sabato 29 dicembre 2018

IL FILO DI MARIANNA - Marco Travaglio

Risultati immagini per il filo di marianna


Un tempo, per capire che aria tirava, bastava pedinare Clemente Mastella: se mollava un governo, era chiaro che la crisi era questione di giorni; se scaricava un alleato per sposarne un altro, era inutile aspettare le elezioni perché lo sconfitto e il vincitore erano già decisi. Ora che Clemente nostro s’è ritirato (provvisoriamente, s’intende) nel Sannio natìo, bisogna seguire il filo di Marianna. Nel senso di Madia. Grazie a un fiuto sconosciuto ai rabdomanti, ai cani da trifola e persino ai vecchi democristiani, la ragazza riesce sempre a stare dove tira il vento, e con largo anticipo. Ora, per dire, sostiene Nicola Zingaretti alle primarie del Pd. Che a questo punto sono inutili, tanto si sa già chi vince. I guai, per Zingaretti, cominceranno il giorno dopo: come farà a superare il renzismo con un partito pieno di ex renziani? Auguri. 
Classe 1980, romana, nipote di un avvocato missino e figlia di un giornalista-attore-consigliere comunale veltroniano, liceo francese Chateaubriand, poi Scienze politiche alla Sapienza, poi dottorato di ricerca all’Imt di Lucca con una tesi un po’ copiata, già fidanzata di Giulio Napolitano, collaboratrice di Minoli a Rai2, moglie del produttore Mario Gianani, la Madia si accosta alla politica prim’ancora di laurearsi.
Un giorno segue una conferenza di Enrico Letta, ne rimane (non si sa come) rapita, glielo va a dire e quello la fa entrare in Arel, la fondazione che ha ereditato da Andreatta. Nel 2008, a 27 anni, grazie all’amico Veltroni è addirittura capolista del Pd nel Lazio. Ed entra a Montecitorio con queste storiche parole: “Porto in dote la mia straordinaria inesperienza”. Siede nello scranno accanto a D’Alema, che se la porta nella redazione di Italianieuropei. Radio Luiss le domanda chi sia il suo politico preferito, e lei: “L’intelligenza politica di D’Alema è già Storia”. Poi Max tramonta e la giovine deputata si schiera con Monti. Alle primarie del Pd, fa campagna per Bersani contro Renzi: “Voto Pier Luigi, è il miglior premier che l’Italia possa avere. Solo lui ha statura da presidente del Consiglio”. Così viene rieletta deputata, solo che poi il premier lo fa Letta. Ma lei non deve nemmeno spostarsi: era già lettiana da piccola. Segue una breve fuitina con Civati. Quando Renzi diventa segretario, lei è già renziana. E lui, non avendo la statura, la promuove subito responsabile del Pd per il lavoro. Per impratichirsi su quella strana materia, la Marianna incontra il ministro Zanonato e attacca a illustrargli le sue strategie contro la disoccupazione giovanile (peraltro mai conosciuta in vita sua).
