lunedì 5 marzo 2012

Verso il 9 marzo - Flores d’Arcais: Il sindacato scenda in politica.





La democrazia è per sua natura «in espansione». Se non si allarga e radica di continuo, viene minacciata nella sua stessa essenza. Diventa «a repentaglio». La democrazia in fabbrica è una delle più importanti cartine di tornasole di questo radicarsi: se il lavoratore è privato dei diritti fondamentali di parola, organizzazione e manifestazione (in primo luogo lo sciopero, ovviamente) sul proprio luogo di lavoro, è un sintomo catastrofico che lo stesso ethos democratico non è più sentito veramente dal paese e può venir brutalmente calpestato dall’establishment dominante.

Proprio questo, come è noto, è avvenuto nella troppo lunga stagione dell’egemonia berlusconiana, oggi parzialmente interrotta ma niente affatto conclusa. I diritti civili conculcati, fino alla vera e propria guerra dichiarata contro la Costituzione repubblicana sorta dalla Resistenza, vero asso portante del berlusconismo, hanno trovato la loro avvelenata «ciliegina» nel diktat di Marchionne su Pomigliano, fatto passare come misura eccezionale e circoscritta, ma il cui carattere di vero e proprio progetto era evidente a chiunque avesse occhi per vedere e orecchie per intendere. Un progetto di americanizzazione radicale delle relazioni industriali, cioè, fuor di metafora, di distruzione del sindacato «generale», che unifica i lavoratori delle singole aziende anziché lasciare il singolo alla mercé della trattativa impari con manager e padroni.

Ecco perché ho sempre parlato, dal dikat di Pomigliano in avanti, di «regime Berlusconi-Marchionne». Sottolineando come diverso, anzi diversissimo, fosse lo stile dei due uomini, piena invece la consonanza di amorosi sensi contro ogni forza autonoma che si levi a correzione del penchant «naturale» verso il comando senza contrappesi nella fabbrica Fiat o nella «azienda Italia», cioè la pretesa del dispotismo. Che è ovviamente agli antipodi della democrazia liberale per quanto riguarda lo Stato, ma è messo in mora anche per la proprietà industriale o finanziaria da alcuni articoli irrinunciabili della nostra felice Costituzione.

Ecco perché il tentativo anticostituzionale di mettere la Fiom fuori dalle fabbriche, di costringerla a una sorta di esilio rispetto alla patria naturale di ogni organizzazione sindacale, di strangolarla economicamente con un trattamento sulle trattenute iugulatorio rispetto a quello degli altri sindacati, è una mascalzonata d’establishment che ci riguarda tutti. Che colpisce oggi solo il settore tradizionalmente d’avanguardia della classe operaia organizzata e sindacalizzata, ma con ciò infligge un colpo all’insieme degli equilibri democratici del paese, e a ciascun singolo diritto di ciascun singolo cittadino, se i lavoratori Fiom rimarranno isolati in questa vicenda, e quindi inevitabilmente sconfitti.

Ecco perché la risposta al diktat di Marchionne, che palesemente è diventato ormai il faro di riferimento di gran parte della becera imprenditoria italiana (o se si preferisce: della parte becera, e ahimè cospicua, di un’imprenditoria italiana che ci piacerebbe invece fosse davvero «weberiana»), deve coinvolgere la società civile nella forma più larga: oltre, molto oltre, i confini di classe. Perché solo la Fiom oggi può rappresentare una sorta di «interfaccia» per le lotte dei precari, parcellizzate e frammentarie per la natura stessa della condizione sociale «precario», perché solo la Fiom ha dimostrato la sensibilità per aprirsi alle infinite lotte locali che difendono ambiente e beni comuni, perché solo la solidarietà con gli operai Fiom, le lotte per i diritti civili e di libertà, dall’informazione alla giustizia, dalla lotta alla criminalità organizzata alla lotta all’evasione fiscale, riusciranno a trovare quella continuità che è finora loro mancata e che ha reso inefficace sul piano politico l’andamento carsico dei movimenti grandiosi e appassionanti di questo decennio, dai girotondi ai «viola», agli studenti: che in reciproco isolamento si estinguono.

