giovedì 5 marzo 2020

Coronavirus, la sanità italiana definanzata da dieci anni. Tagliati 43mila dipendenti e i posti letto sotto la media Ue. Ecco tutte le criticità. - Fiorina Capozzi

Coronavirus, la sanità italiana definanzata da dieci anni. Tagliati 43mila dipendenti e i posti letto sotto la media Ue. Ecco tutte le criticità

Le risorse sono aumentate, ma meno dell'inflazione. Tutto è iniziato con il governo di Mario Monti. La stagione della spending review ha portato in dote una sforbiciata alla spesa sanitaria da 6,8 miliardi fino al 2015. Da allora le cose sono andate sempre peggio: sono scattati i piani di rientro per le Regioni con uno squilibrio nella sanità e i governatori hanno tagliato ancora. Intanto sono aumentati i ticket e i letti sono diminuiti a 3,2 per 1000 abitanti contro una media europea di 5. Le liste d'attesa sono rimaste lunghe e i livelli minimi di assistenza sono una chimera soprattutto al Sud.
Non bastava la riforma del Pronto Soccorso. L’emergenza Coronavirus dà la batosta finale al Sistema Sanitario Nazionale. L’allarme partito dalle Regioni più colpite dall’epidemia ha aperto un dibattito nazionale sullo stato di salute della sanità italiana. A partire dalla scarsa disponibilità di personale e di posti letto per far fronte ai casi che richiedono cure ospedaliere. Ma la politica da un decennio sta tagliando risorse alla sanità, penalizzando non solo gli ospedali pubblici, ma anche i privati convenzionati. In dieci anni sono sono stati sottratti al Ssn 37 miliardi.
Secondo uno studio del centro di ricerche indipendente Gimbe, fra il 2010 e il 2019 c’è stato un progressivo definanziamento della sanità pubblica. O meglio: c’è stato un aumento di risorse per 8,8 miliardi, ma l’incremento è stato inferiore al tasso d’inflazione producendo di fatto una decurtazione del budget. Inoltre, la politica ha favorito la nascita di assicurazioni e fondi sanitari per compensare il ridimensionamento della spesa in sanità andando a vantaggio solo di alcune categorie di persone e mettendo a rischio l’universalità del servizio.
I tagli di Monti – Tutto è iniziato con il governo di Mario Monti. La stagione della spending review ha portato in dote una sforbiciata alla spesa sanitaria da 6,8 miliardi fino al 2015. Nei desiderata dell’allora ministro Renato Balduzzi, il taglio della spesa avrebbe dovuto essere accompagnato da una migliore gestione delle risorse. Ma così non è stato: secondo quanto riferì Quotidiano Sanità, in soli due anni “la mazzata, batosta o che dir si voglia, c’è stata: meno posti letto: circa 7.000 che portano così i tagli totali di posti letto dal 2000 ad oggi (10 dicembre 2012, ndr) a quota 72.000”.
I piani di rientro regionali – Da allora le cose sono andate sempre peggio. In nome del risanamento dei bilanci locali e delle aziende sanitarie sono scattati i piani di rientro per le Regioni con uno squilibrio nella sanità superiore al 5 per cento del finanziamento complessivo. Così i governatori hanno tagliato ancora. Nel Lazio, ad esempio, Nicola Zingaretti ha cassato 3.600 posti letto e chiuso diversi ospedali. In compenso il bilancio regionale della sanità è tornato in positivo, ma il prezzo da pagare per la collettività è stato alto in termini di costi e servizi. Al posto degli ospedali, sono proliferate le più “economiche” Case della salute, strutture ambulatoriali sul territorio nate per offrire alcune cure primarie. Tuttavia, un focus sullo stato di salute della sanità pubblicato dall’Ufficio parlamentare di bilancio il 2 dicembre 2019 ha evidenziato tutti i limiti del nuovo modello messo in campo dai governatori: “L’insufficiente potenziamento dei servizi territoriali pone un’incognita sul successo dell’operazione, con segnali di razionamento delle prestazioni rispetto ai bisogni, che emergono in particolare nei servizi di emergenza”.
Risorse per il personale scese di 2 miliardi in otto anni – Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, le risorse per il personale sono scese di due miliardi fra il 2010 e il 2018. Ma per Gimbe le cose starebbero anche peggio: nello stesso periodo dei 37 miliardi di risparmi, almeno il 50% dei tagli è stato “scaricato” sul personale dipendente e convenzionato riducendo di fatto i servizi per i cittadini. “A questo andamento ha corrisposto un ridimensionamento del numero di lavoratori, compresi medici e infermieri, in particolare nelle Regioni in piano di rientro, e un peggioramento delle condizioni di lavoro”, scrivono gli esperti dell’ufficio parlamentare che raccontano come siano andati persi 42.800 dipendenti a tempo indeterminato.
