sabato 10 settembre 2011

I 5 Stelle rilanciano il Parlamento pulito Beppe Grillo porta in piazza il “cozza day”. - di Luigina D'Emilio



“Tutti in fila indiana, silenziosi ed ordinati”. Queste le prime parole che Beppe Grillo pronuncia ai manifestanti di piazza Navona, arrivati da tutta Italia per il “Cozza day”. Come un gran cerimoniere, corredato di maglia tricolore, il comico genovese si rivolge a una piazza che da stamattina ha invaso la Capitale per protestare contro la manovra del governo e il silenzio sulla legge ‘Parlamento pulito’, 350mila firme che giacciono in Senato dal 2007. Per evitare che sieda in aula chi ha condanne penali e chi ha già fatto più di due mandati.

Una “v” umana per mandare a quel paese il Parlamento. E’ iniziato così, con quattro flash-mob itineranti in luoghi simbolo di Roma, appunto, il “Cozza day”, il giorno contro le “cozze parlamentari abusive” organizzato dal Movimento 5 Stelle. Dal Colosseo, al Campidoglio, a piazza di Spagna, fino a piazza del Popolo, la protesta prende forma con slogan e cartelloni, il tutto condito dai cori dei manifestanti che attaccano la Casta dei politici. La scelta della lettera “v” è anche in memoria del V-day
 di tre anni fa, spiegano gli organizzatori: “Da allora non è cambiato nulla in questo Paese e, se è possibile, la situazione peggiora di giorno in giorno, con l’aggravante di un totale disinteresse nei confronti dei cittadini, di quello che hanno chiesto a gran voce con la legge di iniziativa popolare che è finita a fare la muffa nelle aule del Senato”.



A srotolare un lungo striscione con la scritta “a casa i molluschi”, durante il presidio di piazza di Spagna, molte persone che quella proposta di legge l’avevano firmata e che oggi portano per le vie di Roma la loro indignazione. Spiega Silvana di Nicolò mentre dà il via all’ultimo flash-mob della mattina: “La legge porcata di Calderoli fu approvata dal governo Berlusconi nel 2006, gli successe Prodi che in due anni non la cambiò, e neppure ci provò. Nessuno protestò. Ora, invece di portare la legge Parlamento pulito in discussione al Senato, gli stessi che non hanno mosso un dito quando erano al governo, propongono un referendum abrogativo che non risolverebbe nulla”. Anche se il porcellum venisse abrogato, chi ha condanne penali potrebbe rimanere comunque in Parlamento assieme a chi ha già superato i due mandati.

Piazza Navona è stata trasformata per l’occasione in una grande agorà pubblica delimitata da tre tagli di stoffa, lunghi 12 metri l’uno che formano la bandiera italiana. Tante le scritte in giro che ricordano anche le lotte del Movimento 5 Stelle, come i cartoncini che fanno bella mostra delle poltrone parlamentari posizionate sotto la lunga bandiera. Ecologia, informazione, acqua pubblica, onestà, queste le parole che si ripetono con più frequenza e questi i messaggi che i manifestanti porteranno oggi a Montecitorio. Da Piazza Navona, infatti, dopo l’attesissimo intervento di Grillo, è partita una lunga processione, in fila indiana, fino alla sede della Camera, dove ogni manifestante ha deposto una cozza simbolica in un grande cesto davanti la porta di accesso della Camera. Perché come ha spiegato Grillo, “la deposizione della cozza a Montecitorio è un esercizio catartico, simbolico. Servirà per purificare l’aria, per respirare profondamente e guardare in alto verso l’eterno cielo azzurro. Le cozze stanno formando una muraglia. Un groviglio di mitili avariati attaccati allo stesso scoglio”. E per chi volesse, carta e penna per la ricetta dell’impepata di cozze parlamentari.

Standing ovation, quando la politica si mischia alla satira con un Grillo che, da un palco improvvisato inizia il comizio show mostrando una grande rete con migliaia di cozze dentro: “Neanche Pinochet, o il generale Franco avrebbero agito così nascondendo le firme di 350 mila cittadini. Avrebbero almeno come intelligenza dato una risposta. Ricordando che i militanti del 5 Stelle non sono un movimento politico ma un’idea collettiva coadiuvata dalla rete per lottare assieme su dei progetti”.
(video di Irene Buscemi e Paolo Dimalio)



Nessun governo e il paese va. La formula magica del Belgio.




