venerdì 9 novembre 2012

Per profumare e decorare l'ambiente!



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Senza titolo.



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Stato-mafia: l'atto d'accusa dei pm di Palermo. - Aaron Pettinari


tribunale-palermo-big1
Prima della partenza in Guatemala c'era un ultimo atto che il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia doveva compiere, scrivere assieme agli altri magistrati del pool, Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, la memoria del percorso investigativo (depositata ieri) che ha portato i pm a chiedere il processo per sei uomini dello Stato e sei capimafia, insieme sullo stesso banco degli imputati e per cui il gip Morosini dovrà decidere il rinvio a giudizio o meno.
Così in poco più di venti pagine, che riassumono 120 faldoni di prove, testimonianze, intercettazioni e documenti sono stati racchiusi quattro anni d'indagine. Viene quindi spiegato che il procedimento non ha per oggetto in senso stretto la trattativa in quanto nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato coinvolti.
Il quadro storico
L'analisi della Procura parte da quel che accadde nel 1989, analizzando la storia prima del crollo del muro di Berlino, dove “la grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale”. Dopo invece si determina “la fine della giustificazione storica della collaborazione con la grande criminalità”. Come era stato scritto, sempre dai pm di Palermo, nella grande inchiesta poi archiviata che prese il nome di “Sistemi Criminali” vengono messi in evidenza una serie di eventi, apparentemente lontani ma in realtà concatenati l'un l'altro.
La caduta del muro viene seguita “dall'eccesso di tassazione e l'utilizzazione distorta della spesa pubblica”, che provocò la “rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria” al Nord. Nel contesto vengono poi inserite le inchieste di Manipulite e persino Licio Gelli, che con la sua “inusuale collaborazione giudiziaria” contribuì alla “eliminazione politica” del ministro Martelli, “percepito come un ostacolo”. E' il momento della transazione dalla Prima alla Seconda Repubblica ed in questo complesso, quanto nebuloso, quadro di eventi Cosa nostra si inserisce in un piano di destabilizzazione devastante del quadro politico tradizionale.
Così viene messa in evidenza la “trama di una trattativa, sostanzialmente unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subito molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall'altra, allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese”.
L'obiettivo
Nella loro memoria i pm evidenziano come la trattativa “non è stata limitata a singoli obiettivi 'tattici', come la tregua per risparmiare gli uomini politici inseriti nella lista mafiosa degli obiettivi da eliminare, o l'allentamento del 41 bis e gli altri punti del papello, ma – assai più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall'altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l'Italia”. In particolare sono due le frasi che assumono un importante valore simbolico in questo contesto. La prima è quella di Salvatore Riina che spiega ai suoi soldati: “Dobbiamo fare la guerra allo Stato per poi fare la pace”. L’altra è del boss Leoluca Bagarella: “In futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle”. “L'obiettivo strategico – spiegano i pm - è costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché fosse Cosa Nostra ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l'ingresso della mafia in politica, tout court”.
Così i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e il “postino” del papello Cinà, rappresentano “gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima”.
Primo atto
Il primo passaggio chiave è rappresentato dall'omicidio dell'eurodeputato della Dc, emblema dei vecchi referenti politici delle cosche, all'indomani della sentenza definitiva del maxiprocesso a Cosa Nostra. E' in questo momento che secondo i pm scatta la prima fase di quella “scellerata trattativa” tra lo Stato e la mafia. E' il via ad una guerra i cui protagonisti sono “i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e il postino del papello Antonino Cinà, autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia a un corpo politico dello Stato, in questo caso il governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima. L’avvio di una campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell’epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi”. Un sistema violento quanto pratico per ricercare un nuovo soggetto col quale venire a patti.
Secondo la ricostruzione dei pm al tavolo delle trattative “sedevano” inizialmente “Salvatore Riina, all'epoca capo assoluto del sodalizio mafioso, mentre, da parte dello Stato, venne condotta da alcuni alti ufficiali dei Carabinieri ovvero il comandante del Ros, generale Antonio Subranni, il suo vice, colonnello Mario Mori, e il capitano Giuseppe De Donno, a loro volta investiti dal livello politico (in particolare dal senatore Calogero Mannino, all'epoca ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco), che contattarono Vito Ciancimino – a sua volta in rapporti con Riina per il tramite di Antonino Cinà – nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista”. Così, secondo i pm, viene prospettata la minaccia “agli uomini-cerniera (ovvero i politici come Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri in un secondo momento, e i carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno n.d.r) perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del governo, l’organizzazione e l’esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra”.
Cambio al vertice
I pm spiegano come nelle indagini compiute “è sicuramente emerso che chi condusse la trattativa fece un’attenta valutazione: il Ministro dell'Interno in carica Vincenzo Scotti era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre Mancino veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia Parisi”.
Del resto il quadro si era aggravato rispetto all'omicidio Lima in quanto aveva fatto seguito la strage di Capaci. “È il momento in cui irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali. Ed invero, anche l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, percepito anche lui come un ostacolo alla trattativa, finisce per essere politicamente eliminato (anche per effetto di un'inusuale collaborazione giudiziaria del capo della P2 Licio Gelli) più in là nel ’93, quando si tratta di ammorbidire il 41 bis. E nello stesso contesto temporale, viene tolto di scena anche il capo del Dap Nicolò Amato, ritenuto inizialmente un possibile strumento utile e inconsapevole della trattativa per il suo acceso garantismo, ma poi diventato inaffidabile, anche per avere messo inopinatamente nero su bianco (in una sua nota del 6 marzo 1993 indirizzata al neo-ministro Conso) che Parisi aveva espresso “riserve” sull’eccessiva durezza del 41 bis, a margine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica del 12 febbraio 1993”.
Secondo atto
Nel 1993, durante il governo “tecnico” presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, la trattativa sembrò inizialmente non produrre gli esiti sperati e si generò il bisogno di dare una nuova scossa al dialogo. Così la mafia fa sentire la propria voce a suon di bombe con le stragi di Milano, Roma e Firenze. “Stragi che - scrivono i pm - questa volta produssero qualche frutto: l'allentamento dei 41 bis ai boss con la mancata proroga di oltre 300 decreti di applicazione del carcere duro, costituì un segnale di disponibilità ad andare incontro ai desiderata di Cosa nostra, lanciando quel 'segnale di distensione', peraltro letteralmente auspicato nella Nota che il Capo del Dap Capriotti indirizzava al Ministro della Giustizia Conso il 26 giugno del '93”. Ed è in questa momento che la trattativa arriva a toccare i più alti vertici istituzionali (accusati nella memoria della Procura di “amnesia collettiva”). 
Nel reato commesso dai padrini - la violenza a Corpo politico dello Stato perpetrata con le bombe - concorrerebbero, secondo i magistrati, anche l'allora capo della polizia Vincenzo Parisi, il vicedirettore del Dap Francesco Di Maggio (entrambi morti) che, ''agendo entrambi in stretto rapporto operativo con l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul 41 bis''.
La Procura scrive inoltre che l'allora Capo dello Stato “ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti Scotti-Mancino e Martelli-Conso, e nella sostituzione di Nicolò Amato col duo Capriotti-Di Maggio, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993”.