Numero di posti letto sceso sotto la media europea – Il numero di posti letto per 1.000 abitanti negli ospedali è sceso di gran lunga sotto la media europea. Secondo il centro studi dell’ufficio parlamentare, l’indicatore era al 3,9 nel 2007 e al 3,2 nel 2017 contro una media europea diminuita da 5,7 a 5. La flessione maggiore è stata registrata nelle Regioni sottoposte per prime a piano di rientro. Inoltre, secondo dati Eurostat, il numero di posti letto in strutture residenziali per cure a lungo termine era pari a 4,2 per 1.000 residenti in Italia nel 2017, contro 9,8 in Francia, 11,5 in Germania e 8,2 nel Regno Unito, mentre la percentuale di soggetti che dichiarano di aver utilizzato servizi di assistenza domiciliare, riferita al 2014, risulta essere del 3,5 per cento in Italia, contro il 4 per cento della media europea.
Meno disavanzo, più ticket – Il disavanzo sanitario è stato ridotto, ma il ticket è progressivamente aumentato. In dieci anni, il gettito complessivo dei cosiddetti ticket, escluse le strutture accreditate dove il dato non viene rilevato, è passato da 1,8 miliardi nel 2008 a 3 miliardi nel 2018. “La riduzione dei disavanzi riflette anche l’aumento dei livelli delle compartecipazioni richieste ai cittadini e delle aliquote di imposta”, spiega uno studio dell’Upb sullo stato di salute della sanità dello scorso 2 dicembre 2019. Non solo: l’introduzione del superticket, cioè della quota fissa di 10 euro per ricetta sull’assistenza specialistica ambulatoriale introdotta nel 2011 “ha probabilmente rappresentato un rilevante fattore di riduzione della domanda di prestazioni pubbliche, spingendo verso la rinuncia alle cure o verso il privato”, come puntualizza lo studio sullo stato di salute della sanità italiana.
Raddoppiata la quota dei poveri che rinunciano a cure – Il costo della sanità sulle famiglie è invece aumentato ed è raddoppiata la quota dei più poveri che rinunciano alle cure. “L’aumento delle compartecipazioni alla spesa, in connessione con il peggioramento delle condizioni economiche delle famiglie in seguito alla crisi, ha contribuito a provocare un forte incremento della quota di cittadini che hanno rinunciato a visite mediche per il costo eccessivo, passata, secondo dati Eurostat (indagine EU-SILC), dal 3,9 per cento nel 2008 al 6,5 nel 2015” prosegue l’indagine. Ad avere la peggio, le fasce più deboli della popolazione: “Se si guarda al 20 per cento di popolazione più povera, si osserva addirittura un aumento della frequenza di cittadini che hanno rinunciato a visite mediche per motivi economici dal 7,1 per cento nel 2004 al 14,5 nel 2015”, evidenzia l’analisi. “Inoltre negli ultimi anni, mentre la spesa pubblica pro capite in termini reali passava da 2.266 dollari a parità di potere d’acquisto del 2012 a 2.235 nel 2018, quella privata out of pocket (compartecipazioni alla spesa e pagamenti diretti di servizi e prestazioni) e per assicurazioni volontarie aumentava in media da 710 dollari pro-capite a 776 (dal 2,1 al 2,3 per cento del pil)”, come sottolinea studio.
Livelli minimi di assistenza? Una chimera – Intanto le liste d’attesa sono rimaste lunghe e i livelli minimi di assistenza (lea) sono una chimera. Soprattutto nel Sud. “Le Regioni che, secondo il nuovo sistema di garanzia, non assicurano i Lea sono tutte quelle del Mezzogiorno, il Lazio, e anche la Provincia di Bolzano, la Valle d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia. Quest’ultima, in realtà, anche se in termini di punteggio complessivo supera la Regione Marche, considerata adempiente, presenta una valutazione insufficiente sulla prevenzione”, prosegue l’indagine dell’ufficio parlamentare.
L’aumento del costo delle prestazioni specialistiche ha allargato il mercato per fondi e assicurazioni, sostenuti dalla politica. Ad aggravare la situazione di discriminazione economica fra i cittadini nell’accesso alle cure mediche è poi arrivata anche alla decisione del governo Renzi di agevolare fiscalmente il welfare aziendale sottraendo indirettamente risorse al sistema sanitario nazionale .
Per il futuro ulteriore lieve riduzione dei fondi in rapporto al pil – E le prospettive non sono affatto rosee. “Per il futuro, le previsioni di spesa sanitaria a legislazione vigente contenute nella Nadef 2019 indicano una ulteriore lieve riduzione in rapporto al Pil, dal 6,6% del 2019 al 6,5% nel 2022”, precisa l’ufficio studi parlamentare. “Questa strategia politico-finanziaria documenta inequivocabilmente che per nessun Governo nell’ultimo decennio la sanità ha mai rappresentato una priorità politica – si legge nel report di Gimbe -. Infatti, quando l’economia è stagnante la sanità si trasforma inesorabilmente in un “bancomat”, mentre in caso di crescita economica i benefici per il SSN non sono proporzionali, rendendo di fatto impossibile il rilancio del finanziamento pubblico”. Una situazione insostenibile che emerge con forza nei casi di emergenza come quello del Coronavirus.