I partiti incapaci da oltre un anno di trovare un’intesa. Ma amministrazione ed economia funzionano.

C’è un paese nel cuore di quest’Europa sofferente che se la cava meglio degli altri. Il suo deficit pubblico è in netto miglioramento: era del 4,6 nel 2010, è del 3,6 nel 2011, sarà del 2,8 nel 2012. La sua crescita è superiore alla media: nel 2010 era stata del 2 per cento contro l’1,7 della zona euro, nel primo trimestre di quest’anno è stata dell’1 per cento contro lo 0,8 e il trend continua. Crolla la Grecia, trema l’Italia, persino la Francia sente franare il terreno sotto i piedi e la Germania cammina sulle uova. Ma il Belgio no, offre cifre virtuose e comportamenti diligenti. Quelli della Standard&Poor’s sono frustrati: avevano pronto il pollice verso, ma hanno dovuto rimettere la mano in tasca. Qual è il segreto del Belgio? Semplice, vien da dire: è senza governo dalla bellezza di 452 giorni. Una vacanza di potere che neanche l’Iraq dopo la guerra, che ce ne mise 289 per formare un esecutivo. Il Belgio è dunque acefalo, ma non per questo paralizzato. Nessun ictus istituzionale, nessuna paresi della macchina pubblica, nessun meccanismo fuori controllo. Le pensioni vengono regolarmente pagate, le immondizie puntualmente (quasi) raccolte, i malati normalmente curati e rimborsati, l’ordine pubblico decentemente garantito. I treni sono un po’ in ritardo, ma questo da sempre. Che il buon governo corrisponda a nessun governo?

In verità un governo c’è, guidato dal signor Yves Leterme. Sta lì dal 13 giugno del 2010, che fu giorno di elezioni politiche. Avrebbe dovuto curare gli “affari correnti” per qualche settimana in attesa di un esecutivo pienamente politico, figlio legittimo delle urne. Come si sa, la situazione s’imballò: nelle Fiandre il partito separatista fiammingo N-Va aveva sfiorato il 30 per cento, e gli altri non trovavano un punto di mediazione. Mentre Yves Leterme fungeva da “reggente”, si apriva un negoziato parallelo che dura tuttora, affidato all’intelligenza politica di Elio Di Rupo, socialista vallone di origini italiane. Sotto la sua guida, ogni tanto si ritrovano attorno ad un tavolo otto leader di partito. Senza fretta, per carità.
La settimana scorsa, per esempio, la riunione è saltata perché il verde Jean Michel Javaux, che è anche sindaco dell’amena cittadina di Amay, doveva imperativamente partecipare al consiglio comunale: si trattava di votare l’acquisto di una nuova macchina per i vigili e di un nuovo computer, mica bubbole. Di Rupo ha ancora una mesetto per concludere. Dopodiché, o partorisce un nuovo esecutivo di cui sarà il primo ministro (il primo vallone francofono da 32 anni a questa parte, e anche il primo omosessuale dichiarato al vertice di un paese europeo), oppure si torna alle urne.

Come si vede, non è che manchi il governo in senso stretto. Manca piuttosto il gioco politico dei partiti, confinato da un anno e mezzo nella stanza degli otto leader. Di conseguenza manca il conflitto parlamentare in tutta la sua gloria, che in Italia conosciamo bene. La reggenza di Yves Leterme sarà anche un vulnus per la democrazia belga, ma comporta alcuni vantaggi. Primo: le spese ministeriali sono ridotte al minimo. Secondo: il primo ministro reggente lavora al riparo dalle baruffe parlamentari tra valloni e fiamminghi, può quindi operare in base al buonsenso e non al punto minimo di mediazione. Terzo: lo stesso Leterme è esentato dall’adozione di misure di carattere elettoralistico, e ha potuto presentare una finanziaria non inquinata (per intendersi, priva di assatanati emendamenti localistici o corporativi: anche questi in Italia li conosciamo bene).

Nel contempo il premier può svolgere senza patemi i compiti di competenza del governo federale, reggente o meno che sia: ha presieduto l’Unione europea nel secondo semestre dell’anno scorso, e ha anche spedito qualche F-16 in Libia con l’approvazione unanime del parlamento.Esteri e difesa, infatti, come la sicurezza sociale, il 95 per cento della fiscalità, gli indirizzi economici, le telecomunicazioni, insomma tutto ciò che tocca l’“interesse nazionale”, è di competenza del governo centrale. Il resto, è bene sapere, è affidato ad altri cinque governi, regionali e comunitari. È il federalismo che tiene in piedi il corpaccione belga, o quantomeno che gli assicura un’agevole sopravvivenza da 452 giorni. Non lo mette al riparo, invece, da una possibile evaporazione statuale e politica di tipo jugoslavo, pur in assenza di conflitto armato. Evitarlo sarebbe compito delle forze politiche, per ora in naftalina. Ma questa è un’altra storia, né amministrativa né contabile.