Terzo atto
Si arriva così al 1994 quando, secondo il quadro ricostruito dalla Procura, la ricerca di Cosa nostra di un nuovo soggetto politico arriva al punto e il patto si salda.
Infatti l'allentamento sul fronte carcerario, con alcune significative mancate proroghe di regime ex 41 bis nei confronti di boss mafiosi di assoluto rango, non poteva esaurire l'iter della trattativa. “Ed è per questa ragione che le minacce di prosecuzione della stagione stragista non si arrestarono e proseguirono fin tanto che, subentrata la Seconda Repubblica ed insediatasi una nuova classe politica dirigente con la quale 'trattare', all'ultima minaccia portata al neo-Governo Berlusconi tramite il canale Bagarella-Brusca-Mangano-Dell’Utri, seguì la definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia”. “Si completò, in tal modo - concludono i pm - il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell'Utri-Berlusconi, come emerge dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori Spatuzza, Brusca e Giuffrè”.
Il fondatore di Forza Italia, così come gli altri capi di governo, non risponde di alcun reato; semmai è considerato parte lesa, in quanto vittima del ricatto. Al contrario, i sospetti intermediari istituzionali (i parlamentari Mannino e Dell'Utri, e i tre ex carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno) “sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia” in quanto avrebbero svolto “il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un'estorsione. Con l'aggravante che il soggetto “estorto” è lo Stato e l'oggetto dell'estorsione è il condizionamento dell'esercizio dei pubblici poteri”. Su Mancino e Conso, accusano i pm, “si è acquisita la prova di una grave e consapevole reticenza”. Il primo sulla sua nomina a ministro dell'Interno e sulla consapevolezza dei contatti tra i carabinieri e Vito Ciancimino; il secondo sulla decisione di non prorogare alcuni decreti “41 bis” nell'autunno 1993. Tuttavia Conso, con l’allora Direttore del Dap Adalberto Capriotti e l’onorevole Giuseppe Gargani sono tuttora “soltanto” indagati per false dichiarazioni al pm, esclusivamente in ossequio alla previsione di legge che impone il congelamento della loro posizione in attesa della definizione del procedimento principale.
La testimonianza di Ciancimino jr fondamentale per rompere il silenzio
Un ruolo chiave nella vicenda lo ha sicuramente avuto il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa per il suo ruolo permanente di tramite fra il padre e Bernardo Provenzano. Nonostante sia imputato anche di calunnia aggravata, e per questo definito anche “fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca” viene indicato come “testimone privilegiato dei fatti” le cui testimonianze hanno “consentito di ricostruire genesi, dinamiche ed esito dei contatti intercorsi fra i capi di Cosa Nostra e i rappresentanti delle Istituzioni”. Inoltre gli viene riconosciuto il merito di avere risvegliato la memoria assopita di tanti “testimoni eccellenti” e alti esponenti delle Istituzioni del tempo, i quali, “solo dopo esser venuti a conoscenza delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, sono stati finalmente indotti a riferire, per la prima volta, circostanze che avevano a lungo taciuto e che, una volta inserite nel mosaico probatorio, evidenziavano in modo più chiaro uomini, protagonisti e complici della trattativa”.
Una “forma di grave amnesia collettiva”, durata vent'anni, “che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile '92-'93, quanto meno di fronte alle risultanze (anche di natura documentale) che confermavano l'esistenza di una trattativa ed il connesso – seppur parziale - cedimento dello Stato, tanto più grave e deprecabile perché intervenuto in una fase molto critica per l'ordine pubblico e per la nostra democrazia”.


