mercoledì 5 marzo 2014

Regolamenti, ecco che cosa blocca il Parlamento. E la democrazia. - Thomas Mackinson


Sono vecchi di mezzo secolo, prevedono ancora l'appello nominale, il voto per alzata di mano o con palline bianche e nere. Scandiscono i tempi d'aula su quelli del primo Novecento, quando i parlamentari raggiungevano Roma col treno a vapore. Le leggi d'iniziativa popolare restano al palo e viaggiano, tra mille intoppi, solo i provvedimenti dell'esecutivo.

A dispetto di una conflittualità sempre più scenica in Parlamento non si muove proprio nulla, al punto che le leggi d’iniziativa parlamentare approvate nel corso della XVII Legislatura si contano sulle dita di una mano. Tanta, del resto, è ormai la ruggine sulle assemblee legislative che per levarla non basta cambiare la Costituzione, abolire il Senato e neppure riformare la legge elettorale. Se il Parlamento è incapace di decidere e ogni scelta è ostaggio dei veti incrociati allora è da lì che bisogna cominciare, dai regolamenti parlamentari. Sono gli strumenti di autogoverno delle Camere a indicare le procedure di formazione delle leggi, il contingentamento dei tempi, le modalità del dibattito e del confronto tra maggioranza e opposizione, Governo e Parlamento. Forse in maniera sotterranea ma più penetrante ancora delle stesse previsioni costituzionali, queste procedure condizionano l’attività della fabbrica legislativa che ha smesso di produrre, dove il tempo si dilata all’infinito e tutto si perde, come lungo una conduttura bucata. A leggerli oggi sembrano piuttosto un elenco di riti formali e barocchi che il tempo ha trasformato in una sabbia finissima tra gli ingranaggi della democrazia parlamentare. Ed è un bel problema, visto che il nostro Parlamento pare sia il più dispendioso d’Europa e costi 27,15 euro l’anno a cittadino, 2,2 euro al mese in meno in busta paga.
Risalgono al 1971, quando Letta era all’asilo e Renzi non era ancora nato e l’ultima modifica è del lontano 1997, ormai cinque legislature fa. Ma mantengono norme che risalgono addirittura al Parlamento del Regno. Ancora oggi prevedono nelle commissioni la votazione con le palline bianche e nere (art. 49, comma 3) mentre siamo entrati nell’era digitale, della diretta streaming via web e della trasparenza (è successo ancora pochi giorni fa, in occasione della nomina del Presidente dell’Istat). Le anticaglie sono sparse ovunque, a partire dai tempi della fiducia al governo: prima che venga votata in aula devono passare almeno tre giorni da ché viene posta (art. 115), e quando a porla è il governo (art. 116) non prima di 24 ore. Perché aspettare tanto? Perché qualche era fa si doveva consentire ai parlamentari che risiedevano in altre regioni di raggiungere Roma in carrozza o coi trenini a vapore del primo Novecento. Un altro esempio di previsioni dei regolamenti ormai superate si ritrovano nell’organizzazione dei lavori. L’art.  23 comma 10 prevede ancora che il Parlamento si fermi una settimana al mese per consentire agli onorevoli di occuparsi dei loro “collegi elettorali” che sono stati aboliti da un pezzo. La norma sulla sospensiva no. 
Insomma tanta polvere copre ormai centinaia di articoli palesemente antistorici, ma piuttosto che levarla si fanno valere “prassi” e “interpretazioni” che – fatalmente – favoriscono la legge del più forte o la convenienza politica del momento. Lo si è visto, da ultimo, con l’ormai celebre “ghigliottina” che non è prevista alla Camera e tuttavia è stata calata sull’opposizione per interrompere l’ostruzionismo a una legge controversa (il decreto Imu-Bankitalia). E ancora prima con il dl Salva-Roma che il governo ha dovuto ritirare a 24 ore dalla fiducia perché appesantito da una pioggia di emendanti “fuori sacco” che ha irritato il Colle e rilanciato l’urgenza di una riforma dei regolamenti. E’ appena successo, poi, con una legge elettorale catapultata a Montecitorio da fuori, con accordi extraparlamentari e senza il vaglio degli uffici tecnici o un testo depositato, che in queste settimane sta faticosamente riprendendo la strada di un percorso parlamentare legittimo. Del resto era accaduto anche col voto palese sulla decadenza di Berlusconi: siccome non era previsto lo si è deciso con un voto a maggioranza che ha mandato su tutte le furie il centrodestra.
Ma contro queste decisioni, pur contestatissime e non sempre a torto, non c’è appello. Perché – sempre a proposito di retaggi – i regolamenti sono insindacabili dall’esterno, non rientrano cioé nella categoria di “leggi e atti con forza di legge” su cui la Corte Costituzionale possa pronunciarsi a seguito di ricorso. “Un problema non secondario”, avverte l’esperto di diritto parlamentare Stefano Ceccanti (Pd) “perché se vogliamo rafforzare la capacità di programmazione del governo e della maggioranza attraverso i regolamenti dovremmo anche tutelare l’opposizione inserendo la previsione costituzionale del ricorso preventivo alla Corte”.