STRISCIONE Berlusconi la merda sei tu Via da questo paese..



Lui può offenderci, noi non gli possiamo restituire la "cortesia"

Berlusconi, le voci e i timori sul "colpo finale" dei magistrati. Il retroscena.







Passerà la mano, ma non ora. Perché non intende sottomettersi ai «diktat» della politica e delle procure, «che dal '94 sono all'opera per togliermi di mezzo».
Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.

I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.

Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».

All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.

Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».

Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.

Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...

Festa Pdl, Berlusconi all’attacco “Fermare strapotere toghe rosse”


Il Presidente del Consiglio a tutto campo dal palco di Atreju: "Non c'è nessuno al mondo che mi possa ricattare". Ma riguardo all'inchiesta di Napoli emerge l'intenzione del premier di "sottrarsi e non riconoscere una certa giustizia italiana"
Il voto espresso dalla volontà popolare viene puntualmente abrogato dai magistrati. Dal palco di Atreju, la festa dei giovani del Pdl, il Presidente del Consiglio torna ad attaccare il potere giudiziario: “I cittadini sono depositari della sovranità popolare; i cittadini votano e col voto passano la sovranità popolare al Parlamento e ai suoi membri. I membri del Parlamento votano, ma il risultato del loro voto viene abrogato dalla magistratura”. Questo perchè, ha continuato il premier,  ”ogni volta che viene approvata una legge, se questa “non piace a Magistratura Democratica, politicizzata e di sinistra, viene mandata alla Corte Costituzionale a maggioranza di sinistra e viene puntualmente abrogata”.
Nel suo lungo intervento Berlusconi parla, tra le altre cose, anche dell’inchiesta della procura napoletana secondo cui sarebbe stato vittima di estorsioni di denaro da parte del direttore deL’Avanti! Valter Lavitola e dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini che gli avrebbero garantito in cambio il loro silenzio sul giro di escort a palazzo Grazioli. Alla troupe televisiva che gli ha domandato se avesse timore per il suo coinvolgimento, ha risposto: “No, non c’è nessuno al mondo che mi possa ricattare”.  Però la sua intenzione, rispetto all’audizione fissata per martedì con i pm partenopei titolari dell’inchiesta, è quella di “sottrarsi, di non riconoscere la validità dell’inchiesta e una certa giustizia italiana”. “Non ho alcuna voglia di incontrare questi signori e di rispondere alle loro domande”, avrebbe detto il presidente del Consiglio ad alcuni interlocutori, aggiungendo anche la sua volontà di “denunciare in sede internazionale l’atteggiamento della magistratura italiana e l’abuso delle intercettazioni nel nostro Paese, la mancanza del rispetto della privacy, la ‘barbarie’ di spiattellare conversazioni private sui giornali”.

Poi bolla come “sfogo personale” le parole emerse dalla telefonata con Lavitola in cui aveva definito l’Italia “un paese di merda”, e offre una rettifica sostenendo che la penisola è “il paese più bello”. “A volte vorrei scappare -ha aggiunto – ma resto per cambiare il Paese. Abbiamo davanti 18 mesi e dobbiamo essere in grado di fare la riforma dell’architettura istituzionale, della giustizia e quella fiscale”.

Un assetto nuovo al sistema giudiziario è, secondo Berlusconi, necessario perché “è difficilissimo fare qualcosa di concreto in un sistema che non dà nessun potere a chi è alla guida del governo”. In questi anni il premier sostiene di aver sentito un “senso d’impotenza drammatico”. Ciononostante, sul suo operato finora appare sicuro di sé, e a chi gli chiede se ritiene di aver commesso errori, replica: “Non c’e’ nulla che io cambierei. Forse qualche volta ho esagerato in ironia, ma mai con offese brutali come quelle rivolte dai nostri oppositori. Quando mi guardo allo specchio non ho niente di cui rimproverarmi”.  L’ipotesi di un governo tecnico per il premier “fa ridere” : “Non vedo tecnici autorevoli quanto me – ha detto – non avrebbero nemmeno l’autorità per imporre i ministri”.

