sabato 25 settembre 2021

Giorgetti “caccia” Morisi e conta le truppe al Nord. - Giacomo Salvini

 

La “bestia” - Numeri social crollati con Draghi.

Di vittime, politicamente, ne hanno già mietute due. Entrambe eccellenti. Prima Claudio Durigon scaricato con un’alzata di spalle da Giancarlo Giorgetti (“Al governo bisogna stare attenti a quando si parla”) e dal silenzio dei governatori. E adesso Luca Morisi, spin doctor di Matteo Salvini e ideatore della “Bestia” social della Lega. Dietro l’addio del 48enne guru social del Carroccio ci sono sicuramente motivazioni personali (questa è la versione ufficiale) ma anche di più: un certo disagio sull’ambiguità della linea “di lotta e di governo” del Carroccio, ma soprattutto l’ostracismo dell’ala governista che non sopportava più i modi di fare e la comunicazione da populista della porta accanto di Morisi. “Quando si sta al governo non si può comunicare tutto e subito come all’opposizione”, spiega un parlamentare vicino a Giorgetti.

Che Morisi fosse finito in mezzo anche allo scontro tra Salvini e Giorgetti lo si era capito anche nelle ultime settimane. Raccontano che, durante i primi Consigli dei ministri dell’èra Draghi, 4-5 membri della squadra della comunicazione di Morisi si spostassero al ministero dello Sviluppo economico mentre Giorgetti partecipava alle riunioni a Palazzo Chigi. Un modo per coordinare la comunicazione leghista durante i Cdm e far uscire sulle agenzie, sui siti e sui social cosa stava succedendo in chiave leghista. A marzo e aprile, alla vigilia dei Consigli dei ministri, il Mise diventava una succursale di via Bellerio: i funzionari del ministero in diverse occasioni si sono visti arrivare Salvini spesso accompagnato dai suoi fedelissimi tra cui Durigon, in quel momento di casa al Tesoro. Quando però ad agosto, tra Salvini e i ministri si è rotto qualcosa sui primi decreti Green pass, con la sconfessione della linea del segretario, tutto si è fermato: Giorgetti ha imposto che in via Veneto non entrasse più nessuno della squadra di Morisi e della comunicazione della Lega. Secondo qualcuno, nelle ultime settimane, c’erano state anche delle frizioni tra Salvini e Morisi: il guru lamentava di non essere “più ascoltato” dal segretario. Di certo c’è che i numeri della “Bestia” – un sistema editoriale in grado di automatizzare i contenuti delle pagine “Matteo Salvini”, “Lega” e “Noi con Salvini” – negli ultimi sei mesi avevano risentito dell’effetto Draghi. La macchina si era inceppata e i numeri sono crollati: in quanto a crescita dei follower, Salvini è stato superato da Giuseppe Conte (più un milione contro i 700 mila del leghista) e tallonato da Giorgia Meloni a 600 mila. Le interazioni settimanali si sono dimezzate passando da 10 milioni a 5 mentre è stato sorpassato dalla leader di FdI sull’engagement (3,5 a 7,6%) e sulle interazioni per post (0,3 a 1,2%). Tutto questo nonostante in due anni la “Bestia” sia costata 400 mila euro al partito.

E così, dopo Durigon e Morisi, l’ala governista guidata da Giorgetti e dai governatori – Zaia, Fontana e Fedriga – può rivendicare un altro successo. Ma non si fermerà qui ed è già pronta a chiedere i congressi dopo le Comunali. Un primo assaggio arriverà oggi da Varese, feudo del ministro dello Sviluppo economico, dove si terranno gli “Stati Generali” della Lega Lombarda. Un appuntamento pre-elettorale, ma anche un modo per organizzare le truppe del nord Italia: oltre a Giorgetti ci sarà Fontana, Garavaglia, Centinaio e Locatelli. Ai 200 sindaci leghisti lombardi spiegheranno cosa sta facendo il governo nazionale. Un modo per iniziare a contarsi e rivendicare che la linea della Lega non è quella di Salvini, ma la loro. Il leader non ci sarà e manderà solo un saluto. Intanto anche Luca Zaia manda segnali: i suoi uomini stanno mettendo all’indice i 10 salviniani veneti che nei giorni scorsi non hanno votato in aula sul Green pass. Una frattura che difficilmente si ricomporrà.