DOCUMENTO La memoria dei Pm (scarica)

Fratelli d’Itaglia. By ilsimplicissimus.




Fratelli d’italia
l’Italia s’è chiesta
se accender le stufe
o fare la questua.

Cos’è questa storia?
Il fetido aroma
che giunge da Roma
il Grilli creò

Fratelli d’Italia
l’Italia funesta
di tecnici intenti
a fare la cresta

Cos’è questa storia?
Che l’inno si canta
col sette e quararanta
L’Italia schiattò

Stringiamci che gela
e il popolo bela
il popolo bela
l’Italia schiattò

Finto cieco da 26 anni scoperto e denunciato in Calabria.



Inseriva chiave in serratura casa e salutava persone con nome.

Un finto cieco è stato scoperto dai carabinieri in provincia di Reggio Calabria. Si tratta di un uomo di 69 anni che è stato denunciato ed al quale i carabinieri hanno sequestrato la somma di 145 mila euro pari alla pensione percepita dall'Inps dal 1986. L'uomo, nonostante risultasse cieco assoluto, era solito pulire il marciapiede adiacente della sua abitazione. I carabinieri insospettiti da questo particolare hanno deciso di pedinare il finto cieco effettuando le relative riprese dei suoi spostamenti giornalieri.
Dai controlli è emerso che l'uomo girava per il paese in piena autonomia con disinvoltura e naturalezza, senza bisogno di accompagnatori. In alcuni casi, tornando a casa, dopo aver fatto la spesa, salutava persone chiamandole per nome ed arrivato davanti al portone d'ingresso della propria abitazione, inseriva tranquillamente la chiave nella serratura senza neanche aver bisogno di occhiali.
Dalla certificazione medica, invece, risultava che il pensionato non avrebbe potuto svolgere nemmeno le più elementari attività quotidiane.
Stamane i carabinieri hanno notificato al finto cieco un decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso dal giudice delle indagini preliminari di Locri che ha accolto la richiesta della locale procura della Repubblica per un importo pari pari a 145 mila euro pari alle somme illecitamente percepite da quando gli è stata concessa la pensione e l'indennità di accompagnamento.

Agrigenti libera - Giuseppe Arnone


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Processo Ruby, cinque Olgettine: “Silvio ci dà ancora 2500 euro al mese”.