Quanto alle misure messe sul campo dal governo per fronteggiare la crisi economica, si difende sostenendo che la manovra è il frutto delle indicazioni fornite dalla Bce e da Bankitalia “nella lettera che ci hanno chiesto di mantenere riservata”. E poi i problemi del Paese sono il frutto degli errori della vecchia politica:  ”è una pesantissima eredità che ci viene dagli anni ’70 fino al ’92” , sono stati i governi del compromesso storico a generare il debito pubblico”, ha detto. La decisione di introdurre il pareggio del bilancio in Costituzione, invece, è un “record assoluto”, visto che l’ultimo pareggio “è stato raggiunto dal presidente del Consiglio Marco Minghetti nel 1876″.

E’ un Berlusconi a tutto campo quello che parla dal palco dell’Azione Giovani. Tra i vari temi, affronta anche quello della politica estera. Sui rapporti con Gheddafi nega che l’Italia si sia inchinata al raìs. “Io baciavo la mano a Gheddafi non come atto di sottomissione, ma di educazione” ha detto, sostenendo anche che è grazie alla sua “capacità di relazione” con il Colonnello che il Paese ha potuto consolidare la sua presenza in Libia, “importante per le forniture di gas e olio”. Ma la rivolta libica attualmente in corso è, secondo il premier, diversa rispetto a quella degli altri Paesi del Nordafrica “dove un vento di libertà inizia a soffiare”. A Tripoli, ha detto Berlusconi, “uomini di potere hanno deciso di dare vita a un’altra era facendo fuori Gheddafi”. Poi ha offerto al pubblico un ricordo dei momenti immediatamente precedenti all’intervento al fianco della Nato contro il dittatore: “quando si trattò di decidere, prima del vertice di Parigi, pensai addirittura di dimettermi, perché tra me e Gheddafi si era instaurato un sentimento di amicizia. Ho molto sofferto nel vedere come si comportava ma poi ho dovuto prendere le decisioni sulla base di ciò che era stato deciso dal Capo dello Stato e dal Parlamento e anche considerando che lui stava attaccando e decimando il suo popolo”.

Sempre sul piano della politica estera, si dice deluso anche dall’esito della vicenda riguardante l’estradizione del terrorista Cesare Battisti. UN caso sul quale, per il premier, non è ancora detta l’ultima parola: “Eravamo riusciti a instillare profondi dubbi nella Corte suprema di giustizia brasiliana, consideravo di aver convinto il presidente Lula, che invece nel suo giorno ultimo di governo ha dato ascolto ai sondaggi”, ha spiegato. Ma poi ha aggiunto che potrebbero “accadere delle cose che possono portare a modficare la situazione. Noi lavoreremo a questo riguardo”.

Il presidente del Consiglio offre poi uno sguardo sul futuro. Anzitutto quello del partito: rassicura la platea dei suoi supporter sul fatto che l’esecutivo ”è coeso e arriverà a fine legislatura”. E dopo? Su una sua ricandidatura rivela che deciderà solo alla scadenza del mandato. Ma due nomi li fa:Angelino Alfano come suo erede al Consiglio dei Ministri e Gianni Letta come possibile Capo dello Stato. “Sono due persone che stimo sopra gli altri”, ha affermato. E se il futuro per eccellenza sono i giovani, è a questi che il premier si rivolge, in chiusura, con un consiglio: ”prima di diventare professionisti della politica siate protagonisti nella vita come cittadini, manager e imprenditori. Se non si lavora si è staccati dalla realtà”. E soprattutto: “Lunga vita a voi e me: la medicina attualmente ci dà la possibilità di vivere fino a 120 anni. Approfittatene, approfittatene”.



D’Alema è un "nobiluomo" del Vaticano Il vice conte Max emblema della sinistra snob.




La scoperta: il leader Pd è "nobiluomo" del Vaticano dopo aver richiesto invano un titolo superiore. Tre benemerenze in sei anni: così il "compagno" è diventato un nobile. Idealizzava una società senza classi, ora si ritrova in business class. Da anni la sinistra è un susseguirsi di yacht, case chic e lussi...