ILFQ

Due grandi uomini.

 

Straziante, ma vero...
Queste due persone sono morte per difendere la giustizia.
Ma le leggi fatte da uomini senza alcuna dignità hanno reso inutili le loro morti e hanno ucciso anche la Giustizia.
cetta

Il “fatto” sussiste. - Marco Travaglio

 

I nove decimi dei giornali e dei tg raccontano la sentenza d’appello sulla Trattativa senz’avere la più pallida idea di cosa dica. Infatti le fanno dire che la trattativa Stato-mafia non è mai esistita. Magari: almeno si spiegherebbero le assoluzioni dei tre carabinieri del Ros e di Dell’Utri. Invece non è così: infatti sono stati condannati il boss Bagarella e il medico mafioso Cinà. Le motivazioni sono lunghe e per capirle bisogna almeno leggerle: troppa fatica per i mafiologi della mutua. Ma i dispositivi sono brevissimi: questo è di due pagine. E lo capisce anche uno scemo: se “il fatto non sussiste”, vuol dire che non è successo niente (ma questa formula, nella sentenza, non compare mai); se “il fatto non costituisce reato” (com’è per Mori, Subranni e De Donno), vuol dire che il fatto è vero, ma non è illecito; se si legge “non aver commesso il fatto” (com’è per Dell’Utri), vuol dire che il fatto è vero, ma l’ha commesso qualcun altro.

Qual era il “fatto” alla base dell’accusa di “minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè ai governi Amato, Ciampi e B.? Questo: i boss, i tre carabinieri e Dell’Utri, con altri morti nel frattempo o rimasti ignoti, “usavano minaccia – consistita nel prospettare… stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni – a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Vediamo il ruolo dei quattro assolti. Il “fatto” addebitato ai tre ufficiali del Ros e confermato dalla sentenza è di aver “contattato, su incarico di esponenti politici e di governo, uomini collegati a Cosa Nostra (in particolare, Ciancimino… nella veste di tramite con uomini di vertice della predetta organizzazione mafiosa e ‘ambasciatore’ delle loro richieste)” per “sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia omicidiaria e stragista”; poi di aver “favorito lo sviluppo di una ‘trattativa’ fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall’altra, all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato”; infine di aver “assicurato il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano, principale referente mafioso della ‘trattativa’” ; così “agevolavano la ricezione presso i destinatari ultimi della minaccia di prosecuzione della strategia stragista” e “rafforzavano i mafiosi nel proposito criminoso di rinnovare la minaccia”. Il “fatto” contestato a Dell’Utri è di essersi “proposto e attivato”, subito dopo l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo ’92) “e in luogo di quest’ultimo, come interlocutore” del “vertice di Cosa Nostra per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”.

Non solo: Dell’Utri avrebbe “successivamente rinnovato tale interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di Ciancimino e di Riina, così agevolando il progredire della ‘trattativa’ Stato-mafia… quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista; agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia (portata da Mangano su mandato di Bagarella e Brusca, nda) presso alcuni destinatari e… favorendone la ricezione da Berlusconi” appena insediato a Palazzo Chigi. Quest’ultimo passaggio è l’unico “fatto” che la Corte ritiene non provato: è certo che i mafiosi gli fecero sapere quali favori pretendevano dal governo B. per mantenere la pax mafiosa, ma non che Dell’Utri ne avvertì B. Il quale quindi li favorì non perché fosse sotto ricatto, ma sua sponte.