Elisa Toti


Berlusconi continua a pagare le ragazze delle “cene eleganti” di Arcore. Elisa Toti, Aris Espinoza, Ioana Visan, Marysthelle Polanco e Eleonora De Vivo confermano: "Ci dava un aiuto allora e ce la dà anche adesso". La soubrette dominicana: "Me li dà perché sono passata da puttana".

Le ultime, di oggi, sono Elisa Toti, Aris EspinozaIoana Visan, Marysthelle Polanco. Prima di loro, durante l’inchiesta, erano state Nicole Minetti Imma ed Eleonora De Vivo. Ma ci sono stati di recente anche Mariano Apicella e Danilo Mariani. Sono alcuni testimoni del processo Ruby bis, nel quale sono imputati Nicole MinettiEmilio Fede e Lele Mora con le accuse di induzione e favoreggiamento della prostituzione minorile (in un processo parallelo Silvio Berlusconi è imputato di concussione e prostituzione minorile). Dalla Toti a Mariani hanno tutti una cosa in comune: il Cavaliere durante l’inchiesta e il processo sulle “cene eleganti” di Arcore li ha pagati, in un modo o nell’altro. Oggi gli ultimi nomi di una lista che sembra non finire mai. Durante l’udienza al tribunale di Milano Elisa, Aris, Ioana e Marysthelle, tutte Olgettine, hanno dichiarato di continuare a ricevere tra i 2000 e i 2500 euro al mese dall’ex premier. 
Elisa: “Mi aiutava prima e mi aiuta anche adesso”Berlusconi mi aiutava prima e mi aiuta anche adesso dandomi 2500 euro al mese con dei bonifici” ha rivelato la Toti, una delle ragazze che hanno preso parte alle serate di Arcore, che ha deposto come testimone nel processo sul caso Ruby che vede alla sbarra. In aula anche Aris Espinoza, l’ex showgirl che ha dichiarato di ricevere la stessa somma da Berlusconi.  
L’ex presidente del consiglio, stando a quanto dichiarato dalla Toti, l’avrebbe aiutata “prestando una garanzia per l’acquisto di una casa e mi sta aiutando anche a pagare la fidejussione di quella casa”. Nel 2010 Berlusconi le avrebbe anche regalato un’automobile, una Mini. Al pm Antonio Sangermano, che le ha chiesto se avesse mai fatto sesso a pagamento con Berlusconi, la Toti ha risposto seccamente: “Mai, non sono una prostituta“. Ha poi detto di aver visto Ruby ad aprile 2010, a villa San Martino, “ma non mi venne presentata, l’ho guardata perché non l’avevo mai vista prima. Era nuova”. 
La Toti ha spiegato che lavora come presentatrice a Mediaset e che in precedenza ha lavorato nella redazione del Grande Fratello e in Publitalia. Rispondendo alle domande del pm ha raccontato che dal gennaio 2011, ossia dalle perquisizioni in via Olgettina dove anche lei aveva una casa, ha iniziato a ricevere i 2500 euro al mese da Berlusconi. Ha raccontato inoltre di avere visto l’ex premier che nel corso di alcune serate ad Arcore “dava denaro in contanti in buste” ad alcune ragazze. Tuttavia, ha aggiunto, “escludo che fossero soldi dati per attività sessuali, ma erano un aiuto, lui ha sempre aiutato tutte”. Ha inoltre spiegato che aveva detto “al dottor Berlusconi” che aveva bisogno di un appartamento “e lui mi ha messo in contatto con la Minetti. Io avevo portato anche i soldi per la caparra, ma non sapevo che l’appartamento di via Olgettina l’avrebbe pagato lui, era, credo, un favore personale”.
Aris: “6500 euro da B.? Non me lo ricordo”Anche Aris Espinoza, un’altra delle ragazze che avrebbero partecipato ai presunti festini a luci rosse di Arcore ha dichiarato di beneficiare della stessa somma di denaro dall’ex premier: “Sì, ricevo ancora aiuti dal presidente. Non ho più contratti con Mediaset e Berlusconi mi dà un aiuto con un bonifico di 2500 euro al mese”. La Espinoza, interrogata sulle serate ad Arcore le ha descritte come cene tranquille, dove “poi le ragazze si spostavano nella sala-discoteca” e, nel corso di queste feste, non avrebbe mai visto “scene a luci rosse” tra l’ex capo del governo e le sue ospiti.
