giovedì 3 gennaio 2013

Quelli che avevano capito tutto...su Grillo (Marco Travaglio a Servizio Pubblico)



Per non dimenticare...

I reali motivi della crisi: finalmente qualche tv ne parla.




Caricato in data 20/dic/2011
Un plauso a TeleToscana Nord per aver mandato in onda questo coraggioso servizio che, in maniera semplice e chiara, analizza i motivi (reali) della cosiddetta "crisi". Un video da vedere e condividere ovunque. Finalmente anche i media locali cominciano a prendere in considerazioni determinate tematiche troppo.

Le Impresentarie. - Marco Travaglio



Le primarie sono un’ottima cosa, l’unico antidoto a una delle porcate del Porcellum: le liste bloccate che consentono ai partiti di nominarsi i parlamentari. Grillo, temendo la piena degli opportunisti last minute, ha inventato le parlamentarie web, ma ha ristretto troppo la platea dei votanti: appena 20mila. Alle primarie di Capodanno del Pd han votato un milione di elettori. Bene anche i volti nuovi o seminuovi, premiati per le loro facce pulite e si spera anche per le loro capacità. Ma in alcune regioni d’Italia, dove il voto è militarmente controllato non solo dalle mafie, ma anche da cricche clientelari che comprano preferenze con favori e lavori, le primarie sono finte se non vengono accompagnate da ferrei sbarramenti per garantire il ricambio.
Se si lascia candidare Mirello Crisafulli nella sua Enna, di cui da una vita è signore e padrone a suon di posti e prebende, oltre a essere amicone del boss Raffaele Bevilacqua (con cui fu filmato e intercettato), è ovvio che faccia il pieno di voti. Non bastavano i suoi 15 anni in Assemblea Regionale, le due legislature in Parlamento e il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver fatto pavimentare a spese della provincia la strada comunale che porta alla sua villa, per mandarlo in pensione?
Idem a Messina, dove spopola un altro ras: Francantonio Genovese, che divenne sindaco sebbene azionista della Caronte, la società dei traghetti nello Stretto controllata da Pietro Franza (perciò ribattezzato ‘Franzantonio’) in pieno conflitto d’interessi. Il resto l’ha raccontato la puntata di Report sugli enti di formazione finanziati dalla Regione. Tipo la Lumen, presieduta da Franco Rinaldi, deputato regionale, cognato di Genovese e soprattutto marito di Elena Schirò che lavora dove? Ma alla Lumen, naturalmente. Rinaldi e Genovese sono pure soci nella Training Service, che sta per ricevere 390mila euro di contributi. Invece la Nt Soft fa capo ai nipoti di Genovese e Rinaldi. L’Esofop ha come presidente la cognata di Rinaldi e come consigliere Chiara Schirò, moglie di Genovese. E una società in cui compare Genovese affitta la sede all’Enaip e all’Aram. A che servono a questo punto le primarie? Chi mai riuscirà a prendere più voti di un Genovese? Il conflitto d’interessi, anziché un handicap, diventa un elisir di lunga vita, anzi di immortalità.
Alle primarie di Trapani trionfa Antonino Papania: nel 2002 ha patteggiato 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio in un processo per compravendita di posti di lavoro in cambio di soldi. Il suo factotum Filippo Di Maria è stato arrestato tre anni fa per mafia, con l’accusa di essere l’autista, il cassiere e il braccio destro del boss di Alcamo, Nicolò Melodia detto ‘il macellaio’. Per la Mobile, “Di Maria si muoveva incessantemente per procurare posti di lavoro ad amici e conoscenti grazie anche al diretto interessamento di collaboratori e personale di segreteria del senatore”, attivissimo “in occasione di alcune competizioni elettorali”: come “le primarie 2005 per il candidato premier” del centrosinistra. “Lo staff del sen. Papania – scrive il gip – e altri politici contattavano ripetutamente il Di Maria per indurlo a sostenere iniziative politiche… con tutte le persone di sua conoscenza”.
In Calabria invece stravince le primarie l’ottimo Nicodemo Oliverio, imputato da tre anni al Tribunale di Roma con altre 14 persone per bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale aggravata, in uno dei processi sullo scandalo del megapatrimonio immobiliare della Dc, ovviamente scomparso. A Crotone, Oliverio ha raccolto 8.257 preferenze su 8.547 (il 97%). Chissà se arriverà prima la sentenza, prevista per febbraio, o la rielezione in Parlamento, prevista per febbraio. E chissà se Piero Grasso lo sa.