I fatti che raccontiamo da anni sono dunque veri. E bastano e avanzano per un giudizio, se non penale, almeno politico, istituzionale e professionale non tanto su Dell’Utri (pregiudicato per mafia), quanto sui tre “servitori dello Stato” che trattarono con Cosa Nostra anziché combatterla. Non era reato? È la tesi della Corte. Ma che trattarono non c’è dubbio: infatti nel ’97, appena Brusca svelò la trattativa, anche Mori e De Donno la chiamarono così. Ora si dice che finsero di trattare in un’astuta operazione di infiltrazione per raccogliere informazioni e catturare Riina. E allora perché non avvertirono i pm né il vertice dell’Arma, non verbalizzarono e non pedinarono Cinà (il postino che portò a Riina i loro messaggi affidati a Ciancimino sr. e tornò indietro col papello) né Ciancimino jr. (il postino del padre)? Perché non perquisirono il covo di Riina? Perché non arrestarono Santapaola, scovato da un collega a Terme di Vigliatore? Perché non catturarono Provenzano, consegnato da un pentito a Mezzojuso? Buon per loro che siano stati assolti. Ma quei “fatti” restano: qualcuno vuole scoprirne il perché? Erano dei fessi incapaci o degli agenti deviati? La trattativa incoraggiò Cosa Nostra a uccidere Borsellino, la sua scorta e tanti altri innocenti nel ’93. La loro brillante attività investigativa produsse una catastrofe senza pari. Data anche l’età, nessuno vuol mandarli in galera. Ma, se passa l’idea che trattare con la mafia è lecito, o financo doveroso, perché mai un giudice dovrebbe condannare un mafioso a rischio della vita, anziché mettersi d’accordo? Perché un ufficiale dovrebbe catturare i mafiosi giocandosi la pelle, anziché lasciarli andare? Perché un negoziante dovrebbe rifiutare il pizzo ai mafiosi rischiando rappresaglie, anziché farci amicizia?

ILFQ

“Trattativa Stato-mafia, ma senza un reato”. Inchiesta “boiata”? Ecco quello che non torna. E cosa fecero governi di destra e di sinistra. - Giuseppe Pipitone

 

Per i quotidiani l’inchiesta di Palermo è stata una “boiata”. Ma la sentenza di ieri ha confermato quei rapporti tra ex Ros e boss. Nel caso degli agenti però non è un delitto, lo è solo per i mafiosi. Tutti i dubbi.

Una farsa. Anzi: una bufala. Di più: un teorema. Nel day after della sentenza di secondo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia i titoli di quasi tutti i giornali del Paese tradiscono una venatura di soddisfazione. Un sentimento che diventa palese nei commenti entusiasti di alcuni politici del centrodestra. In un dibattito mediatico estremizzato da vent’anni di veleni, spesso alimentati in palese malafede, le decisioni della corte d’Assise d’Appello sono diventate un assist perfetto per provare a radere al suolo qualsiasi pezzetto di verità giudiziaria precedentemente accertata. E che la stessa corte presieduta da Angelo Pellino, nonostante le assoluzioni, sembra confermare. Ma andiamo con ordine.

Per alcuni quotidiani, tipo La Verità, la sentenza di Palermo vuol che la Trattativa non esiste. E invece la decisione della corte d’Assise d’Appello di assolvere Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno perché il fatto non costituisce reato, vuol dire esattamente l’opposto: il fatto è stato commesso e il fatto è appunto aver interloquito con i mafiosi.

Bisognerà aspettare le motivazioni per capire se i carabinieri siano stati assolti perché nelle loro azioni non c’era dolo, e quindi non c’era la consapevolezza di trasmettere la minaccia di Cosa nostra allo Stato, innescando in Totò Riina la convinzione che le stragi fossero una strategia che pagava.

L’unico imputato che si è visto confermare integralmente la condanna di primo grado è Antonino Cinà, il mafioso accusato di aver fatto da “postino” del papello con le richieste di Totò Riina per far cessare le stragi. Secondo la maggior parte dei quotidiani la condanna di Cinà sommata alle assoluzione di Mori, De Donno e Subranni vuol dire semplicemente che trattare con la mafia non solo era una decisione lecita e legittima, ma addirittura auspicabile. Su questo punto sarà particolarmente interessante leggere le motivazioni, visto che i giudici del processo di primo grado avevano chiaramente scritto nero su bianco come non potesse “ritenersi lecita, in via generale, una trattativa da parte di rappresentanti delle Istituzioni con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa”.