Il pm ha contestato alla testimone una intercettazione del 20 settembre 2010, dopo una serata ad Arcore, nella quale la ragazza parlava con il suo fidanzato di 6.500 euro che aveva ricevuto. Sangermano le ha chiesto: “Sono 6500 euro presi da Berlusconi?”. E lei: “Non me lo ricordo, posso non ricordarmi una cosa?”. A quel punto è intervenuta la presidente del Collegio Annamaria Gatto, ricordandole che “la reticenza è equiparata alla falsità”. Così la ragazza ha aggiunto: “Non ricordo esattamente, sicuramente parlavo di soldi, ma non penso che me li abbia dati Berlusconi”. Sangermano: “Allora sono piovuti dal cielo?”.  La testimone: “Può darsi”. Così il pm ha ribattuto: “Allora lei mi sta prendendo in giro”. La Espinoza, in precedenza, aveva anche detto di non avere mai avuto rapporti sessuali a pagamento con Berlusconi, di avere sempre pagato da sola le bollette e l’affitto dell’appartamento in via Olgettina e di avere avuto solo “aiuti” da Berlusconi.
Ioana: “Paga le mie spese dell’università”Anche Ioana ha spiegato di di percepire una sorta di assegno mensile: “Mi dà sui 2.000 euro al mese che poi sono le mie spese per l’Università”.  Senza contare i regali extra come quando nel 2010 l’ex premier le avrebbe dato “10.000 euro per il mio onomastico”. La ragazza ha raccontato che durante le serate ad Arcore Berlusconi dava “buste di contanti, a volte da 2.000 e a volte da 5.000 euro” alle ospiti, ma questi soldi “ non erano un corrispettivo per atti sessuali”. Anche lei come Toti e Espinoza ha “abitato in via Olgettina, pagava il presidente ed era Nicole Minetti a fare da tramite e a gestire un pò questa situazione”. La testimone poi ha raccontato che nel corso di alcune serate a Villa San Martino “Nicole parlava male di Ruby, diceva che era una scappata di casa e una tr…”.
Marysthelle e Eleonora confermano. La Polanco: “E’ perché sono passata per puttana”
Infine Marysthelle Polanco e Eleonora De Vivo: “2500 euro al mese” hanno confermato davanti al tribunale. “Prendo 2500 euro al mese – ha detto Polanco – perché conosco Silvio Berlusconi, perché ho una bambina e perché dopo lo scandalo sono passata per una puttana”. Il processo è stato rinviato al 23 novembre.
Le case di Apicella e del pianista di ArcoreNon è la prima volta che emerge che Berlusconi continua a pagare testimoni verbalizzati dalla Procura durante l’inchiesta o da magistrati e avvocati durante il dibattimento. All’inizio delle indagini, nei primi mesi di quest’anno, l’Uif aveva segnalato alla Procura i movimenti bancari per 127mila euro in 4 bonifici a Nicole Minetti (che poi è finita imputata) e le sorelle Imma ed Eleonora De Vivo, la cui deposizione è in programma oggi in tribunale. Ma proprio durante l’ultima udienza, a fine ottobre, era arrivata la conferma di come sia Mariano Apicella (lo “stornellatore” preferito da Berlusconi) sia Danilo Mariani (il pianista di Arcore) avevano venduto le proprie case (non proprio delle regge) dalle società immobiliari riconducibili proprio al Cavaliere. 
Tarantini, Lavitola, la casa di Dell’Utri sul lago di Como
Ma il pagamento dei testimoni (che l’ex presidente del Consiglio e i suoi avvocati hanno sempre definito come gesti di “generosità”) non è una prerogativa solo di questo processo. Anche Tarantini e Lavitola, per esempio, avrebbero usufruito delle “generose” elargizioni durante le inchieste sulle escort di Roma. Ma non solo: i pm di Palermo hanno aperto un’inchiesta sull’acquisto – ritenuto anomalo sotto il profilo del prezzo – di una villa di Dell’Utri sul lago di Como. Secondo i magistrati siciliani potrebbe essersi trattato di una presunta tentata estorsione: secondo l’impostazione dei magistrati, l’acquisto della villa sarebbe servito a “comprare” il silenzio sui presunti rapporti tra Berlusconi e i clan mafiosi.