Ecco perché MicroMega ha lanciato un appello non solo di adesione ma di partecipazione organizzata alla manifestazione Fiom del 9 marzo. Contro la manifestazione sono certo che l’establishment – grazie a corifei di video e di fogli stampati – abbia già in canna l’accusa d’ordinanza: la Fiom fa politica! In questo paese fa politica Marchionne, fa politica la Confindustria, fanno politica le lobby occulte o sfacciate che imperversano in parlamento, fanno politica le banche, ha minacciato di far politica perfino Montezemolo, ma se un sindacato evidenzia la connessione fra difesa dei diritti operai e difesa delle generali libertà di cittadinanza, il chiassoso e unanime stracciarsi di vesti è garantito. Il sindacato (intendiamo la Cgil) ha solo una colpa, quello di tenersi, su questo tema, in difensiva. Il diritto/dovere di fare politica lo dovrebbe rivendicare apertamente. Fanno politica i sindacati che indeboliscono i lavoratori nei recinti della mera contrattazione aziendale, è necessario che la facciano i sindacati che vogliono invece contribuire – questa è responsabilità e vero senso dello Stato – al miglioramento, magari radicale, della condizione di tutti i lavoratori (e dei precari, e dei disoccupati, e dei pensionati) come condizione e motore dell’avanzamento di tutto il paese.

FIRMA L'APPELLO La società civile con la Fiom



http://temi.repubblica.it/micromega-online/verso-il-9-marzo-flores-darcais-il-sindacato-scenda-in-politica/

Architettura, ritorno al futuro Il nuovo mattone è la biologia. - di Giulia Berlardelli







"Living Architecture", ovvero come trasformare i nostri edifici in strutture dinamiche capaci di parlare con l'ambiente. A colpi di protocellule, alghe e altre tecnologie viventi. La road map nel libro di Rachel Armstrong.


UNA CITTÀ i cui edifici siano dipinti di protocellule, sistemi chimici "quasi viventi" in grado di sentire il loro ambiente. Palazzi che si fanno più forti con il passare del tempo, adattandosi alle bizzarrie di una Terra che abbiamo reso sempre più instabile. E ancora: muri capaci di assorbire anidride carbonica e trasformarla in una seconda pelle di carbonato minerale, con benefici per l'atmosfera e la struttura in sé. È così che Rachel Armstrong, docente di architettura alla University College London, immagina il futuro delle nostre città: oggi "deserti di cemento", domani (forse) sistemi dinamici più "simili alla vita". Le sue idee sono raccolte in "Living Architecture" 2, libro-manifesto dell'architettura vivente e vademecum della biologia sintetica applicata al settore edilizio. Repubblica.it l'ha incontrata per farsi raccontare i passaggi di questa sperata rivoluzione copernicana.

LE IMMAGINI 3

Oltre l'acciaio e il cemento. Il libro, pubblicato da TED, prende il via da uno dei giorni più terribili della storia recente: l'11 marzo del 2011, quando il Giappone fu scosso dal terremoto e dal successivo tsunami che distrussero l'area di Sendai. Più di 23.000 morti, 80.000 profughi, un disastro il cui costo è stato stimato attorno ai 3,2 miliardi di dollari. Per Armstrong, questa tragedia ci ha mostrato una volta per tutte che, malgrado la preparazione e le nuove tecnologie, la nostra capacità di rispondere alle sfide estreme della natura è maledettamente limitata. La regione è così diventata un caso di studio per lo sviluppo di un nuovo approccio alla costruzione, "un approccio  -  spiega la ricercatrice - in cui l'architettura è chiamata a svolgere un ruolo più intelligente e responsabile verso l'ambiente".

