sabato 13 ottobre 2018

F-35, l’intera flotta a terra. Storia dell’aereo più costoso del mondo. - Gianni Dragoni

(ANSA)

È la parola proibita. Nessun politico o militare italiano parla volentieri dell'F-35, il cacciabombardiere americano di ultima generazione che rappresenta il più costoso programma aeronautico della storia, e la cui flotta è stata lasciata a terra per ispezioni dei condotti del carburante dopo che un velivolo è precipitato due settimane fa nella Carolina del Sud.
L’aereo è prodotto da un consorzio guidato da Lockheed Martin in alleanza con l'industria britannica Bae Systems, che alla fine degli anni Novanta del secolo scorso si aggiudicarono la gara del Pentagono, battendo la Boeing. Anche l'Italia ha aderito a questo programma, fin dal 1998, sia partecipando al finanziamento della fase di sviluppo, per avere un ritorno industriale e lavoro per le proprie industrie, soprattutto il gruppo Finmeccanica-Leonardo, sia acquistando questi aerei per sostituire velivoli più vecchi, Tornado, Amx e Av-8 B.
Il sì di vari governi: Prodi, D'Alema, Berlusconi.
In origine chiamato Jsf (Joint strike fighter, il caccia interforze degli Stati Uniti), l'F-35 è diventato l'emblema di velivolo da combattimento molto costoso e con problemi di sviluppo e di efficacia, forse troppo costoso. Lo stesso Pentagono ha rivolto critiche severe in alcune fasi della produzione, si è parlato del rischio di esplosione dell'aereo se colpito da un fulmine e di difetti ad altri congegni tecnologici, come il casco del pilota. A livello politico l'Italia ha aderito al programma nel 1998, quando al governo c'era Romano Prodi e il ministro della Difesa era Beniamino Andreatta. Ci sono stati accordi firmati dai governi e approvazioni del programma nelle commissioni parlamentari.
A favore del programma F-35 si sono pronunciati, in vari tempi, il governo Prodi, poi il primo D'Alema insediatosi nell'ottobre 1998, poi il secondo governo Berlusconi nel 2002, di nuovo Prodi nel 2007, quindi il quarto governo Berlusconi nel 2009.
Quando Andreatta disse: «L'F-35 costa metà dell'Eurofighter».
«L'ultimo caccia americano costa la metà dell'Eurofighter ed è migliore sotto il profilo tecnologico, perché può muoversi con un sistema di collegamenti via satellite, senza scoprirsi», disse il ministro della Difesa Andreatta il 9 luglio 1998, all'assemblea dell'Aiad. Andreatta si schierò a favore del Jsf-F-35 davanti ai rappresentanti delle industrie nazionali della difesa, più favorevoli all'Eurofighter, il caccia europeo prodotto dalle industrie di quattro nazioni (Gran Bretagna, Germania, Spagna e Italia) che, nelle previsioni, avrebbe dovuto dare più lavoro alle fabbriche italiane rispetto a un aereo americano. Gli americani promettevano costi unitari medi per velivolo più bassi in base all'assunto di arrivare a produrre e a vendere tra i 2.500 e i 3.000 aerei, non solo in casa loro ma in tutto il mondo. L'Efa in origine partiva da una stima di ordini domestici, cioè dei quattro paesi costruttori, di 620 aerei. È chiaro che più sono i velivoli prodotti e più si possono realizzare economia di scala spalmando sull'intera produzione i costi “non ricorrenti” di progettazione, sviluppo e ingegneria.