Con un filo d’imbarazzo, il titolare dello Sviluppo economico la blocca e le fa presente che ha sbagliato ministro: quello del Lavoro si chiama Giovannini. Lei: “Ma scusa, non sei tu che ti occupi di lavoro?”. Lui la prende sottobraccio con fare paterno e le indica il ministero del Lavoro dall’altra parte della strada: “Marianna, hai sbagliato indirizzo”. Siccome il talento va premiato, Renzi diventa premier e la fa ministra della PA e della Semplificazione. Lei dichiara: “Sono molto contenta, anche se non ho avuto ancora il tempo di rendermene conto. L’ho saputo mentre guardavo in tv Peppa Pig”. Da allora del renzismo difende tutto, anche l’indifendibile (“C’è un’attenzione morbosa verso noi ministre – me e Maria Elena Boschi – che non c’è verso gli uomini: è sessismo latente”). E non si perde una Leopolda, dove proibisce severamente ai giornalisti di intervistarla (“Non rispondo alle vostre domande perché questo, secondo me, non è giornalismo di rinnovamento”). In vista del referendum, vaticina: “La nostra riforma costituzionale finirà nei libri di storia”. Invece finisce nel cestino. Però è anche molto sincera: in tv confida che al ministero “i miei funzionari ridono sempre” (e nessuno stenta a crederlo). Intanto è arrivato Gentiloni e Marianna – ci credereste? – è già gentiloniana: infatti rimane ministra. Paolo però dura poco e non corre per la segreteria.
Lei, per non saper né leggere né scrivere, in aprile appoggia il reggente Martina sull’apertura a Di Maio per il governo col M5S: “Piena condivisione delle parole di Maurizio”. Che ora è candidato alle primarie, ma senza speranze, anche perché la Madia è già migrata armi e bagagli con Zingaretti. E ben prima che arrivasse l’onda di piena degli ex renziani come Gentiloni, Franceschini, De Vincenti, Bressa, Bianco e Fassino (che è un po’ la mascotte portafortuna) e soprattutto delle ex renziane Quartapelle, Pinotti, Di Giorgi, Bonaccorsi, Gualmini, Sereni e Puglisi. I trasvolatori last minute, infatti, son tutti lì ad arrampicarsi sugli specchi per giustificarsi: “Ho creduto nel giovane Matteo, non so se è cambiato lui, certo è cambiato lo scenario attorno a lui e non se n’è accorto” (Di Giorgi), “La categoria dei renziani mi sembra un po’ superata, purtroppo si sono inseguite riforme liberali o istituzionali, non sociali e la gente ci ha punito” (Quartapelle, detta ora Quintapelle), “Matteo non ha saputo fare squadra” (Puglisi), “In Toscana i renziani non esistono più, la storia ha voltato pagina. Personalmente non rinnego nulla delle cose positive che abbiamo fatto, ma ora è evidente che c’è una sola figura in grado di intraprendere un cammino riformista, con un partito più inclusivo e una maggior discontinuità col passato: Zingaretti” (Federico Gelli, ex compagno di scout di Matteo, ex deputato toscano). La Marianna no, non si giustifica, anzi non parla proprio: che c’è di strano se una che in 10 anni è riuscita a essere veltroniana, dalemiana, montiana, bersaniana, lettiana, civatiana, renziana, gentiloniana, ora è zingarettiana? Diceva Totò: “Quando vedo un buco, io entro”. Il bello è che la fanno 
ancora entrare.