"Stato-mafia, spiati i pm dell'inchiesta": il mistero del dossier che scuote Palermo. - Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo


"Stato-mafia, spiati i pm dell'inchiesta":  il mistero del dossier che scuote Palermo


Una lettera anonima fatta arrivare a uno dei sostituti procuratori che si occupano dell'inchiesta sulla trattativa. Nella missiva, ricostruzioni considerate affidabili e accuse: "Un carabiniere rubò l'agenda rossa di Borsellino". Il "protocollo  fantasma" afferma anche che fu nascosto l'archivio del covo di Riina. Ora la Procura vuole indagare.

PALERMO - È una lettera anonima quella che sta aprendo un nuovo fronte d'indagine sulla trattativa fra Stato e mafia. Avverte i magistrati di Palermo che sono spiati, indica dove trovare altre prove del patto, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero sapere molto. E denuncia che l'agenda rossa di Borsellino è stata rubata "da un carabiniere". 

L'inchiesta giudiziaria più tormentata di questi mesi si sta ancora rimescolando e rovista adesso in quelle che l'anonimo definisce "catacombe di Stato". Le ultime inedite indicazioni sono in uno scritto che gli investigatori valutano come "attendibile", studiato e steso da qualcuno estremamente informato, uno "dal di dentro" sospettano i pubblici ministeri di Palermo che hanno ordinato accertamenti su tutti i punti segnalati dall'anonimo. Lui, definisce la sua lettera "un esposto". L'ha spedita il 18 settembre scorso a casa di Nino Di Matteo, uno dei sostituti procuratori che insieme ad Antonio Ingroia hanno cominciato l'indagine sulla trattativa. 

Sono dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio. L'autore, alla sua lunga lettera ha attribuito - come nei documenti ufficiali - una sorta di numero di fascicolo. È in codice: "Protocollo fantasma". 

Se sia tutto vero ciò che scrive o al contrario un tentativo di depistaggio si scoprirà presto, di sicuro al momento i funzionari della Dia di Palermo e quelli di Roma stanno raccogliendo riscontri intorno ai "suggerimenti" dell'anonimo. Uno che sembra a conoscenza di tanti segreti, come se avesse partecipato personalmente ad alcune operazioni poliziesche o sotto copertura. Questi dodici fogli ricordano tanto quell'altra lettera senza firma arrivata fra la strage Falcone e la strage Borsellino nell'estate del 1992 (e recapitata a 39 indirizzi fra i quali il Quirinale, le redazioni dei quotidiani italiani, il Viminale), la prima carta in assoluto dove si faceva cenno a "un accordo" fra Stato e mafia. Annunciando avvenimenti poi accaduti. Come l'arresto del capo dei capi Totò Riina.

Ma adesso vi raccontiamo cosa c'è esattamente nell'ultimo anonimo palermitano. Finisce con una frase misteriosa destinata al magistrato Di Matteo: "Tieni sempre in considerazione che sto lavorando con te, nelle tenebre". E annota subito dopo, in latino: "Impunitas semper ad deteriora invitat". L'impunità invita sempre a cose peggiori. 

Comincia invece con una cronistoria dei cadaveri eccellenti di Palermo: dall'omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre - il 30 aprile 1982  -  fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano dell'ottobre 1995 nelle campagne di Mezzojuso, probabilmente per una soffiata. In mezzo le bombe di Capaci e di via D'Amelio. Poi si addentra nel particolare. Iniziando dai pm che indagano sulla trattativa. 