Istruzioni per l’uso - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 5 Marzo

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Ora che l’Italia chiude momentaneamente per coronavirus, si avverte più che mai l’esigenza che ciascuno faccia il suo mestiere. Il governo quello di prendere decisioni adeguate alla situazione che varia di ora in ora e di comunicarle con serietà e sobrietà come ha fatto ieri Conte, usando come bussola la Costituzione, che tutela la salute e non le lobby di Confindustria. L’opposizione quello di controllare l’opera del governo senza sconti, ma anche senza pregiudizi. Le Regioni e i Comuni quello di muoversi in sintonia col governo, evitando bizzarrie, alzate d’ingegno e fughe solitarie per far titolo sui social o sui giornali. Gli esperti quello di fornire supporti scientifici senza perdersi in beghe e rivalità fra colleghi, che più d’ogni altra cosa contribuiscono a seminare il panico. Noi giornalisti quello di informare esclusivamente con notizie documentate, evitando gli opposti estremismi dell’allarmismo e del tuttovabenmadamalamarchesa. Tutti i cittadini quello di discutere finché vogliono gli ordini delle autorità, ma intanto di obbedire alla lettera senza tante pippe, perché l’esperienza di questi giorni insegna che basta la disobbedienza di uno solo per fare guai mostruosi.

I politici sfusi e i peones che non hanno ministeri né funzioni né partiti da rappresentare, ma la cui parola purtroppo ha un peso inversamente proporzionale all’intelligenza, parlino solo se interrogati, contino fino a 100 prima di rispondere e lo facciano quando hanno qualcosa da dire, cioè tendenzialmente mai.