“IL FILO DI MARIANNA”, di Marco Travaglio sul Il Fatto Quotidiano del 28 dicembre 2018.

"Ci date dei 'bamboccioni' ma non sapete nulla di noi: ecco come viviamo noi, giovani italiani all'estero". - Ilaria Betti



Intervista a Carlotta Ballarini, 28 anni, pesarese da quattro anni in Germania, che su Facebook ha scritto un duro post: "La gente non sa niente di noi".


"A tutti quei politici e non che si sono permessi di dare a noi ragazzi italiani dei 'bamboccioni' o a quelli che si sono permessi di dire che quei ragazzi che vanno all'estero non sono da considerare italiani, ecco, a voi mostro questa foto". Inizia così il post che Carlotta Ballarini, 28 anni, di Pesaro ma da quattro anni in Germania per svolgere la professione di infermiera, ha scritto su Facebook. Il suo è un attacco a chi giudica superficialmente i giovani all'estero, a chi non conosce nulla delle loro difficoltà, della gavetta che sono costretti a fare. A chi spesso ignora i risultati di quella fatica: "All'estero c'è una cosa che si chiama meritocrazia e adesso sono con la mia amica Fanny e facciamo la notte in Cardiologia con 36 pazienti e un posto a stipendio fisso e contratto indeterminato, naturalmente", si legge sotto la foto delle due.
"Voi che siete così grandi lo sapete cosa vuol dire essere lontani dalla propria famiglia? Dalla propria casa? Dagli amici? Imparare una lingua da zero? - recita ancora il post -. Lo sapete cosa si prova quando i genitori ti chiamano su Skype per comunicarti tutto quello che succede, e tu non puoi toccarli? Lo sapete che anche i lutti si comunicano via Skype? Lo sapete che noi bamboccioni, choosy, figli di papà dobbiamo avere sempre un deposito di soldi per le emergenze, perché beh, se succede qualcosa devi essere pronto a prendere il primo volo che c'è? Non sapete niente voi, perché siete ignoranti e non sapete niente di come si vive lottando". Perché di lotta si tratta - ha confermato Carlotta ad HuffPost.
Cosa ti ha spinto a scrivere questo post?
"Sono a Berlino da quattro anni e vedere tutto quello che succede in Italia è avvilente. Molti miei amici fanno lavori stagionali, sono ancora in attesa di un contratto o di un lavoro e questo mi fa rabbia. Io sono andata via in cerca di un futuro migliore: se avessi potuto, sarei rimasta volentieri nel mio Paese, anche perché i primi mesi qui sono stati di pianti. Spesso si sottovaluta quanto sia dura la scelta di andare all'estero: ecco perché ho scritto il post".
Perché hai scelto di lasciare l'Italia?
"Sono partita a 24 anni, senza prospettive, con un biglietto di sola andata. Mi ero laureata in infermieristica da due anni: ho aspettato, quindi, prima di partire, ho mandato curriculum, ho fatto concorsi, ho fatto anche quattro lavori insieme prima di arrivare a prendere quella decisione. Vivevo ancora con i miei genitori, non volevo gravare su di loro, così la mia scelta è stata quasi obbligata: ho passato tre mesi con il biglietto aereo in mano e posso assicurare che sono stati mesi pesanti. Si è costretti a salutare la propria famiglia, senza sapere quando la si vedrà di nuovo: io sono tornata la prima volta dopo otto mesi".
Qual è il tuo primo ricordo a Berlino?
"Il primo ricordo è quello di me in un ostello. Il primo mese che ho passato a Berlino l'ho trascorso lì: facevo le pulizie, pulivo le camere, mi sono presa anche le pulci. Non avevo mai studiato tedesco, non capivo quasi nulla, ma mi sono rimboccata le maniche: lavoravo e facevo quattro ore di scuola di lingua al giorno. Sono andata avanti così per tutto il primo anno finché ho raggiunto il livello B1. Poi ho trovato un altro impiego in una casa di riposo, come aiuto infermiera. Dal momento che per avere il riconoscimento della laurea serviva il livello B2, ho continuato a studiare: appena raggiunta la certificazione di lingua, sono stata assunta in un ospedale vero e proprio, prima in gastroenterologia, poi in cardiologia".
Sei soddisfatta della tua posizione lavorativa ora?
"Ora ho un contratto a tempo indeterminato. Ma, a dir la verità, anche quando lavoravo in ostello avevo un contratto del genere: prendevo 990 euro al mese per lavorare quattro giorni. Qui funziona così: la vita che conduci e lo stipendio che ricevi sono equiparati. E se non lo sono - se, ad esempio, hai figli o ti servono soldi - puoi chiedere aiuti sociali. In Italia, invece, ci sono delle situazioni famigliari davvero pesanti: basti pensare ad alcuni anziani, che sono costretti a sopravvivere con 400 euro al mese".
Ti manca l'Italia?
"Mi è sempre mancata e mi manca tutti i giorni. Mi manca la mia famiglia, mi manca il cibo, mi manca la mia lingua".
Qual è il messaggio che vorresti trasmettere?
"Voglio ribadire che tante delle cose che sono state dette sui ragazzi all'estero non sono vere: la scelta di lasciare la propria famiglia è una scelta estrema. Tutti noi abbiamo lasciato il nostro cuore in Italia, insieme ai nostri genitori, ai nostri fratelli e sentirci dare dei bamboccioni, dei buoni a nulla fa male. Tutto quello che ho ora me lo sono sudato: i miei genitori mi hanno supportata sempre, ma la mia situazione economica me la sono gestita da sola. Mi piacerebbe che la mia storia fosse d'incoraggiamento a tutti quei giovani che desiderano costruirsi un futuro solido, in Italia o altrove: vorrei dire loro che con un po' di coraggio e tanta forza di volontà tutto è possibile".

Il genio di Daniela Ducato che crea il futuro usando gli scarti. - Riccardo Bruno


Daniela Ducato, 58 anni, con il suo cane Pegaso

L’imprenditrice sarda per «Fortune» è la donna più innovativa d’Italia. Ha iniziato usando i resti della lana per assorbire il petrolio finito in mare. «Bisogna fare rete e non arrendersi».

Questa storia inizia con i capperi e il mare. 