Li mette in guardia da "uomini delle Istituzioni" che li stanno sorvegliando. "Canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto", scrive. E dice che li riversano "a Roma", in una non meglio identificata "centrale". Fra gli spioni  -  sostiene l'anonimo  -  anche alcuni magistrati. Di certo, strani movimenti si sono registrati a Palermo in queste settimane. Uno, a metà dicembre. Qualcuno è arrivato fin sul pianerottolo dell'abitazione del sostituto Di Matteo, lavorando dentro una cassetta elettrica. Se ne sono accorti i carabinieri della scorta. Nessuno nel condominio aveva disposto lavori nel palazzo, e in quel fine settimana il magistrato era fuori città. Un intruso sapeva anche questo.

Torniamo all'anonimo. Spiega dove cercare nuove prove sul patto. Usa queste parole: "Ci sono catacombe all'interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare". E specifica i luoghi. Segue una lista di nomi. Uomini politici della prima Repubblica, grandi e piccoli, tutti mai sfiorati fino ad ora dalle investigazioni sulla trattativa. Consiglia di seguire certe tracce, il suo linguaggio è quello di un "addetto ai lavori". Gli investigatori sono convinti che si tratti di qualcuno che, all'inizio degli anni '90, abbia lavorato in qualche reparto investigativo. Conosce minuziosamente alcune vicende. Come quella della cattura di Totò Riina, la mattina del 15 gennaio del 1993. Garantisce che il covo del boss, nel quartiere dell'Uditore, sia stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli. E ripulito di un tesoro, l'archivio del capo dei capi di Cosa Nostra. "Nascosto a Palermo per qualche tempo e poi portato via", scrive ancora l'anonimo. 

E infine dice di sapere chi ha rubato dalla sua borsa l'agenda rossa di Paolo Borsellino, quella sulla quale il procuratore segnava tutto ciò che vedeva e sentiva dalla morte del suo amico Giovanni Falcone. "L'ha presa un carabiniere", giura l'autore della lettera. 

Già qualche anno fa un colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, era stato messo sotto accusa dai magistrati di Caltanissetta per avere trafugato l'agenda. L'ufficiale era stato fotografato, in via D'Amelio, con la borsa fra le mani. Ma aveva sempre sostenuto di non sapere nulla dell'agenda. Prosciolto dal giudice in fase d'indagine preliminare e prosciolto poi dalla Cassazione, il colonnello è uscito definitivamente dall'inchiesta. In questi ultimi mesi i pm di Caltanissetta (quelli che indagano sui massacri di Palermo) hanno però ricominciato a visionare un filmato del dopo strage, ricostruito con tutte le immagini ritrovate negli archivi televisivi. Cercano sempre l'uomo dell'agenda rossa. E sospettano sempre che sia uno degli apparati investigativi. La caccia è ripartita.

Cosa aggiungere sull'ultimo anonimo? Le indagini, che sembravano solo aspettare il verdetto del giudice Piergiorgio Morosini sulla richiesta di rinvio a giudizio di quei 12 imputati eccellenti prevista per la fine del mese, hanno ricominciato ad agitarsi dopo le confessioni del misterioso personaggio senza volto. Uno che viene dal passato di Palermo.




http://www.repubblica.it/cronaca/2013/01/03/news/stato_mafia_anonima_lettera-49835506/?ref=HREC1-4

IL MIGLIOR DISCORSO DEL MONDO - Presid Josè Mujica - ITA - ENG - ESP




Pubblicato in data 04/dic/2012
Il discorso che vorremmo ascoltare da ogni politico. Il Presidente dell'Uruguay Josè "Pepe" Mujica tocca i cuori con la sua semplice, inoppugnabile, coraggiosa verità. E' l'uomo che governa il mercato o il mercato che governa l'uomo? Un discorso che passerà alla storia.
_Pepe Mujica, noto come "il presidente più povero del mondo", ha attualmente 77 anni, vive nella sua casa modesta, devolve il 90% del suo stipendio in beneficenza. E' stato in carcere 14 anni come oppositore del regime.