I virologi da divano, che sanno sempre cosa non si sarebbe dovuto fare (ma un po’ meno cosa si dovrebbe fare), si mettano in autoquarantena: di virus ce ne basta uno alla volta.

Gli autoflagellanti fan degli altri Paesi che fanno pochi controlli, nascondono il virus sotto il tappeto, spacciano i morti da coronavirus per “normali” casi di influenza sperando di passare ’a nuttata e salvare la bottega a spese nostre, ricordino che certe furbate durano poco. Il problema non è quanti tamponi, ma quanti malati: se uno finisce in terapia intensiva non è perché gli han fatto il tampone, ma perché sta malissimo. O vogliamo combattere la febbre abolendo i termometri?

I sindaci alla Sala, ansiosi di “riaprire Milano” e “tornare alla normalità entro due mesi”, la smettano di farsi belli come se i sacrifici imposti dalle autorità fossero fregole malate di menti sadiche e la piantino di alimentare aspettative che nessuno sa quando potrà soddisfare. Le città riapriranno e torneranno alla normalità quando gli esperti saranno certi che il contagio è sotto controllo.

Meglio una recessione pilotata con pochi morti oggi che una catastrofe incontrollata con una strage domani. Lo dimostra la Cina: prima ha sigillato la provincia di Wuhan, e ora il contagio sembra in ritirata. L’epidemia non è una gara d’appalto di Expo, retrodatabile a piacere.

I governatori alla Fontana, Zaia, Ceriscioli e Musumeci imparino da altri colleghi a lavorare in silenzio (come centinaia di medici e infermieri che operano senza soste né cambi-turno rischiando la pelle in ogni istante), visti i danni che fanno appena aprono bocca, anche a tre metri di distanza di sicurezza.

Chi, pur non essendo un esperto, padroneggia un po’ la materia, aiuti gli altri meno aggiornati a non confondere il giusto allarme con l’assurdo allarmismo e a leggere correttamente i dati: non tutti i positivi sono malati di coronavirus, non tutti i malati sono intubati in rianimazione, quasi nessuno degli intubati rischia la pelle. I tassi di mortalità, che oscillano fra il 2 e il 3%, sono sovrastimati rispetto alle normali influenze perché le influenze si sa quante sono, mentre i casi di Coronavirus sono molti più di quelli noti, essendo difficilmente distinguibili dalle influenze e ricercati e diagnosticati da poche settimane. Quindi i morti per coronavirus sono probabilmente inferiori a quelli per influenza (circa 8 mila all’anno in Italia) e infinitamente inferiori a quelli per infezioni ospedaliere (altri 10 mila l’anno). Fermo restando che anche un solo morto, per quanto anziano o debilitato da altre patologie, è di troppo.

Il vero e unico oggetto dell’allarme (che non è allarmismo, è sacrosanta precauzione) non è il numero o la percentuale dei morti, ma l’espandersi del contagio. E non perché i contagiati abbiano meno possibilità di guarire del previsto (guariranno quasi tutti). Ma perché subito, qui e ora, rischiano di non trovare né posti letto né medici né infermieri sufficienti negli ospedali, in particolare nei reparti di rianimazione delle zone più “infette”. Quindi, non potendo moltiplicare dall’oggi al domani i letti e il personale, anche a causa dei tagli degli ultimi anni nella sanità pubblica e delle scriteriate politiche regionali a vantaggio dei privati (altro che “modello”), non resta che tentare di ridurre qui e ora il contagio con misure più drastiche di quelle già adottate. Più precauzioni si usano e più sacrifici si fanno oggi, più presto finirà l’emergenza e tornerà la normalità. Anche perché, in attesa di cure specifiche e vaccini, il primo nemico del coronavirus pare sia il caldo.