«La professoressa di scienze al liceo, si chiamava Giuseppina Primavera, ci portava a vedere le piante che crescevano sui muri di Cagliari e che quasi nessuno notava. E ci invitava a guardare il mare davanti, come se fossimo noi stessi dei vegetali». Botanica e poesia, rigore e passione hanno guidato tutta la vita di Daniela Ducato, 58 anni, sarda, premiata due sere fa come l’imprenditrice più influente d’Italia (assieme alla milanese Riccarda Zezza) nella prima edizione nazionale del prestigioso riconoscimento della rivista Fortune alle donne in grado di cambiare il mondo. E lei, ritirando il premio, ci ha tenuto a ringraziare la vecchia prof e le due nipotine, Olympia e Sara, perché «ogni giorno cerco di guardare con i loro occhi».

Eccedenze Passato e futuro, nuovi progetti sulle spalle della tradizione. È sempre stato così per Daniela Ducato. Ha iniziato con la lana di pecora, quella a pelo corto, uno scarto di lavorazione, un rifiuto difficile da smaltire, e l’ha trasformata in un isolante termico per l’edilizia, ma anche in una straordinaria «spugna» per assorbire il petrolio nel mare.

Dopo la lana, il sughero, e poi la canapa, e ancora le vinacce o le bucce di pomodoro. «Cento sostanze da buttare diventate 120 biomateriali da impiegare in tanti settori». Non le piace chiamarli scarti. «Semmai scarti preziosi, ma preferisco eccedenze, dà il senso dell’abbondanza, di un dono. Cerco di trovare una funzione a ogni cosa». La sua forza è nel mettere assieme idee e energie. «Coordino persone, faccio incontrare imprese e ricerca. Bisogna fare squadra, incoraggiarsi a vicenda come una famiglia. Solo da questo scambio può nascere qualcosa di buono. Va condiviso tutto, anche i fallimenti, perché l’errore può essere il punto di partenza perché altri trovino la soluzione corretta».

Prodotti ecologici Ultimamente si è concentrata sul packaging. «Per le merci che devono essere sempre refrigerate abbiamo creato film sottili termici realizzati con la canapa. No acqua, no petrolio, no guerra, diciamo noi». E si è dedicata all’interior design. «L’inquinamento interno è quattro volte maggiore di quello esterno». Gira sempre con un rivelatore di sostanze dannose. «Anche l’altra sera a Roma ho testato l’albergo. È importante scegliere materiali non solo sani ma anche esteticamente gradevoli, unire la salute alla bellezza. È straordinario entrare in un ufficio dove sembra di respirare l’aria di un bosco». La sua azienda, la Edizero Architecture for Peace, inserita nel 2016 al Forum mondiale dell’Economia tra le dieci eccellenze nel campo delle biotecnologie, ha sede a Guspini, sud ovest della Sardegna, Medio Campidano, considerata l’area più povera d’Italia. «E accanto c’è il Sulcis, che è la penultima. Nella zona industriale si sono dimenticati di fare le infrastrutture, le stiamo costruendo a nostre spese. La vera povertà è l’incapacità delle istituzioni di ascoltare il territorio, l’assistenzialismo, lo spreco di risorse, la svalutazione dell’esistente. Innovare significa proprio questo, non rassegnarsi, dare valore a tutto quello che c’è. È l’unica forma di sopravvivenza, altrimenti non resta che emigrare».

Prospettive Daniela Ducato, «campionessa mondiale di innovazione, orgoglio della nostra Italia migliore» come la definì il Presidente Mattarella quando tre anni fa la nominò cavaliere della Repubblica, non è tipo che si culla sui successi. «Nel 2019 prenderò nuove strade. Mi occuperò di alta formazione nella progettazione con le Università di Cagliari e Sassari. E mi dedicherò a produzioni differenti nel settore del cibo. Ammetto che da un lato sono preoccupata, ma dall’altro so che è giusto cambiare. È sempre utile mutare prospettiva, modo di vedere le cose». Come ammirare il mare immaginando di essere una pianta di capperi.