Intanto, dopo mesi di religioso silenzio, ieri è tornato a parlare Marcello Dell’Utri, che a Repubblica è arrivato a dichiarare: “Nel governo di Berlusconi ci sono state solo leggi contro i mafiosi”. Ora: dall’assoluzione di giovedì s’intuisce che per la corte d’Assise d’Appello non c’è alcuna prova che l’ex senatore abbia trasmesso la minaccia mafiosa – stop alle stragi in cambio di leggi favorevoli a Cosa nostra – al governo del suo amico Silvio. In più a Leoluca Bagarella (condannato ieri a 27 anni), mandante di quella richiesta estorsiva tramite Vittorio Mangano, è stato derubricato il reato: da minaccia al governo Berlusconi a tentata minaccia.

Quindi per i giudici la richiesta estorsiva della mafia al primo esecutivo di Forza Italia non si è concretizzata. Resta da capire, dunque, per quale motivo il 13 luglio del 1994 il governo Berlusconi decise di varare il decreto Biondi, noto anche come “Salvaladri”: fece molto scalpore soprattutto perché venne considerato un provvedimento per salvare gli inquisiti di Tangentopoli e tra le polemiche decadde. Al suo interno, però, c’era pure una norma di cui non si accorse quasi nessuno: obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole.

Nell’agosto del 1995 sarà il governo tecnico di Lamberto Dini a varare un nuovo ddl, con i voti bipartisan di centrodestra e centrosinistra (contrari solo Verdi e Lega): tra le altre cose rendeva la custodia cautelare più breve e più difficile da applicare, l’arresto per reati di mafia da obbligatorio diventava facoltativo, la norma che prevedeva l’arresto in flagranza per testimoni reticenti veniva abolita. Insomma non esattamente “leggi contro i mafiosi”. Ma non solo. Perché le leggi pro mafia negli anni successivi alle stragi le hanno fatte tutti: la destra ma pure la sinistra. E a volte sono norme che somigliano molto a quelle del papello.

Nel 1996 al governo arriva l’Ulivo e Forza Italia va all’opposizione: ad agosto alcuni senatori del Ccd presentano un disegno di legge per consentire la dissociazione dei mafiosi. È uno dei passaggi del famoso papello di Riina, consegnato da Cinà. In quel pezzo di carta c’è anche un’altra richiesta: la chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara.

Desiderio esaudito nel 1997 dall’allora guardasigilli Giovanni Maria Flick. Alla fine della legislatura, siamo nel febbraio del 2001, il centrosinistra fa in tempo ad approvare la legge Fassino-Napolitano che riduce i benefici e gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, e impone loro di raccontare tutto quello che sanno entro sei mesi: non è l’abolizione dei pentiti, come chiedeva sempre Riina col papello, ma poco ci manca.

Il ritorno di Forza Italia al governo, è segnato poi dalla riforma del 41bis, che a dicembre si trasforma da misura straordinaria e provvisoria a stabile. Sembra una legge più severa e invece una volta stabilizzato il regime del carcere duro per mafiosi è pure più semplice da revocare. E negli anni successivi molti boss usciranno dal 41bis: tutto questo senza più sparare un colpo.

ILFQ

La beffa verde: lo sconto sulla bolletta diventa un sussidio a chi inquina. - Jacopo Giliberto

 

Prime contestazioni dal mondo ecologista: lo sgravio sovvenziona le energie fossili, chi inquina paghi. Il catalogo degli incentivi buoni e cattivi.

Sapete che in chiave ecologista lo sconto dell’Iva e degli oneri sulle bollette della luce e del gas è classificato come “sussidio”, e peggio ancora “sussidio ai fossili”?
Dicono : il rincaro dell’energia fossile è positivo, è l’obiettivo delle politiche climatiche, bisogna disincentivare ancora di più gli idrocarburi; il rincaro è effetto anche della valorizzazione della CO2 e della nuova sensibilità sociale che fa mancare gli idrocarburi e allontana dagli investimenti sui giacimenti. Dicono che invece questo sgravio sovvenziona le energie fossili, che sono causa della crisi climatica, e rallenta la transizione ecologica; chi inquina paghi.