Il governo prende sempre il Frecciarossa (e abusa dei suoi poteri)I regolamenti, innanzitutto, non garantiscono tempi certi ai progetti del Governo che finisce per abusare della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia. L’esecutivo usa il decreto-legge che entra subito in vigore e vi è una spinta a convertirlo in sessanta giorni. Spinta, non garanzia, dato che alla Camera i decreti-legge non vedono mai contingentato il tempo di approvazione secondo una fase definita “transitoria” nei regolamenti ma che dura dal 1997. “Ma in Italia si sa, non c’è nulla di più definitivo del transitorio”, dice Ceccanti. E le prescrizioni del regolamento, fatalmente, se ne vanno a ramengo. L’art 24. comma 3 dispone ad esempio che all’esame dei disegni di conversione dei decreti-legge è destinata non più delle metà del tempo complessivamente disponibile. Una previsione sistematicamente trascurata, visto che nelle ultime settimane il Parlamento ha lvorato solo su decreti legge (Imu, Carceri, Destinazione Italia, Mille proroghe…).
Per blindare i provvedimenti di legge c’è poi la questione di fiducia. Nasceva come momento di verifica politica tra Governo e Parlamento, è diventato il lasciapassare procedurale per qualsiasi misura che si vuol approvare senza proposte emendative.  In 10 mesi Letta l’ha posta 9 volte su provvedimenti di legge e cinque volte su mozioni, perpetuando la prassi dei governi precedenti (Berlusconi e Monti nella XVI legislatura la posero ben 77 volte). Per il neonato esecutivo di Matteo Renzi è ancora tutto da vedere. Stesso discorso per la procedura d’urgenza (art. 69) che il governo (o 10 deputati) utilizza non per il carattere emergenziale dei provvedimenti, ma per assicurarsi l’approvazione in tempi certi. I parlamentari sanno che quelli sono gli unici treni che potrebbero arrivare a destinazione e si esercitano in Commissione a rendere più obesa possibile la legge di conversione con micro-emendamenti localistici e lobbistici. E il Governo, pur di portare a casa i contenuti originari, accetta di buon grado. E la “qualità della legislazione”, lato governo e lato parlamento, affonda.
In realtà esisterebbe la possibilità di accelerare l’iter di un provvedimento assegnandolo alla commissione competente con modalità redigente, ma non avviene quasi mai e la vera fase istruttoria di una legge si fa in aula, dove per vedere la luce servono però tempi lunghissimi: per una prima lettura di un decreto-legge al Senato sono previsti 30 giorni, alla Camera 52. Peccato, allora, che si voglia abolire il primo e non la seconda. Ad azzoppare le leggi contribuisce poi il gran valzer degli emendamenti (art. 114) che fioccano a centinaia, fiaccando il ruolo istruttorio dei lavori parlamentari, stravolgendo i testi e dilatando all’infinito l’esame degli articoli in approvazione. Nel primo anno della XVII legislatura ne sono stati presentati qualcosa come 28mila. Le commissioni che dovrebbero esaminarli “in via principale” non lo fanno e finiscono per diventare un luogo di transito verso l’aula, dove il lavoro ricomincia da capo e si duplica, dilatando i tempi. Sul disegno di legge per l’abolizione delle Province in commissione Affari Costituzionali, ad esempio, sono piombati 800 emendamenti, una cinquantina quelli approvati, 750 i bocciati. Ma gli stessi sono rispuntati in aula a distanza di 48 ore. “E’ un automatismo che va contro il buon senso della legislazione perché vanifica il ruolo istruttorio delle commissioni e appesantisce il lavoro dell’aula che dovrebbe essere solo una limatura”, spiega Gianclaudio Bressa che sta lavorando a questi aspetti nella giunta per il regolamento. 
Per contro il regolamento lascia pochi spazi di controllo del Parlamento sull’esecutivo, a partire dal sindacato ispettivo. E’ il caso del “question time” (art. 135) che dovrebbe essere un momento di verifica senza paracadute per il governo e si è ridotto a una farsa. Da regolamento prevede la presenza del premier (o del vice) due volte al mese per rispondere personalmente alle interrogazioni dei deputati (per prassi il mercoledì alle 15) ma non succede mai. Il capo del governo elude serenamente l’impegno lasciando l’incombenza ad altri (solitamente ministri o funzionari). Il confronto si risolve poi in una finzione a favor di telecamere: giorni prima il ministro interessato riceve le domande per iscritto e ha tutto il tempo di presentarsi in aula con un foglietto di risposta preparato dagli uffici, mentre il deputato che ha sollevato la questione avrà già in mano la controreplica con cui prolungare la diretta tv. In altre parole il question time all’italiana non mette mai in seria difficoltà il governo: è tutto finto, studiato, preventivato. E intanto solo un terzo delle 7mila interrogazioni depositate da inizio legislatura ha trovato risposta da parte del governo, per le interpellanze urgenti (art. 136) solo 25 su 206. Alla faccia dell’urgenza. 