Dna e proteine, la prova scientifica dell’esistenza di Dio. - Fabio Manenti

Dna e proteine, la prova scientifica dell’esistenza di Dio

Finché saranno gli uomini a proclamare i santi, Dio avrà la “D” tra parentesi e un “io” scritto in grande. L’uomo che si incarna nello spirito anziché il contrario. Eppure, nell’infinitesimale vastità del tutto, polvere atomica e galassie colossali, esiste un’energia ininterrotta, pervadente e razionale. Straordinariamente razionale. La avvertiamo perché ne siamo parte e la ignoriamo per la stessa ragione.
Bill Bryson è un giornalista statunitense, autore di un libro – tra gli altri – meraviglioso: Breve storia di (quasi) tutto. È un reportage dell’universo, un romanzo ironico e coinvolgente che racconta la scienza con esempi concreti e straordinariamente comprensibili. Quando parla di proteine, racchiude in meno di una pagina la prova di quell’energia metodica che i popoli chiamano Dio, ciascuno col proprio nome: “Noi abbiamo bisogno di moltissime proteine, ognuna delle quali è un piccolo miracolo. Stando alle leggi della probabilità, le proteine non dovrebbero nemmeno esistere. Per crearne una, gli amminoacidi devono essere assemblati in un ordine particolare. Per ottenere il collagene, una comunissima proteina, bisogna disporre ben 1055 amminoacidi nella sequenza corretta.
La probabilità che una molecola di collagene si autoassembli spontaneamente sono, in tutta franchezza, nulle. Per renderci conto di quanto questo sia improbabile, immaginiamo una normalissima slot machine come quelle di Las Vegas e aumentiamone le dimensioni portandole a 27 metri, in modo che possa accogliere 1055 ruote (anziché le solite tre) ognuna delle quali contenente 20 simboli (uno per ogni comune amminoacido). Quante volte dovremmo tirare la leva prima che tutti i 1055 simboli si presentino nella sequenza giusta? In pratica, per tutta l’eternità. Anche riducendo il numero di ruote da 1055 a 200 (che è il numero di amminoacidi più comune per una proteina) la probabilità che si sistemino nell’ordine corretto è una su 10 elevato a 260 (ossia 1 seguito da 260 zeri). Un numero di per sé più elevato di tutti gli atomi contenuti nell’universo. Il fatto che anche una sola proteina possa essere sintetizzata grazie a eventi casuali sembrerebbe dunque una circostanza spaventosamente improbabile”.

Bryson parla di “piccolo” miracolo probabilmente solo per una questione di dimensioni. Perché questo evento, tanto inverosimile quanto reale, è solo il primo di quell’incredibile fatalità che è la vita. Il secondo sta nel fatto che la nostra esistenza non si accontenta di una sola proteina “ma di centinaia di migliaia, forse un milione, ciascuna delle quali diversa dalle altre”. Un milione di enormi slot machine tutte, “casualmente”, con la corretta sequenza.
Il terzo è che l’eccezionalità di una proteina è sia nella concatenazione dei suoi amminoacidi sia nell’esatta forma che questa sequenza deve assumere, evento altrettanto spontaneamente assurdo. Il quarto – ebbene sì, ce n’è anche un quarto – arrovellerebbe filosofi e semplici avicoltori, appassionati dell’ancestrale quesito di quale, tra la gallina e l’uovo, abbia per primo fatto la sua comparsa: le proteine non devono avere solo forma e sequenza assolute ma devono anche potersi riprodurre. Operazione che si realizza con perfetta efficacia attraverso il Dna. Siamo quindi a una situazione paradossale: “Le proteine – scrive Bryson – non possono esistere senza Dna, e il Dna non serve a niente senza di esse. Dobbiamo quindi pensare che siano comparsi sulla Terra contemporaneamente, con lo scopo di sostenersi a vicenda? Tutto questo per logica non dovrebbe succedere; eppure, in un modo o nell’altro, in natura succede eccome”.

Io non sono né scienziato né prete. E non so che forma abbia Dio, il senso ultimo della sua esistenza, se abbia sembianze d’uomo o di donna, se sia buono o vendicativo, padre avvinto all’esistenza dei figli o inesorabile destino. Credo che non abbiamo facoltà sufficienti nemmeno a immaginarlo: con la prima parola di questa frase, “credo”, a essere cardine delle vicende dell’uomo più di Dio stesso.