Nella cacofonia degli esperti, molti dei quali diveggiano in tv come soubrette e tronisti, a naso daremmo ascolto a Maria Rita Gismondo, che ha non solo i titoli, ma anche lo stile giusto per comunicare: informato, pacato, allarmante il giusto ma mai allarmistico-catastrofico. Fidiamoci di lei e di quelli come lei. Convinti di interpretare l’umore dei lettori, rivolgiamo un sobrio invito ai dirigenti della Serie A di calcio: abbiamo cose più serie a cui pensare che il campionato, quindi giocate a porte chiuse o a casa vostra e piantatela di rompere i coglioni.

Conte e lo sputtanamento di Salvini. - Tommaso Merlo


Mentre Conte rassicurava ed informava gli italiani sui nuovi provvedimenti, Salvini sputtanava l’Italia su un giornale spagnolo dicendo che “il governo è incapace di gestire la crisi”.
Nemmeno l’aggravarsi dell’epidemia riesce a placare un Salvini che appare giorno dopo giorno sempre più fuori controllo. Non riesce a contenersi nemmeno difronte ad un’epidemia che rischia di mettere gravemente in crisi l’intero sistema paese. Davvero un comportamento politico ma anche umano vergognoso ed irresponsabile che qualifica più di mille comizi chi sia davvero Matteo Salvini. E molti cittadini sembrano rendersene conto visto che la Lega viene confermata in forte calo nei sondaggi. Del resto i momenti di crisi servono anche a questo.
A porsi nuove domande, a rivedere tutto sotto una nuova prospettiva cogliendo così meglio la verità che ci circonda. E la verità che sta emergendo è cristallina. Conte è stato infamato fin dal giorno del suo insediamento. Prima dai giornalai di sinistra, poi da quelli di destra. E questo perchè troppo alieno al vecchio regime partitocratico. Conte è un cittadino libero, un professionista prestato alla politica. Nemmeno lui avrebbe immaginato di diventare premier quando anni addietro avvicinò il Movimento 5 Stelle. Eppure eccoli lì, al suo secondo mandato. Eccolo lì senza padroni o ideologie da servire, ma con valori forti e volontà di mettersi al servizio della propria comunità nazionale.
Un abisso rispetto a Salvini.
Un abisso morale, culturale, di competenze ma anche politico nel senso più nobile del termine.
Politica è servizio. Nient’altro che servizio disinteressato alla propria comunità. Non è fango propagandistico per colpire i nemici e prendersi il potere. Non è tifo, non è sterile chiacchiera, non è arrivismo e cinico egoismo.
Conte ha invitato per l’ennesima volta le opposizioni all’unità mentre Salvini sputtanava l’Italia su un giornale spagnolo. Ha parlato agli italiani con la franchezza che lo contraddistingue ed ha rivendicato la linea della “trasparenza” adottata. Il governo non ha fatto giochi sporchi sull’epidemia, non ha minimizzato, non ha nascosto la verità sotto al tappeto ma si è messo ad inseguire il virus per contenerlo, si è messo al lavoro. Il coronavirus non ha colore politico – ha ribadito Conte – e va vinto con l’impegno di tutti. Con serietà, con responsabilità. Dai politici all’ultimo cittadino di provincia. Conte annuncia anche un Modello Genova per far fronte all’emergenza che sta diventando economica e quindi sociale. Una reazione veemente dello Stato e della politica ad una tragedia improvvisa, un simbolo di rinascita e cambiamento. Ma poi si sa come è andata a finire a Genova. L’allora nascituro governo gialloverde reagì alla grande e la giurò ai Benetton, poi strada facendo Salvini ha fatto saltare tutto dalla spiaggia per tentare il colpo di mano ed oggi difende le concessioni autostradali sputando sui suoi ex alleati. Sembrano passati secoli, ma il nuovo ponte genovese è lì, in piedi, come Conte. Un cittadino prestato alla “cosa pubblica” verso un vecchio politicante di “professione”. Un uomo e un governo serio che lavora per fronteggiare la crisi e un personaggio che sputtana il proprio paese in un momento di grave difficoltà.
Un premier all’altezza e un personaggio a cui sarebbe pericolosissimo affidare le redini del nostro paese.