Contro il decreto salvabollette i soliti brontoloni cominciano già a tempestare le piattaforme social con la gastrite ecologica dei sussidi che inquinano. Hanno ragione: secondo i criteri ecologisti di classificazione, il taglio dell’Iva per rendere meno pesanti le bollette del metano è davvero classificato come sussidio. Peggio. È un sussidio ambientalmente dannoso. Come sussidi ambientalmente dannosi sono classificati gli altri strumenti individuati giovedì 23 settembre dal Governo per rendere meno amari i rincari della corrente elettrica. Lo affermano alcuni criteri di classificazione.

Madamina, il catalogo è questo.

Il ministero dell’Ambiente — oggi della Transizione ecologica — aggiorna periodicamente il Catalogo dei Sad e dei Saf , cioè i Sussidi Ambientalmente Dannosi e i Sussidi Ambientalmente Favorevoli. La catalogazione di 171 voci nasce dal presupposto etico secondo l’effetto che viene attribuito sull’ambiente tra gli incentivi buoni da premiare (i Saf), le cattive sovvenzioni da punire (i Sad) oppure nel limbo dei sussidi ambietalmente incerti.

Per esempio, benzina e gasolio sono penalizzati da disincentivi fiscali pesantissimi ( circa il 200% rispetto al costo industriale ), ma il disincentivo che colpisce il gasolio è definito “sussidio” pari a 5,15 miliardi perché è un po’ meno severo dell’accisa che penalizza la benzina, ed è raggruppato fra quelli che danneggiano l’ambiente (il motore diesel emette meno CO2 ma più polveri fini rispetto al motore a benzina).

Che cosa dice il decreto salvabollette.

Che cosa ha deciso il decreto salvabollette? Per attenuare i rincari furiosi di gas ed elettricità sui mercati internazionali, il Governo ha stabilito di fare scendere dal 10% al 5% per i tre mesi d’autunno l’Iva sulle forniture di gas per «usi civili e industriali».

Per l’elettricità, sono alleggerite le bollette per le famiglie con redditi più bassi .

Per circa 6 milioni di piccolissime e piccole imprese con utenze in bassa tensione per 26 milioni di utenze domestiche con contatori fino a 16,5 chilowatt (quello classico di un appartamento è un contratto da 3 chilowatt) saranno azzerate le aliquote relative ad alcuni oneri generali di sistema.

L’altro vecchio e contestato sussidio sulla luce.

Già oggi è contestata la vecchia Iva agevolata al 10% sulla corrente elettrica delle famiglie, classificata come un sussidio del valore di 1,77 miliardi nel 2019.

Dice la scheda del censimento relativa all’Iva agevolata sulla bolletta della luce: «L’applicazione di un’aliquota ridotta dell’Iva sui prodotti energetici (elettricità, gas naturale, riscaldamento, petrolio e carbone) per uso domestico non incoraggia un uso efficiente/ridotto dell'energia, e la relativa produzione, distribuzione e uso domestico dell'energia possono avere un impatto negativo sull'ambiente in termini di emissioni di gas serra, acidificazione, esaurimento delle risorse energetiche non rinnovabili ecc».

Il contestatissimo sussidio sul metano, chi inquina paghi

Il censimento mette tra i sussidi dannosi anche la vecchia e ancora valida Iva agevolata al 10% sul metano, prevista da due norme diverse, cioè «Iva agevolata per somministrazione di gas metano usato per combustione per usi civili limitatamente a 480 metri cubi annui» e «Iva agevolata per gas metano e Gpl impiegati per usi domestici di cottura e la produzione di acqua calda».