Per saperne di più: Il caccia F-35 stupisce tutti al salone di Parigi-Le Bourget
Il via nel dicembre 1998.
Il primo via libera in Parlamento c'è stato nel dicembre 1998, poche settimane dopo il giuramento di Massimo D'Alema come presidente del Consiglio. Le commissioni Difesa della Camera (9 dicembre) e del Senato (15 dicembre) hanno dato parere favorevole all'adesione dell'Italia come “partner informato” alla prima fase, detta “Cdp”, con un contributo di 10 milioni di dollari. Un piccolo impegno finanziario, ma già un importante impegno politico, come hanno dimostrato i fatti successivi. Con il secondo governo Berlusconi, nel giugno 2002, confermato il parere positivo delle due commissioni Difesa, l'Italia ha aderito alla fase successiva, detta “Sdd”, impegnandosi con un miliardo e 28 milioni di dollari (circa un miliardo e 190 milioni di euro dell'epoca).
L'impegno iniziale per 131 aerei.
Il 7 febbraio 2007, sotto il governo Prodi, l'Italia ha firmato il Memorandum d'intesa (MoU) relativo all'ulteriore fase di sviluppo del velivolo, detta “Pfsd”, con un impegno finanziario di 904 milioni di dollari (circa 695 milioni in euro). Quel memorandum conteneva un impegno indicativo di acquisto di 131 F-35. Quell'”impegno” originario, di carattere politico ma non ancora un vero contratto, prevedeva una stima di spesa intorno ai 15 miliardi di euro spalmata in molti anni per 131 supercaccia. Una stima, ma la cifra è ballerina anche perché programmi industriali così lunghi e complessi dal punto di vista tecnologico possono provocare facilmente un aumento dei costi (mai si è verificata una diminuzione rispetto ai preventivi, come mostra anche il caso dell'Eurofighter).
Per la fabbrica di Cameri 800 milioni.
L'8 aprile 2009 c'è stato un nuovo passaggio politico. Sotto il quarto governo Berlusconi, le commissioni Difesa di Camera e Senato hanno espresso parere favorevole sul programma del governo per proseguire la partecipazione al programma F-35. Il programma prevedeva anche la costruzione in Italia, all'aeroporto militare di Cameri (Novara), di una fabbrica per la produzione di ali e per l'assemblaggio finale e verifica del caccia americano, non solo per i velivoli destinati all'Italia ma anche in Europa e altri paesi. La fabbrica è costata circa 800 milioni di euro, soldi spesi direttamente dallo Stato. La fabbrica è affidata in gestione all'ex Alenia Aeronautica, ora divisione velivoli di Leonardo-Finmeccanica.
Il taglio a 90 aerei fatto dal governo Monti.
La vita dell'F-35 è proseguita tra polemiche crescenti per i costi, finché durante il governo Monti l'Italia ha tagliato l'impegno d'acquisto da 131 a 90 velivoli. La decisione fu presa nel febbraio 2012, il ministro della Difesa era Giampaolo Di Paola, ex capo di Stato maggiore della Difesa. Secondo alcune stime con quel taglio l'Italia avrebbe risparmiato 4 miliardi di euro sul totale (rispetto a 15-16 miliardi di partenza) e la spesa avrebbe dovuto ridursi a circa 13 miliardi. Ma non c'è mai stato un calcolo