venerdì 8 maggio 2020

Buttadentro&fuori. - Marco Travaglio

Antologia della contrapposizione di Alessandro Bifulco a Piano ...

Analizzando i danni collaterali della polemica Di Matteo-Bonafede, ci è tornato alla mente il tormentone di Eduardo De Filippo in A che servono questi quattrini?: “E chi vi dice che sia una disgrazia?”. In effetti il battibecco fra ex pm e ministro potrebbe sortire almeno due effetti positivi. Il primo è l’improvviso coup de foudre per Di Matteo del centrodestra più Innominabile più house organ e giornaloni al seguito, che li costringe a parlare ogni giorno della sua inchiesta più importante, quella sulla trattativa Stato-mafia, approdata – com’è noto – due anni fa alle condanne in primo grado di tutti gli imputati per violenza o minaccia ai governi Amato, Ciampi e Berlusconi. Non se n’era mai parlato così tanto, nei due anni d’inchiesta e nei quattro e più di dibattimento (regolarmente ignorato o svillaneggiato), né all’indomani della sentenza. Dunque siamo certi che ora chi dà ragione a Di Matteo sul sospetto, tutto da dimostrare, di pressioni sul ministro Bonafede per la mancata nomina a capo-Dap, non mancherà di far conoscere ai suoi (e)lettori le pressioni mafio-istituzionali ampiamente dimostrate in quel processo. Già immaginiamo le puntate speciali di “Non è L’Arena: è Salvini” con letture intensive della requisitoria Di Matteo e della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, nonché le edizioni straordinarie di Repubblica, Corriere, Stampa, Giornale, Verità e Libero con tutte le carte del processo del secolo (chi fosse interessato può copiare i paginoni del Fatto di due anni fa).
Il secondo effetto benefico è che ora chi difendeva quei governi e quei ministri per aver trattato con la mafia “a fin di bene”, alleggerito il 41-bis e varato altre norme pro-mafia in ossequio al papello di Riina per “ragion di Stato”, farà senz’altro autocritica. Per un motivo di coerenza, cioè per rendere credibili le accuse sulle recenti scarcerazioni di mafiosi al ministro Bonafede, che peraltro non ha mai scarcerato nessuno e sulla mafia ha fatto (e ancora sta facendo) sempre e solo leggi anti, mai pro. Purtroppo la coerenza stenta ancora a farsi strada, dunque assistiamo a un gustoso paradosso: chi giustificava o minimizzava o ignorava la documentata trattativa Stato-mafia del 1992-’94 ora cavalca la falsa trattativa Bonafede-mafia del 2020. E attribuisce al ministro le ultime scarcerazioni, che invece sono farina integrale del sacco di circa 200 giudici. A parte il centrodestra, pieno di mafiosi e filomafiosi, che presenta mozioni di sfiducia contro Bonafede in nome dell’antimafia (quella di Dell’Utri, B.&C.), segnaliamo il neodirettore di Repubblica Maurizio “Sambuca” Molinari.
Ieri, con l’empito tipico del neofita, ipotizzava “una trattativa” (termine da lui mai usato prima, Usa e Israele a parte) “fra i boss e lo Stato” in corso oggi e domandava, restando serio, “se fosse vero che i boss hanno ottenuto di poter uscire per salvaguardare la loro salute, fino che punto il ministro della Giustizia e il presidente del Consiglio sono stati informati e hanno autorizzato? Interrogativi molto seri che hanno a che vedere con la sicurezza dello Stato”. Se chiedesse a qualche suo cronista, Sambuca apprenderebbe con gran sorpresa che le scarcerazioni le decidono i tribunali di sorveglianza, a meno che il governo non le abbia disposte per legge o per decreto. Ma Bonafede, nel dl Cura Italia, ha escluso i condannati per mafia dalla lista di quelli scarcerabili a fine pena in base alla legge Svuota-carceri Alfano del 2010. Purtroppo un gruppetto di giudici se n’è infischiato e ha messo fuori tutta quella bella gente in base al comico assunto che i detenuti in carcere, inclusi quelli sigillati al 41-bis, rischiano il Covid più di chi sta fuori, mentre la logica e i numeri dicono che è esattamente l’opposto.
Ma evidentemente il giureconsulto che consiglia Sambuca è quell’altro genio di Stefano Folli (il quale chiede le dimissioni di Bonafede “per responsabilità oggettiva” nelle “scarcerazioni di massa”, come se Tocqueville non fosse mai nato). Risultato: Repubblica ieri titolava in prima pagina “Boss, Bonafede ci ripensa” (non si sa rispetto a cosa, visto che non aveva mai detto di scarcerare mafiosi, anzi aveva decretato l’opposto). Il che deve aver aumentato fra i lettori l’imbarazzante sensazione di aver comprato per sbaglio il Giornale (“Bonafede si rimangia le scarcerazioni facili”), o La Verità (“La trattativa coi boss l’ha fatta Bonafede?”), o il Messaggero (“Frenata Bonafede”). Massima solidarietà al caporedattore Stefano Cappellini, che da mesi si dannava l’anima per spacciare Bonafede per un sadico carceriere per aver fatto le leggi che Repubblica aveva chiesto per vent’anni prima della tragicomica metamorfosi. Quando il Guardasigilli varò la blocca-prescrizione, Cappellini tuonò: “Calpestati i fondamenti di uno Stato di diritto degno di chiamarsi tale”, “giustizialismo”, “barbarie giuridica”, “tribunali dell’Inquisizione”. Ora vai a spiegare ai lettori che quel fottuto manettaro ha messo fuori, con la sola forza del pensiero, quasi 400 boss e forse sta pure trattando con la mafia. Qualcuno potrebbe domandare a Repubblica: ragazzi, l’abbiamo capito che ’sto Bonafede vi sta sul culo, ma siate gentili, diteci una volta per tutte se è un buttadentro o un buttafuori. Così, per sapere.