Il filibustering professionista delle opposizioniChi conosce meglio i regolamenti parlamentari, da sempre, è l’opposizione. Non potendo incidere nella discussione e sulle proposte di legge fa una scienza delle anticaglie procedurali che poi usa, strumentalmente ma legittimamente, per allungare il brodo, prender tempo e rimandare il voto su provvedimenti che non gradisce. Si chiama filibustering, e in Parlamento è ormai uno sport professionistico dalle tante specialità. A partire dagli ordini del giorno (art. 88), gli impegni che l’aula vota nei confronti del governo. Nelle previsioni originali servivano a razionalizzare e qualificare il dibattito parlamentare, di prassi non vengono minimamente considerati perché non hanno alcuna cogenza legislativa, tuttalpiù vengono accettati dal governo come una raccomandazione. Eppure hanno uno straordinario successo: nella X legislatura (1987-1992), per dire, ne furono presentati 802, nell’ultima quasi 10mila (9.995), in quella attuale (10 mesi) siamo già a quota 3.790. In Parlamento ci sono ormai più ordini del giorno che giorni. E il motivo è uno solo: ciascun parlamentare che li presenta può parlare per 5 minuti a scopo illustrativo e per altri 5 sulle intenzioni di voto. Dieci minuti, per 600 deputati, possono fare la differenza per rallentare la discussione. “Sono una routine utile solo a dare tempo all’opposizione”,  spiega Antonio Leone, per due volte membro della Giunta del regolamento. Non è poi escluso che per ciascuno si avvii una discussione perché altri deputati possono intervenire con dichiarazioni di voto in dissenso o consenso, avendo altri 10 minuti a testa. E non è finita. Un ordine ritirato da un esponente della maggioranza può essere proditoriamente fatto proprio da uno dell’opposizione, così, tanto per allungare la discussine.
Così gli interventi in aula (art. 39) sono un’arma letale contro il tempo. “Il nostro regolamento prevede tempi d’intervento del secondo scorso e non c’è Parlamento in Europa che ne abbia di analoghi”. Al Bundestag, per dire, parlano per massimo 15 minuti, nel congresso dei deputati spagnoli per 10. Da noi, secondo il regolamento, il parlamentare può andare avanti mezz’ora che raddoppia (un ora!) se la discussione verte su mozioni di fiducia. “Il problema – spiega Leone – è che alla fine gli interventi diventano, nel migliore dei casi, momenti meramente oratori, nel peggiore strumenti di ostruzionismo che distorcono e sviliscono il ruolo del dibattito”. Manca poi un “filtro” ai maxiemendamenti (art. 79 comma 10) e agli emendamenti sostitutivi che non abbiano una consequenzialità logico-normativa rispetto alla materia principale trattata (una previsione limitata ai soli decreti-legge). E sono in buona compagnia. Le mozioni (art. 110) – oltre 500 quelle depositate in meno di un anno – possono essere un altro strumento di “filibustering”: le presenta praticamente chiunque, bastano 10 deputati o un presidente e cioè meno dei componenti necessari a formare un gruppo parlamentare e spesso a scapito del peso “politico” e a vantaggio di istanze personalistiche, parziali, elettorali.
La volontà popolare aspetta sempre. La trasparenza, pureIn questa dinamica bulimica e perversa qualcosa, fatalmente, resta fuori e si perde. Su tutto la volontà popolare, quella benedetta in Costituzione ma non nei regolamenti. Delle 28 leggi d’iniziativa popolare presentate da inizio legislatura non una finora è stata calendarizzata. Il motivo? L’articolo che le disciplina non fissa un termine per la discussione. E così finiscono nel nulla insieme alle petizioni (art. 33). Sono istituti antichi, previsti come espressione della volontà dei cittadini e il regolamento vuole che se ne dia lettura almeno una volta al mese e che vengano trasmesse alle commissioni competenti perché ne tengano conto in caso di elaborazione di testi pertinenti rispetto al loro oggetto. “Finiscono in un cassetto, non vengono mai prese in considerazione”, confida un parlamentare di lungo corso. Del resto non vanno lontano neppure le proposte che arrivano dagli stessi parlamentari. Lo dimostra la statistica degli “stati non  conclusi” della scorsa legislatura: alla scadenza del quinquennio su 9.572 proposte di legge depositate quasi 6mila erano assegnate ma senza che la discussione fosse mai iniziata, 1.411 erano ancora in fase d’esame, 529 ancora da assegnare. Procedimenti conclusi e leggi approvate?  Soltanto 37 (trentasette!).  