ufficiale della spesa. Nella scorsa legislatura il 24 settembre 2014 la Camera ha approvato una mozione presentata dal deputato Pd Gian Piero Scanu che prevedeva il “dimezzamento” della spesa iniziale prevista per gli F-35. Ma questo impegno (le mozioni peraltro non sono vincolanti per il governo) non è mai stato tradotto in cifre, cioè in riduzione del numero di velivoli né in una definizione precisa della spesa complessiva da sostenere. L'allora ministra della Difesa, Roberta Pinotti del Pd, è stata contestata perché il successivo Def non ha tenuto conto dell'impegno espresso da quella mozione. In un'intervista Pinotti ha detto, senza sbilanciarsi a favore del taglio dei velivoli: «Gli F3-5 sono stati una scelta dell'Italia che risale addirittura al '98 con Andreatta».
La ministra Trenta: «Non compreremo altri F-35».
Arriviamo al governo attuale. Il 6 luglio scorso la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, ha detto a Omnibus, su La7: «Sicuramente non compreremo nessun altro F-35. Stiamo analizzando se mantenere o tagliare i contratti in essere. Intorno ai caccia si crea un indotto tecnologico, di ricerca e occupazionale». Per questo, sostiene la ministra «potremmo scoprire che tagliare costa di più che mantenere». Pertanto «bisogna analizzare bene le implicazioni». La ministra di area M5S non ha chiarito però se ci sarà il taglio e di quanti aerei sarà. Su Facebook Trenta quel giorno ha aggiunto: «Siamo sempre stati critici del programma, nessuno lo nasconde, proprio per questo non compreremo nuovi caccia. Stiamo portando avanti un'attenta valutazione che tenga esclusivamente conto dell'interesse nazionale».
In aprile (con Gentiloni) l'Italia ha comprato altri otto F-35. 
Intanto gli acquisti dell'F-35 fatti dallo Stato italiano sono proseguiti, a lotti, in silenzio e senza piena trasparenza. L'Osservatorio Milex sulle spese militari ha rivelato, senza essere smentito, che il 25 aprile (c'era ancora il governo Gentiloni) è stato firmato il contratto per un nuova tranche di otto aerei destinati all'Italia. Questo porta l'impegno totale già assunti dall'Italia a 26 cacciabombardieri, di cui dieci già consegnati (nove all'aeronautica e uno alla Marina).
L'ipotesi di un taglio di 15 velivoli.
Secondo indiscrezioni raccolte dal Sole 24 Ore, l'ulteriore taglio ipotizzato in queste ultime settimane, ma sono solo voci, potrebbe toccare 15 aerei a decollo verticale per l'Aeronautica, sui 75 totali previsti per quest'arma, mentre non verrebbero toccati i 15 aerei destinati alla Marina militare. Lockheed ha detto che ci sono più di 320 F-35 operativi in tutto il mondo in 15 basi, in prevalenza alle forze militari degli Stati Uniti.
Quanto ha speso l'Italia?
Non è mai stato fatto un calcolo ufficiale di quanto abbia speso l'Italia per gli F-35, tra investimento per lo sviluppo e acquisti. Si può stimare che siano stati spesi almeno 4 miliardi di euro. Qualche anno fa Lockheed aveva diffuso stime di un impatto sull'Italia con la creazione di almeno 10mila posti di lavoro. Una stima rivelatasi ampiamente esagerata.
Fonte: ilsole24ore del 11/10/2018