"L'architettura  -  continua Armstrong - potrebbe reagire diversamente alle sfide ambientali se solo le nostre case e le nostre città fossero dotate di alcune delle proprietà dinamiche che caratterizzano i sistemi viventi". Per arrivarci, però, è necessario cambiare il nostro modo di concepire le costruzioni. "Oggi tutti gli edifici sono disegnati e costruiti allo stesso modo. Sono il prodotto di processi industriali dannosi per l'ambiente: basti pensare che il settore edilizio è responsabile del 40% delle emissioni globali di anidride carbonica, un'impronta di CO2 addirittura maggiore di quella dei trasporti". Gli architetti e i designer stanno dunque iniziando a immaginare un paradigma in cui l'acciaio e il cemento non debbano per forza essere i materiali principali. La domanda può sembrare paradossale, ma a ben vedere un suo fondamento ce l'ha: "In quanto esseri viventi  -  si chiede la Armstrong - siamo sicuri che sia giusto vivere dentro habitat morti?".

Tra architettura e biologia: i precedenti. In alcuni contesti locali, l'integrazione tra architettura e sistemi biologici è già realtà. Senza scomodare le toilette in legno di bambù, uno degli esempi più famosi si trova a Cherrapunji, nel nordest dell'India. Qui gli abitanti hanno imparato a "guidare" le radici del Ficus elastica (anche detto fico del caucciù) per costruire ponti capaci di reggere il peso di 50 persone e raggiungere i 30 metri di lunghezza. "Il problema  -  spiega Armstrong - è come applicare questi principi all'architettura in generale e ai contesti urbani in particolare. Oggi le nostre città somigliano a dei deserti di cemento, dove l'elemento biologico resiste o è appositamente inserito, ma sempre con funzioni marginali".

La strada ci è già stata mostrata da alcuni pionieri dell'architettura ispirata alla vita, come Richard Buckminster Fuller e Antoni Gaudí. Quest'ultimo, nella costruzione della Sagrada Familía, lasciò che l'argilla prendesse forme primordiali, modellandosi sotto la forza di gravità e secondo la chimica della materia. In questo modo invertì l'ordine del processo di costruzione, dando alla materia la facoltà di "scegliere" la sua forma. In tempi più recenti altri esempi di "biomimicry" (innovazioni ispirate dalla natura) ci vengono dal MUSCLE (al Centre Pompidou di Parigi) e dal Times Eureka Pavilion (parte del Chelsea Flower Show 2011 di Londra). Così come dai muri viventi di Patrick Blanc, sempre a Parigi: 15.000 piante di 150 specie che si estendono dal marciapiede alla terrazza del Museé du Quai Branly, forse il più verde del mondo.

La tecnologia come sistema vivente. Per quanto ancora agli albori, Armstrong è convinta che un cambio di mentalità sia tutt'altro che impossibile. "Oggi stiamo iniziando a capire che la tecnologia può possedere alcune delle proprietà dei sistemi viventi", ci racconta. A catalizzare questa rivoluzione è la biologia sintetica, nuova branca delle scienze biologiche il cui sviluppo si deve ai progressi delle biotecnologie negli ultimi trent'anni. Progressi che hanno permesso alla biologia di trasformarsi da una disciplina fondamentalmente descrittiva a una scienza capace di "immaginare e costruire nuovi sistemi viventi".

Arrivati fin qui, il salto alla "Living Architecture" è breve: "Applicando all'architettura i principi della biologia sintetica, le nostre strutture potrebbero diventare oggetti viventi capaci di intrattenere relazioni dinamiche con l'ambiente". Piuttosto che rimanere inerti, insomma, gli edifici potrebbero adattarsi per rispondere alle stagioni, come fanno i parchi e i giardini, sviluppando una loro "sensibilità" al mutare degli elementi.

Tutti i poteri delle protocellule. Uno degli approcci della biologia sintetica consiste nella creazione di sistemi chimici protoviventi, come ad esempio le cosiddette protocellule. Si tratta  -  spiega la ricercatrice  -  di sistemi chimici privi di DNA ma capaci di assemblarsi da soli. Il bello di questi sistemi è che sorgono spontaneamente quando si mischia una sostanza oleosa a una soluzione alcalina. Dall'unione di questi due elementi si genera un'entità capace di muoversi, percepire l'ambiente e produrre microstrutture (VIDEO).