Dice la scheda del censimento dei sussidi: «L’agevolazione incentiva i consumi gas di origine fossile. Essa fornisce un segnale di prezzo al ribasso, in controtendenza rispetto all'esigenza – comune a tutti i livelli di consumo di combustibili fossili – di promuovere un uso più razionale ed efficiente del gas. Oggi, infatti, sono disponibili tecnologie ambientalmente più sostenibili, come ad esempio il solare fotovoltaico per la cottura ad induzione di cibi e il solare termico per la produzione di acqua calda. L'agevolazione contrasta con un’equa applicazione del principio chi inquina paga».

I sussidi quelli buoni: gli 11 miliardi alle rinnovabili.

Al contrario nel censimento sono considerati Saf favorevoli all’ambiente i sussidi alle fonti rinnovabili di energia, classificate come «Incentivazione dell'energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico» (5,7 miliardi nel 2019) e come «Conto energia» per il fotovoltaico (5,86 miliardi).

IlSole24Ore

La revoca in meno di 24 ore del sequestro dell’inchiesta di Fanpage.it su Durigon: cosa è successo. - Adriano Biondi

 

La notizia, come ormai saprete, è che a meno di 24 ore dalla notifica del provvedimento la Procura di Roma ha fatto un passo indietro e, in tempi record, ci ha notificato la revoca del decreto di sequestro. Il modo in cui si è giunti a questo epilogo è paradossale e al tempo stesso molto preoccupante. Proviamo a spiegarvi cosa ci è successo.

Come vi stiamo raccontando, in queste ore ci troviamo nostro malgrado al centro di un caso piuttosto anomalo, determinato dalla decisione del Tribunale di Roma di procedere al sequestro preventivo e all’oscuramento dell’inchiesta Follow The Money di Fanpage.it, avente per oggetto i legami fra Lega e Ugl, nonché il ruolo dell’ex sottosegretario all’Economia del governo Draghi Claudio Durigon. Qui il direttore Francesco Cancellato aveva fatto il punto della situazione e segnalato le ragioni per cui ritenessimo il provvedimento del Gip del Tribunale di Roma profondamente sbagliate, ma anche potenzialmente lesive di diritti costituzionalmente garantiti. Non solo perché le norme di rango costituzionale tutelano la stampa da sequestri e censure, ma anche perché il reato di diffamazione non consentirebbe al giudice di effettuare sequestri preventivi. A nostro modo di vedere, inoltre, il decreto con il quale ci era stata notificata la decisione del Gip partiva da premesse errate, si basava su una conoscenza approssimativa dei fatti, saltava a conclusioni frettolose e non teneva conto delle peculiarità di un'inchiesta giornalistica. Dopo la nostra denuncia, abbiamo ricevuto la solidarietà di migliaia di lettori, di autorevoli esponenti politici, nonché il supporto dell'ordine dei giornalisti, della FNSI, di Articolo 21 e di tantissime altre associazioni e organizzazioni che si battono per la difesa della libertà di stampa e del diritto all'informazione. 

La notizia, come ormai saprete, è che dopo sole 24 ore la Procura di Roma ha fatto un passo indietro e, in tempi record, ci ha notificato la revoca del decreto di sequestro. Attenzione, non sfugga un particolare importante: la Procura ha fatto tutto da sola, noi non abbiamo presentato istanza di opposizione al sequestro, né abbiamo impugnato l'atto che ci era stato notificato. Ci siamo limitati a prendere atto della decisione del Gip e ad attendere che il Pm desse mandato alla postale per l'oscuramento dell'inchiesta (in modalità e tempi che neanche ci era dato sapere).

Invece, senza alcun preavviso, la postale ci ha notificato un nuovo provvedimento, firmato dalla Gip Claudia Alberti, dal procuratore della Repubblica Michele Prestipino Giarritta e dal procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli, con cui si dispone la revoca delle misure che ci erano state notificate solo 24 ore prima.