Vitalizi d’oro, la Puglia spende 15 milioni di euro per l’esercito dei 212. In 16 raddoppiano.



BARI – “Deve essere molto chiaro il meccanismo: o le Regioni aboliscono i vitalizi o noi non gli trasferiamo più la quota parte dei soldi pubblici con cui pagano i vitalizi”. L’annuncio  è del vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio. Per la Puglia potrebbe significare avere dallo Stato, 15 milioni e 400mila euro in meno all’anno.
Perché tanto costano i vitalizi dei consiglieri regionali, comprensivi degli assegni di reversibilità alle vedove e i figli non lavoratori che non hanno superato il ventiseiesimo anno di età.
Un esercito di 212 beneficiari che è destinato a crescere visto che una ventina di ex consiglieri o di consiglieri in carica attendono fuori la porta il momento in cui, maturato il diritto, possono battere cassa. Ma c’è chi il vitalizio lo percepisce da una vita. Se consideriamo che la prima legislatura della Regione Puglia è terminata nel 1975, si potrà comprendere quanto sia datato il vitalizio di chi lo percepisce dal 1980. E ne sono diversi, tra gli ex eletti e le vedove che, per una legislatura fatta dal proprio consorte, beneficiano del 65% del vitalizio, da 35 anni. Ne è l’esempio – perché il più datato – la moglie del più volte ministro e primo vicepresidente della giunta regionale pugliese, Michele di Giesi: le spettano 2900 euro dal 1983.
Ma l’elenco è lungo: vedove e figli sono 55, poi ci sono i 157 eletti con vitalizi che vanno da un minimo di 2200 euro – per meno di 5 anni di lavoro effettivo – ad un massimo di 10mila per chi ha superato le 3 legislature.
Ma naturalmente nel mare magnum degli ex ci sono casi particolari: come Patrizio Mazza, eletto per 3 anni, ha versato 66mila euro di tasca propria per agganciare i cinque anni minimi di contributi e assicurarsi un vitalizio da 4mila euro. Stesso ragionamento per Maria Campese assessore della giunta Vendola che però non fu eletta dal popolo ma chiamata in qualità di esterna. Tanto è bastato per aggiudicarsi un bel vitalizio. La ex sindaca di Taranto, Rosanna di Bello incassa mensilmente 3862 euro. Così anche Enrico Balducci che dovrà sostenere il suo stesso partito, la Lega di cui è coordinatore provinciale, quando dovrà sforbiciarsi la pensione d’oro da 8mila euro mensili.
E se loro vi sembrano privilegiati, cosa saranno allora i fortunati che, avendo ricoperto la carica di consigliere regionale e di parlamentare, cumulano il doppio vitalizio? E’ il caso di 16 ex di via Capruzzi: Ida Dentamaro, Salvatore Mazzaracchio, Pietro Mita, il presidente di Regione di Campi Nicola Quarta, il vicepresidente Domenico Romano, Nicola Fusillo, Cosimo Damiano Di Giuseppe, Graziano Ciocia, Franco Borgia, Giuseppe Semeraro, Angelo Antonio Rossi, Francesco Piccolo, Pino Sgobio, Vincenzo Sorice e i più recenti Alba Sasso e Nichi Vendola. Arrivano a superare i 10mila euro al mese.
Senza contare, naturalmente, chi ha nella vita una professione che prevede una pensione tradizionale. Beh, anche quella entrerà nel cumulo totale. E chi è stato europarlamentare? Con un anno di mandato, 63 di età e senza versare contributi, portano a casa il vitalizio e un’indennità transitoria.
Fonte: TeleramaNews  del 12/10/2018

Stephen Hawking, ecco la sua ultima pubblicazione sui buchi neri. - Marta Russo

(Foto: Dave J Hogan/Getty Images)
(Foto: Dave J Hogan/Getty Images)

Il suo ultimo lavoro Black Hole Entropy e Soft Hair è stato completato nei giorni precedenti alla morte di Hawking, avvenuta lo scorso marzo. E ora i fisici delle università di Cambridge e Harvard lo hanno pubblicato online.


A distanza di mesi dalla morte di Stephen Hawking, avvenuta precisamente il 14 marzo scorso, l’astrofisico più famoso dei nostri tempi continua a far parlare di sé. Infatti, i fisici delle università di Cambridge e Harvard che hanno collaborato con lui a uno dei temi centrali della vita e della carriera dell’astrofisico, hanno appena diffuso online sul server pre-print ArXiv l’ultimo documento scientifico del fisico britannico, con il nome Black Hole Entropy and Soft Hair.
Lo studio, completato da Hawking nei giorni precedenti la morte, affronta quello che i fisici teorici chiamano black hole information paradox, traducibile in italiano come il paradosso dell’informazione del buco nero. Questo concetto risulta dalla combinazione della meccanica quantistica e la relatività generale: in parole semplici implica che l’informazione fisica potrebbe sparire in un buco nero. Argomento, tuttavia, molto controverso in quanto infrange le regole comunemente accettate della fisica quantistica, secondo cui la perdita assoluta di informazioni non potrebbe essere possibile.
Le origini del paradosso possono essere ricondotte ad Albert Einstein, che nella sua teoria della relatività generale, aveva fatto previsioni importanti anche sui buchi neri, in particolare sul fatto che un buco nero potesse essere completamente definito solo da tre caratteristiche: massa, carica e rotazione. Quasi 60 anni dopo, Hawking ne aggiunse un’altra: la temperatura. E poiché gli oggetti con alte temperature perdono calore nello Spazio, anche il destino di un buco nero è quello di evaporare e scomparire.
Fonte:  wired del 12/10/2018