Obiettivo dei sostenitori dell'architettura vivente è dare a questi sistemi il diritto di cittadinanza nei materiali edili del futuro. La ricercatrice è in prima fila in questa battaglia: "Le protocellule permettono di immaginare nuove soluzioni di design e architettura", sostiene. "Questi microsistemi possono essere impiegati nello sviluppo di materiali e metodologie di design in ambienti complessi, offrendo un ponte tra il design fatto dall'uomo e il mondo naturale". E poiché le protocellule possono essere programmate, è anche possibile dotarle del potere di agire positivamente su un determinato ambiente, riducendo l'impatto negativo dell'intera costruzione.

Un progetto per Venezia. Per funzionare, le protocellule hanno bisogno di un mezzo oleoso o dell'acqua, un aspetto che le ha rese particolarmente interessanti per risolvere i problemi di Venezia. La città, infatti, potrebbe dover intraprendere un "sollevamento forzato" di 30 centimetri, così da guadagnare un po' di terreno rispetto alle alte maree e all'innalzamento del livello del mare. Tale operazione (che verrebbe praticata "gonfiando" le falde acquifere) farebbe però emergere dall'acqua le cataste di legno su cui poggia la città, esponendole all'aria e, di fatto, al rischio di decomposizione. Per questo l'Unione Europea ha finanziato un progetto di ricerca 4 il cui compito consiste, appunto, nel valutare la fattibilità di un simile scenario.

È qui che, secondo il gruppo di Armstrong, le tecnologie viventi potrebbero fare la differenza. "Le protocellule  -  spiega la ricercatrice - potrebbero creare uno strato protettivo capace di impedire la decomposizione del legno o addirittura favorirne la pietrificazione. Basterebbe aggiungere alle protocellule due reazioni chimiche: la prima di avversione alla luce, la seconda di fissaggio del carbonio, per consentire alle gocce di creare, usando i minerali nell'acqua e l'anidride carbonica disciolta, un livello di carbonato che vada a coprire direttamente le pile di legno. La forza di questo sistema è che funzionerebbe in maniera dinamica, ossia adattandosi al livello dell'acqua, alle correnti e alla vita marina".

Pitture viventi e scenari futuri. Una delle applicazioni più promettenti delle protocellule consiste però nelle "pitture intelligenti", vernici fatte di protocellule che possono assorbire l'anidride carbonica e formare carbonato inorganico. Questi rivestimenti potrebbero aumentare la capacità di isolamento termico degli edifici, migliorando così la loro efficienza energetica. Alcune aziende di vernici stanno avviando progetti di ricerca in questo senso, nella convinzione che nell'arco dei prossimi 5-10 anni le prime "pitture viventi" saranno già in commercio.

Ma le protocellule non sono le sole a trainare l'avanzata dell'architettura vivente. Le alghe, ad esempio, diventeranno presto una componente abituale di diverse tecnologie 5. In questo caso, non si tratta tanto di costruire particolari performance cellulari, quanto piuttosto di inserirle nello spazio e nel tempo del contesto architettonico. Altre tecnologie su cui si punta molto sono i batteri bioluminiscenti, che verosimilmente rimpiazzeranno alcuni aspetti della nostra illuminazione esterna e domestica, una strada su cui sta lavorando anche la Philips 6. Alla domanda su se non stia guardando troppo in là, viste le condizioni non proprio smaglianti in cui versa l'economia mondiale, Armstrong risponde con un sorriso e citando uno dei suoi maestri, il poliedrico architetto futurista R. Buckminster Fuller. "Non è combattendo la realtà esistente che si cambiano le cose. Per cambiare qualcosa, è necessario costruire un nuovo modello che renda obsoleto quello esistente".



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(http://architettura24.com/archives/110)

Il compagno di Dalla e il velo dell'ipocrisia. - di Michele Serra





Con la compostezza, il dolore e la legittimità di un vedovo, il giovane Marco Alemanno ha reso pubblico omaggio al suo uomo e maestro Lucio Dalla in San Petronio, dopo l'eucaristia, se non rompendo almeno scheggiando il monolito di ipocrisia che grava, nell'ufficialità cattolica, sul "disordine etico" nelle sue varie forme, l'omosessualità sopra ogni altra.