Tra gli anacronismi del regolamento spiccano poi le disposizioni in materia di pubblicità dei lavori e di trasparenza. Nell’era di Internet e del multimediale il mezzo di pubblicità prevalente, specie per le commissioni, è ancora la pubblicazione dei resoconti e degli atti parlamentari in formato cartaceo. Eppure l’art. 64 della Costituzione afferma – senza distinguere l’Assemblea dagli altri organi parlamentari – il principio della “piena pubblicità delle sedute”. Ebbene nelle commissioni la “pubblicità” si risolve in resoconti “sommari” e non c’è alcuna rendicontazione delle presenze dei componenti e dei voti espressi. “Manca una parte essenziale dell’informazione necessaria per seguire e verificare l’esercizio della rappresentanza proprio nei passaggi deliberativi, quando i singoli deputati contribuiscono attraverso la loro presenza, i loro interventi e le loro decisioni a impostare, preparare e formare le leggi”, spiega il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (PD) che su questo ha presentato a gennaio una specifica proposta di modifica al regolamento (scarica). Non è tutto.
Le audizioni formali, cioè pubbliche, possono riguardare solo ministri e dirigenti preposti a settori della pubblica amministrazione. Per il regolamento possono essere pubbliche solo le audizioni di ministri e dirigenti preposti a settori della pubblica amministrazione. “Una ristrettissima platea”, spiega Greorio Gitti (Per l’Italia) che sta lavorando a questo tema. “Sono esclusi, ad esempio, i rappresentanti di società a partecipazione pubblica e gli esponenti di enti e organismi pubblici di diritto privato a partecipazione pubblica, pur essendo di rilevante interesse pubblico”. E fu così che dal 1979 non sono pubbliche le audizioni dei candidati a nomine governative sulle quali le commissioni sono chiamate a esprimere parere parlamentare. Solo nel 2012, in occasione delle elezioni dei componenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e del Garante per la protezione dei dati personali, è stata poi prevista la possibilità di inviare alla Presidenza della Camera i curricula da mettere a disposizione dei deputati. Ma nessuna pubblicità ne è stata data sul sito del Camera. “Chiaro che così facendo – dice Gitti – se non c’è trasparenza,  non c’è responsabilizzazione delle forze politiche né condivisione con i cittadini delle opzioni e delle nomine effettuate”. E questo era chiaro. 
La riforma delle regole che riapre lo scontroQualcosa potrebbe cambiare. Dallo scorso giugno a Montecitorio si sta istruendo una riforma dei regolamenti e delle procedure parlamentari (scarica i testi). I testi depositati dopo sette mesi tentano una manutenzione generale tramite correttivi parziali su tempi e modi del procedimento legislativo, attività di indirizzo e controllo, programmazione dei lavori, disciplina delle discussioni e tempi di intervento. Si tengono però alla larga da nodi spinosi e cruciali, come la disciplina della formazione dei gruppi parlamentari (art. 14) che facendo proliferare piccoli gruppi sganciati dal mandato elettorale alimenta la transumanza (o la compravendita) e l’instabilità del quadro politico. La regola dice che per formare un nuovo gruppo serve un minimo di 10 senatori e 20 deputati, ma sono ammesse deroghe per i partiti che hanno presentato un simbolo alle elezioni in tutta Italia (come Fratelli d’Italia, composto di soli 8 deputati) e passaggi individuali a un diverso partito da quello d’elezione (un centinaio nella scorsa legislatura). Le modifiche proposte aprono però anche un nuovo, durissimo, fronte di lotta, in particolare coi Cinque Stelle che denunciano l’ennesimo tentativo di imbavagliare l’opposizione contingentando tempi e strumenti a sua disposizione e istituzionalizzando la ghigliottina. Il deputato Danilo Toninelli (M5S), in particolare, ha preso parte ai lavori della giunta ma non ne ha condiviso i risultati finali. E nella convinzione che ad azzoppare la “centralità del Parlamento” non siano i regolamenti vecchi ma la litigiosità della maggioranza ha depositato una diversa proposta di riforma (scarica). Difficile dire come finirà, anche perché molto dipende dall’esito delle altre riforme costituzionali che si muovono su binari paralleli e altrettanto incerti. I testi elaborati dovranno essere votati a maggioranza assoluta perché – sempre a proposito di regole arcaiche – così vuole l’art. 64 della Costituzione che, all’epoca, intendeva sottrarre al Re e al Senato la possibilità di modificare le regole di funzionamento e formazione delle leggi. Il Re d’Italia è sparito nel 1946 ma sopravvive, come un fantasma, nei regolamenti parlamentari.