giovedì 25 agosto 2016

Quei 100mila codici sono una delle emergenze nazionali. - Michele Ainis

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Come si misura la forza di un governo
Dov’è situato l’indice che ne stabilisce l’efficacia? 
Ovvio: nell’archivio delle Gazzette ufficiali. 
Perché un governo è forte quando produce decisioni, e le decisioni politiche indossano la forma della legge. 
Dunque ogni legge costituisce un trofeo, un vessillo, una medaglia al valore.
Errore: sarà così per gli altri popoli, non alle nostre latitudini. Non quando ogni italiano è alle prese con 40 mila leggi statali e regionali, nonché – secondo le stime più prudenti – 60 mila regolamenti governativi. Non se questa pioggia di regole viene scritta in ostrogoto, nell’«antilingua» di cui parlò Calvino. Non quando le norme si contraddicono a vicenda, oppure nuotano in una rete d’allusioni e di rimandi dove annegherebbe anche Licurgo, il gran legislatore. Non se ciascun codicillo brucia per il tempo d’un fiammifero, sicché appena l’hai imparato devi già dimenticarlo, perché incalza la riforma della legge di riforma.
Più che un problema, una maledizione. Dovrebbe essere ascritta fra le più gravi emergenze nazionali; non è così. Della questione non parla più nessuno. O almeno non ne parlano i politici nostrani, giacché all’estero se ne parla pure troppo. In luglio l’Economist ci ha costruito la sua copertina, descrivendo l’economia italiana agonizzante per gli eccessi normativi. D’altronde basta chiedere alle imprese straniere, quelle poche che ancora investono quaggiù: le scoraggia l’incertezza del diritto, la lotteria dei tribunali. 


Oppure possiamo domandarlo agli italiani, costretti ad uno slalom fra 106 scadenze fiscali concentrate in un’unica giornata (il 22 agosto).

E a proposito d’affari. In aprile è entrato in vigore il nuovo codice degli appalti, illuminato dall’idea di sbloccare i lavori pubblici. Risultato: nei mesi successivi blocco delle gare (75% in meno a maggio, 60% in meno a giugno). Tanto che Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro, pronostica un impatto negativo sul Pil. Per forza, con 220 articoli e 25 allegati che nessuno sa ancora come interpretare. Anche se per la verità non lo sapevamo neppure prima, arrancando dalla Merloni bis, ter, quater, fino al codice dei contratti pubblici del 2006, o fino alle 6 leggi di semplificazione in materia d’appalti intervenute fra il 2008 e il 2012.


Semplificare la semplificazione, ecco la sfida. 

O almeno provarci, chiudendo innanzitutto il rubinetto delle leggi. Invece gira la favola contraria: il procedimento legislativo è troppo complicato, bisogna accelerarlo togliendo di mezzo l’ingombro del Senato. Eppure nella legislatura scorsa le Camere hanno licenziato 391 leggi, che si sommano alle 241 fin qui approvate durante la legislatura in corso.
Non che la Costituzione sia impotente a risolvere questo grattacapo. Potrebbe farlo, per esempio, ospitando una norma come quella dettata nel 1997 dalla Bicamerale presieduta da D’Alema, e riproposta tale e quale nel 2013 dal comitato dei 35 “saggi” insediato dall’esecutivo Letta: una norma che garantisca la codificazione del diritto, per dirla con parole semplici. Invece niente, zero, pagina bianca. La riforma corregge 47 articoli della nostra vecchia Carta, si vede che i riformatori non avevano più inchiostro.
Questo calo di tensione deriva da un vuoto d’attenzione. Imperdonabile, dato che il troppo diritto è l’alimento della corruzione che ci intossica. 


Come scriveva Tacito? Corruptissima re pubblica plurimae leges.

Eppure non molti anni addietro la questione era al centro della nostra vita pubblica. Di più: fu oggetto di un’iniziativa bipartisan, benché allora imperversasse un bipolarismo muscolare. Accadde nel 2005, con la “taglialeggi”: tenuta a battesimo dal secondo governoBerlusconi, attuata durante il secondo governo Prodi, completata nel 2009 dal terzo governo Berlusconi.


Con non pochi pasticci, certo, come la ripetuta abrogazione di norme già abrogate. Con inutili colpi di teatro, come il lanciafiamme acceso dal ministro Calderoli per bruciare qualche scatolone vuoto. Ma quantomeno in quell’epoca destra e sinistra erano coscienti del problema. Ora non più, sulla vicenda torreggia il muro del silenzio. Sicché non ci resta che imbastire una seduta spiritica, chiamando in soccorso l’anima di Giustiniano, che “d’entro le leggi trasse il troppo e ‘l vano”.


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Il governo attuale è illegittimo.

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Il governo attuale è illegittimo. 

In una repubblica democratica non può governare una persona designata da un singolo individuo; vero è che la Costituzione sancisce che i Presidente della Repubblica può farlo, ma solo in casi eccezionali, uno dei quali è garantire la continuità governativa durante il lasso di tempo che necessita per l'indizione di nuove elezioni; non può prolungarsi, pertanto, oltre tale periodo.

Nel caso in questione, Napolitano, unico presidente rieletto per un secondo mandato, nominò Renzi perchè si procedesse a formulare e varare una nuova legge elettorale in sostituzione di quella in atto, che non rispondeva ai criteri di rispetto della volontà espressa dai cittadini. 

Il fatto che Renzi non abbia ottemperato ai motivi che sono alla base del suo mandato è già per se stesso un presupposto valido per lo scioglimento immediato delle camere.

Cetta