È importante prenderne atto. Anche se è altrettanto importante sapere che fuori dalla basilica, nel denso, sconfinato abbraccio che i bolognesi hanno dedicato a Dalla, i suoi costumi privati non costituivano motivo di dibattito. Se non per lodare e rimpiangere la dimestichezza di strada e di osteria che Dalla aveva con "chiunque", il suo promiscuo prendere e dare parole, tempo e compagnia, la sua disponibilità umana. Ma dentro San Petronio la vita privata di Lucio, la sua omosessualità pure così poco ostentata, e mai rivendicata, creava un grumo che Bologna ha provveduto a sciogliere nella sua maniera, che è compromissoria, strutturalmente consociativa. Città rossa e vicecapitale del Papato, massonica e curiale, borghese e comunista. Un consociativismo interpretato al meglio (cioè senza malizia, per pura apertura di spirito) proprio da Dalla, che era amico quasi di tutti, interessato quasi a tutti. Non avere nemici è molto raramente un merito. Nel suo caso lo era.

In ogni modo si capisce che quel grumo, specie per una Curia che da Biffi in poi si è guadagnata una fama piuttosto retriva, non era semplice da gestire. Il vescovo non era presente, il numero due neppure, "altri impegni" incombevano e sarebbe infierire domandarsi quale impegno, ieri, fosse più impellente, per ogni singolo abitante della città di Bologna, di andare a salutare Lucio. L'omelia è stata affidata al padre domenicano Bernardo Boschi, amico personale del cantante, che non avendo zavorre istituzionali sulle spalle ha potuto e saputo essere affettuoso, rispettoso e libero, dunque prossimo alla città e ai suoi sentimenti.

L'ingrato compito di mettere qualche puntino sulle "i", per controbilanciare la quasi sorprendente "normalità" di una cerimonia così solenne, e insieme così semplice, nella quale il solo laico a prendere la parola, a parte il teologo Vito Mancuso, è stato il compagno di Dalla; quel compito ingrato, dicevo, se l'è caricato in spalla il numero tre della Curia, monsignor Cavina, che nel suo breve discorso introduttivo ha voluto ricordare che "chi desidera accostarsi al sacramento dell'Eucarestia non deve trovarsi in uno stato di vita che contraddice il sacramento". Concetto che, rivolto alla cerchia di amici di Lucio presenti in chiesa, e ai tanti "freaks" che affollavano chiesa e sagrato anche in memoria della dimestichezza che avevano con Dalla, e Dalla con loro, faceva sorridere: più che severo appariva pateticamente inutile, perché dello "stato di vita" delle persone, dell'essere canoniche o non canoniche le loro scelte amorose e affettive, a Lucio non importava un fico secco, né si sarebbe mai sognato, nelle sue recenti e purtroppo finali incursioni nella teologia, di stabilire se a Dio le scelte sessuali interessino quanto interessano a molti preti. 

Comunque - e tutto sommato è il classico lieto fine - il breve monito di monsignor Cavina a tutela dell'eucaristia e contro gli "stati di vita che contraddicono quel sacramento" (?!) è passato quasi inosservato e inascoltato. Come un dettaglio burocratico. Marco Alemanno ha incarnato in una chiesa, e in una cerimonia che più pubblica non si sarebbe potuto, tutta la dignità di un amore tra uomini. Semmai, c'è da domandarsi quanti omosessuali cattolici meno famosi, e meno protetti dal carisma dell'arte, abbiano potuto sentirsi allo stesso modo membri della loro comunità. L'augurio è che la breve orazione di Marco per Lucio costituisca un precedente. Per gli omosessuali non cattolici, il dettato clericale in materia non costituisce il benché minimo problema: francamente se ne infischiano. Ma per gli omosessuali cattolici lo costituisce, eccome. Ed è a loro, vedendo Marco Alemanno pregare per il suo uomo accanto all'altare, che corre il pensiero di tutte le persone di buona volontà.



http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/03/05/news/dalla_chiesa-30960004/?ref=HREC1-2