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Multe, bolli e tasse non pagate: così il condono cancellerà le vecchie cartelle. - Marco Mobili e Giovanni Parente

 

Il riferimento ai 5mila euro va fatto per singoli «carichi». Potranno essere annullate cartelle d’importo anche superiore se composte da più debiti

 punti chiave


Entra nel vivo la cancellazione automatica dei vecchi debiti con l’agente della riscossione per multe, bolli e tasse non pagate che si concluderà entro il 31 ottobre. Si tratta dei debiti che, al 23 marzo 2021, hanno un importo residuo fino a 5mila euro, affidati all’agente della riscossione dal primo gennaio 2000 al 31 dicembre 2010. Una chance riservata ai contribuenti persone fisiche (modello 730 e Redditi 2020) che hanno percepito nell’anno d’imposta 2019 un reddito imponibile fino a 30mila euro e agli enti (società di capitali, società di persone e enti non commerciali) che hanno conseguito, nel periodo d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2019, un reddito imponibile fino a 30mila euro. A fornire le istruzioni sul condono previsto dal primo decreto Sostegni (Dl 41/2021) è la circolare 11/E/2021 delle Entrate.

Il limite dei 5mila euro.

La circolare chiarisce che il limite di 5mila euro (inclusi capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni) va calcolato in relazione agli importi dei singoli carichi. Il rispetto del tetto va calcolato tenendo conto del capitale, degli interessi per ritardata iscrizione a ruolo e delle sanzioni, mentre restano esclusi dal calcolo gli aggi e gli interessi di mora e le eventuali spese di procedura. Tradotto in altri termini, una singola cartella di valore complessivo anche molto superiore potrebbe essere interamente stralciata - se ricorrono anche gli altri requisiti - qualora sia composta da singoli carichi fino a 5mila euro.

Compresi i debiti con la rottamazione.

La cancellazione automatica si applica anche ai debiti rientranti nella rottamazione-ter (Dl 119/2018) nel saldo e stralcio (legge di Bilancio 2019) e nella riapertura dei termini (prevista dal Dl 34/2019). Nella pagina dedicata del sito di agenzia delle entrate-Riscossione (Ader) è possibile verificare se i debiti ammessi alle predette definizioni agevolate possono essere oggetto di annullamento.

I redditi fino a 30mila euro.

I debiti che possono essere cancellati con il condono riguardano persone fisiche e soggetti diversi dalle persone fisiche che hanno conseguito, rispettivamente nell’anno d’imposta 2019 e nel periodo d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2019, un reddito imponibile fino a 30mila euro. Per le persone fisiche vengono considerate le Certificazioni uniche 2020 e le dichiarazioni 730 e Redditi Pf 2020 presenti nella banca dati dell’agenzia delle Entrate alla data del 14 luglio 2021. Per i soggetti diversi dalle persone fisiche si fa invece riferimento ai modelli dichiarativi Redditi società di capitali, Società di persone, enti non commerciali, nel cui frontespizio è indicato un periodo d'imposta che ricomprende la data del 31 dicembre 2019.

La consegna degli elenchi.

Per completare la cancellazione dei ruoli entro il 30 serrembre l’agenzia delle Entrate restituisce all'agente della riscossione l’elenco trasmesso entro il 20 agosto segnalando i codici fiscali relativi a soggetti che, sulla base delle dichiarazioni dei redditi e delle certificazioni uniche presenti nella propria banca dati alla data di emanazione del decreto attuativo, risultano avere conseguito redditi imponibili superiori ai 30mila euro prevista come soglia di sbarramento dal primo decreto Sostegni.

Cancellazione e fine della sospensione.

Entro il 31 ottobre saranno cancellati tutti i debiti dei contribuenti non inseriti tra i codici fiscali oltre i 30mila euro. Ma nel caso di ruoli intestati a più debitori, non saranno stralciate le cartelle se almeno uno risulta tra i codici fiscali segnalati alla Riscossione. Alla fine di ottobre cesserà anche la sospensione della riscossione coattiva per tutti i debitori con ruoli fino a 5mila euro. «L’agente della riscossione provvede in autonomia allo stralcio senza inviare alcuna comunicazione», spiega la circolare. Ma il contribuente potrà verificare che i debiti siano stati annullati consultando la propria situazione debitoria con le modalità rese disponibili dall’agente della riscossione.

IlSole24Ore