Legge elettorale, Schifani: "Si fa o M5S va all'80%". Grillo: "E' golpe"



Roma - (Adnkronos/Ign) - Il presidente del Senato si mostra ottimista su un accordo per la riforma del 'Porcellum': "I partiti con grande responsabilità stanno facendo in modo che il provvedimento arrivi presto in Aula. Ce la facciamo, se no Grillo altro che al 30%''. E il leader del Movimento 5 stelle dal suo blog attacca: l'inserimento del "tetto del 42,5% per il premio di maggioranza per impedire a tavolino la possibile vittoria del M5S e replicare il Monti bis" è un "colpo di Stato".
Roma, 9 nov. (Adnkronos/Ign) - Alla fine la legge elettorale si farà, anche perché ''altrimenti altro che 30%, Grillo arriva all'80%''. Parola del presidente del Senato Renato Schifani che aggiunge: ''Spero che il mio ottimismo in breve si trasformi in certezza. Ci sono dei notevoli margini per pensare che a breve si possa arrivare ad un'ampia intesa tra le forze parlamentari'', spiega Schifani.
''Tra i partiti - dice il presidente del Senato - c'è una fase estremamente delicata e costruttiva. I partiti con grande responsabilità stanno facendo in modo che il provvedimento arrivi presto in Aula. I tempi sono brucianti - ha concluso Schifani - ma i partiti se ne stanno facendo carico responsabilmente perché, ad un certo punto, le lancette si dovranno fermare''. ''Sono al lavoro sulla legge elettorale per i cittadini, ce la sto mettendo tutta, è quello che ci chiedono in tanti. Ce la facciamo, se no Grillo altro che al 30%, va all'80%'', ammonisce Schifani.
E il leader del Movimento 5 Stelle dal suo blog attacca: il "cambiamento della legge elettorale in corsa" con l'inserimento del "tetto del 42,5% per il premio di maggioranza per impedire a tavolino la possibile vittoria del M5S e replicare il Monti bis" è un "colpo di Stato".
Grillo se la prende con la Ue che "tace. Chissà forse ci farà una multa per divieto di sosta a Montecitorio". "La Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto ha sancito nel 2003 che 'gli elementi fondamentali del diritto elettorale e in particolare del sistema elettorale, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell'anno che precede l'elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinarià. C'è del marcio a Bruxelles", attacca ancora Grillo.

http://www.adnkronos.com/IGN/News/Politica/Legge-elettorale-Schifani-Si-fa-o-M5S-va-all80-Grillo-E-golpe_313877046504.html

Sanità, operazione Camici sporchi: 9 arresti e 67 indagati al Policlinico di Modena.


Sanità, operazione Camici sporchi: 9 arresti e 67 indagati al Policlinico di Modena

Divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per 12 aziende. Blitz dei Nas: i fermati sono responsabili a vario titolo di associazione per delinquere, peculato, corruzione, falso in atto pubblico, truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale e sperimentazioni cliniche senza autorizzazione.

Dalle prime ore della mattina, 150 carabinieri del Nas e di 10 Regioni stanno conducendo un’operazione denominata Camici sporchi che ha portato all’arresto di 9 cardiologi del Policlinico di Modena, mentre altre 67 persone sono indagate. Su ordine della Procura di Parma, i militari hanno effettuato 33 perquisizioni e hanno applicato la misura di divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione per 12 aziende che producono attrezzature sanitarie e l’interdizione dall’esercizio di attività e professioni nei confronti di 7 persone.
Gli arrestati sono medici specialisti che hanno svolto o svolgono la propria attività presso il reparto di Cardiologia del Policlinico di Modena, responsabili a vario titolo di associazione per delinquere, peculato, corruzione, falso in atto pubblico, truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale e sperimentazioni cliniche senza autorizzazione. I particolari dell’indagine saranno resi noti nel corso della conferenza stampa che si terrà a Modena, alle 10.45.
Dalle prime indiscrezioni non ci sarebbero soltanto cardiologi tra le persone arrestate all’alba dai carabinieri. Oltre all’arresto, con beneficio dei domiciliari, della professoressa Maria Grazia Modena e del dottor Giuseppe Sangiorgi, che fino a marzo diresse il reparto di emodinamica, sarebbero coinvolti medici di altri reparti. Lo scandalo pare infatti essere allargato ad altri reparti del Policlinico di Modena, e alle strutture universitarie di altre città. Tra le persone indagate si parla anche di un coinvolgimento diretto dei vertici precedenti del policlinico.