Il «conte rosso» per antonomasia è sempre stato Luchino Visconti. L’idea che ora possa esserlo Massimo D’Alema è di sicura impronta marxiana: la storia, ammoniva il gran barbuto di Treviri, quando si ripete è sempre una farsa. Il Fatto pubblica delle foto del conte Max, allora ministro degli Esteri, infracchettato e superdecorato in un’udienza papale del 2006: più che il diavolo e l’acqua santa è una specie di Miseria e nobiltà: al posto del principe di Casador c’è un N.H. con i baffi, l’Ordine Cileno, la Legion d’Onore di Francia e, fresco di nomina pontificia, lo stellone di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Piano sul petto. Voleva il titolo più alto, lui. Quello di conte. Ma non sapeva che il Vaticano lo riserva ai capi di Stato.
Così si è dovuto «rassegnare» a essere solo un vice. Ma, a conti fatti, vice conte val bene una messa. Si ignora se avesse ai piedi le famose e costose scarpe di cuoio fatte a mano scoperte qualche anno prima presso un calzolaio calabrese, e se sul «Tevere più largo» dell’intesa fra Stato e Chiesa ci fosse arrivato in barca a vela. Si può escludere, visto il rigido protocollo e l’assenza dello chef Vissani, che ci sia stato il tempo per una risottata catto-comunista nella foresteria vaticana.
Abbiamo convissuto per anni con l’idea che i «compagni» fossero persone serie, pericolose proprio perché convinte delle loro idee. Eravamo giovani e quindi eravamo ingenui: non avevamo capito che sotto il vestito rosso non c’era niente, bastava invitarli a pranzo o portarli dal sarto e la rivoluzione sarebbe finita lì.
Da anni ormai la sinistra è un susseguirsi di yacht, merchant bank dove non si parla inglese, vigneti e abiti griffati. Ci siamo abituati ai vellutini di Fausto Bertinotti e ai foulard di Achille Occhetto, agli sloop di 60 piedi di SuperMax, alle piccole Atene di Capalbio (o era Cetona? Ah, saperlo), alle tenute agricole nelle Langhe care a Cesare Pavese, o nell’ubertosa Umbria da sempre cuore caldo della sinistra di lotta (ma dai) e di governo (ma sì). Ci siamo anche abituati all’idea di leader del comunismo che fu, pronti a giurare che loro, comunisti, non lo erano mai stati (Veltroni docet). Perché sorprenderci ora se li vediamo inseguire un titolo nobiliare? È vero: già Giovanni Giolitti sosteneva che un sigaro e una croce di cavaliere non si negavano a nessuno, ma quella era l’Italietta liberal-conservatrice, mica il «Paese normale» della retorica progressista...
Diceva Chateaubriand che l’aristocrazia passava per tre età successive: «L’età delle qualità superiori, l’età dei privilegi, l’età delle vanità. Uscita dalla prima, degenera nella seconda e si spegne nell’ultima». La sinistra è divenuta aristocrazia senza averne i meriti e accontentandosi dei difetti: perpetua i privilegi, è superbamente vanitosa. Da tempo non rappresenta più nulla, ma ha imparato a farlo con sussiego e prosopopea: la «diversità», la «questione morale», la «parte sana» eccetera, eccetera.
È una sinistra con la puzza sotto il naso, il mutuo cospicuo in banca e il contratto da rinnovare in Rai, o presso qualche ente, o presso qualche grande editore, sempre indignata e sempre sofferente, per anni convinta di doversene andare, sdegnata, in esilio: il clima si era fatto invivibile, la democrazia non c’era più. Naturalmente è ancora qui.
Si dirà: non c’è niente di male a volere un po’ di ricchezza, a sognare un’ascesa sociale, a inseguire un quarto di nobiltà... Ci mancherebbe: dalla società senza classi alla business class può anche essere un programma politico. Basta saperlo. Male che vada, voli Freccia alata, giri il mondo e bombardi la Serbia. È per questo che fin dall’infanzia ci si iscriveva alla Direzione del Pci.


"Inganno Globale", di Massimo Mazzucco



Il film-inchiesta italiano di Massimo Mazzucco, il responsabile di Luogocomune.net.

L'atto di accusa contro tutte le incongruenze, assurdità e bugie che i media e le inchieste ufficiali stanno offrendo al pubblico da quel lontano settembre 2001. Nessuna teoria della cospirazione, nessuna fantasiosa ricostruzione, ma solo una serie di domande che nessuno ha mai voluto porre prima ed a cui nessuno ha voluto mai rispondere.



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https://www.facebook.com/notes/mario-scarpanti/2-tutto-quello-che-avreste-sempre-voluto-sapere-sull11-settembre-2001-ma-che-non/10150315270915909


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