettiva visione sul futuro, ha declinato l’anima del club anche in un marchio di abbigliamento superlusso, di cui nel 2016 ha venduto il 51% a Philipp Plein, giovane stilista e fenomeno della moda “massimalista” degli utlimi anni. Le collezioni sono pensate per uomini «dominanti, virili e impenitenti», con cappotti di cincillà da 20mila euro e mocassini (elemento distintivo dell’icona Briatore) da 750.
Sul mare di Marina di Pietrasanta, in Versilia, con l’amica d’infanzia Daniela Santanché e tramite la società Mammamia Srl, gestisce il Twiga Beach Club, stabilimento cinque stelle con tariffe a tre zeri. Aveva concesso anche l’uso del marchio Twiga a un gruppo di imprenditori salentini per aprire un club anche sulla costa di Otranto, ma i lavori sono stati bloccati con l’accusa di abusivismo, scatenandone le ire contro la burocrazia italiana.
Ancor prima di questi mari, un altro, molto più lontano, lo accolse: era un giovane imprenditore di se stesso nella Milano da bere degli anni Ottanta, venne accusato di truffa nell’inchiesta “Bisca Connection”, riguardante un giro di gioco d’azzardo, venne condannato. Se ne andò ai Caraibi.
Uno dei capitoli più curiosi della storia imprenditoriale di Briatore è la sua conduzione di “The Apprentice”, il reality show andato in onda nel 2012, dove le sue frasi rivolte ai concorrenti che si contendevano un posto da suo assistente sono diventate celebri: «Voi fallite prima di iniziare», «Tra tutti i fenomeni che pensate di essere io vi distruggo subito», e poi la formula per l’eliminazione, «sei fuori». Donald Trump, che per certi versi ricorda l’imprenditore piemontese, prima di entrare alla Casa Bianca lo diceva in inglese, «You’re out!», nella versione originale del programma made in Usa.
Il Force Blue, intanto, che appartiene alla società Autumn Sailing Limited, causa processo in corso si limita a poter solcare solo il Mediterraneo, non potendo dar piena forza ai suoi motori capaci di navigare sugli oceani. La tariffa invernale, secondo il sito Yacht Charter Fleet, parte da 235mila euro a settimana. Spese escluse.

Tangenti al Fisco per riavere lo yacht: Briatore indagato, arrestato commercialista e un ex capo delle Entrate. - Marco Grasso, Matteo Indice


Andrea Parolini e il patròn del Billionaire sono accusati di aver ammorbidito il funzionario pubblico.

Il blitz è scattato alle prime ore di questa mattina: la Guardia di Finanza ha arrestato Andrea Parolini, commercialista di Flavio Briatore, e l’ex direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Genova, Walter Pardini. Entrambi sono accusati a vario titolo di corruzione e frode processuale, mentre per corruzione è indagato a piede libero lo stesso Briatore.  


Briatore e il suo commercialista sono accusati di aver ammorbidito il funzionario pubblico, per tentare di alleggerire la posizione del patròn del Billionaire, inseguito dal Fisco per la maxi-evasione fiscale legata al suo yacht, il Force Blue. Gli uomini del Primo Gruppo della Guardia di Finanza di Genova, coordinati dal pm Walter Cotugno, e diretti dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco, si sono presentati anche nella sede dell’Agenzia delle Entrate di Genova, dove hanno notificato la sospensione dagli incarichi a due funzionarie.  

Si tratta di due sottoposte di Pardini che si prestarono a falsificare un parere fiscale della medesima Agenzia delle Entrate che avrebbe di fatto sconfessato le accuse penali nei confronti di Briatore. 

FATE SCHIFO - Marco Travaglio

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Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che “utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera”.
Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: “pur a conoscenza di un accentuato degrado” delle strutture portanti, la concessionaria “non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino” né “adottato alcuna misura precauzionale a tutela” degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli.
Autostrade-Atlantia-Benetton “non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto” e non ha “eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo”. Peggio: “minimizzò e celò” allo Stato “gli elementi conoscitivi” che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare “compiutezza sostanziale ai suoi compiti”.
Non aveva neppure “eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto”: gl’ispettori l’hanno chiesta e, “contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della Società alla struttura di vigilanza”, hanno scoperto che “tale documento non esiste”.

Le misure preventive di Autostrade “erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema”, malgrado la concessionaria fosse “in grado di cogliere qualitativamente l’evoluzione temporale dei problemi di ammaloramento… Tale evoluzione, ormai da anni, restituiva un quadro preoccupante, e incognito quantitativamente, per la sicurezza strutturale rispetto al crollo”. Eppure si perseverò nella “irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi, perfino di manutenzione ordinaria”.
Così il ponte è crollato, non tanto per “la rottura di uno o più stralli”, quanto per “quella di uno dei restanti elementi strutturali (travi di bordo degli impalcati tampone) la cui sopravvivenza era condizionata dall’avanzato stato di corrosione negli elementi strutturali”.
E la “mancanza di cura” nella posa dei sostegni dei carroponti potrebbe “aver diminuito la sezione resistente dell’armatura delle travi di bordo e aver contribuito al crollo”. Per 20 anni, i Benetton hanno incassato pedaggi e risparmiato in sicurezza: “Nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado, i costi degli interventi strutturali negli ultimi 24 anni, sono trascurabili”. Occhio ai dati: “il 98% dell’importo (24.610.500 euro) è stato speso prima del 1999”, quando le Autostrade furono donate ai Benetton, e dopo “solo il 2%”.
Quando c’era lo Stato, l’investimento medio annuo fu di “1,3 milioni di euro nel 1982-1999”; con i Benetton si passò a “23 mila euro circa”.
Ora provate a confrontare queste parole devastanti con ciò che avete letto in questi 40 giorni sulla grande stampa. E cioè, nell’ordine, che: per giudicare l’inadempimento di Autostrade (i Benetton era meglio non nominarli neppure) bisogna attendere le sentenze definitive della magistratura (una decina d’anni, se va bene); 
revocare subito la concessione sarebbe “giustizialismo”, “populismo”, “moralismo”, “giustizia sommaria”, “punizione cieca”, “voglia di ghigliottina” e di “Piazzale Loreto”, “sciacallaggio”, “speculazione politica”, “ansia vendicativa”, “barbarie umana e giuridica”, “cultura anti-impresa” che dice “no a tutto”, “pericolosa deriva autoritaria”, “ossessione del capro espiatorio”, “esplosione emotiva”, “punizione cieca”, “barbarie”, ”pressappochismo”, “improvvisazione”, “avventurismo”, “collettivismo”, “socialismo reale”, “oscurantismo” (Repubblica, Corriere, Stampa, il Giornale); 
l’eventuale revoca senz’attendere i tempi della giustizia costerebbe allo Stato 20 miliardi di penali; 
è sempre meglio il privato del pubblico, dunque le privatizzazioni non si toccano; 
il viadotto non sarebbe crollato se il M5S non avesse bloccato la Gronda (bloccata da chi governava, cioè da sinistra e destra, non dal M5S che non ha mai governato; senza contare che la Gronda avrebbe lasciato in funzione il ponte Morandi); e altre cazzate.
Repubblica: “In attesa che la magistratura faccia luce”, guai e fare di Atlantia “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo”.
Corriere: revocare la concessione sarebbe “una scorciatoia”, “un errore” e “un indizio di debolezza”. 
La Stampa: il crollo del ponte è “questione complessa” e nessuno deve gettare la croce addosso ai poveri Benetton (peraltro mai nominati), “sacrificati” come “capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi”, come nei “paesi barbari”.
Parole ridicole anche per chi guardava le immagini del ponte crollato con occhi profani: se lo Stato affida un bene pubblico a un privato e questo lo lascia crollare dopo averci lucrato utili favolosi, l’inadempimento è nei fatti, la revoca è un atto dovuto e il concessore non deve nulla al concessionario. O, anche se gli dovesse qualcosa, sarebbero spiccioli (facilmente ammortizzabili con i pedaggi) rispetto al danno che deriverebbe dalla scelta immorale di lasciare quel bene in mani insanguinate.
Ora però c’è pure la terrificante relazione ministeriale, che va oltre le peggiori aspettative. 

In un Paese serio, o almeno decente, i vertici di Autostrade-Atlantia-Benetton, anziché balbettare scuse o chiedere danni in attesa di farne altri, si dimetterebbero in blocco rinunciando alla concessione, per pudore.
E i giornaloni si scuserebbero con i familiari dei 43 morti e uscirebbero su carta rossa. 
Per la vergogna.


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