Un miliardo in fumo in sei mesi. Ecco la socializzazione delle perdite finanziarie. - Costanza Iotti




Secondo le stime dell'Adusbef, negli ultimi dieci anni i risparmiatori hanno lasciato per strada qualcosa come 52 miliardi di euro di perdite, più di 46mila euro a testa per più di un milione di persone, un miliardo solo nei primi sei mesi del 2012. Ma il conto è al ribasso, perché tiene in considerazione solo i crac finiti in un'aula di un tribunale. Senza contare, quindi, le fregature del tutto legali.

Oltre un miliardo di euro. E’ il totale dei risparmi degli italiani andati in fumo soltanto nei primi sei mesi del 2012. E non per tasse, rincari o riduzione della busta paga causa cassa integrazione, ma per la malafinanza. Del resto la cosiddetta socializzazione delle perdite, contraltare della privatizzazione degli utili ora di gran moda nell’Europa della crisi che taglia il welfare a piene mani per tappare i buchi, è sempre stata di casa dove scorrono i soldi dei risparmiatori. Per dare un’idea delle cifre in gioco, secondo le stime dell’Adusbef i crac finanziari dal 2001 ai giorni nostri sono costati complessivamente 52 miliardi di euro che sono stati scuciti dalle tasche di 1,121 milioni di comuni cittadini, per una spesa media unitaria di 46.387 euro. E il calcolo è parziale, perché tiene conto solo dei casi finiti in Tribunale, ma infinite sono le vie, anche quelle legali, per privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Tanto più in Borsa, dove i risparmiatori meno avvezzi ai giochi di prestigio sono soprannominati il parco buoi, ma dove chi decide di giocare si assume il rischio d’impresa. Senza contare i costi dell’intervento pubblico, delle perdite di posti di lavoro e delle conseguenza per il territorio. Anche per l’anno che ci buttiamo alle spalle, quindi, ce n’è per tutti i generi e tipi.
I GRANDI CLASSICI DEL CRAC. Con un costo stimato, sempre dall’Adusbef, in 860 milioni di euro il primo e 160 milioni il secondo, sono stati i casi Deiulemar e Banca Network a fare la parte del leone nella prima metà dell’anno coinvolgendo oltre 42mila risparmiatori. Per il crac della compagnia di navigazione di Torre del Greco delle famiglie Della Gatta, Iuliano e Lembo è stato disposto il giudizio immediato con la prima udienza in calendario per il prossimo 11 marzo. Ma sarà lunga sdipanare la matassa di una vicenda che ha dell’incredibile, dove i milioni raccolti presso i risparmiatori, ma anche vip locali e capiclan, non venivano messi a bilancio e depositati direttamente sui conti correnti personali del capostipite degli armatori, senza alcun controllo alla faccia delle normative sull’antiriciclaggio.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ha commentato qualcuno. Che dire invece della vicenda di Banca Network Investimenti, Bni, il cui slogan era “Una banca efficiente. Sempre al tuo fianco”, salvo poi lasciare a piedi 69 dipendenti e 28mila correntisti che quest’estate si sono visti congelare i conti da un giorno con l’altro in attesa dell’intervento del Fondo di tutela dei depositi? Per non parlare della sorte degli obbligazionisti che avevano finanziato con oltre 32 milioni di euro la Sopaf dei fratelli Magnoni che aveva in mano la maggioranza della banca e che a sua volta è crollata in autunno sotto il peso di oltre 100 milioni di debiti. Ma che grazie alla riforma del diritto fallimentare in tema di concordati preventivi introdotta dal governo Monti con il decreto Sviluppo, viaggia ancora tra le tutele del concordato e il fallimento.
A secco, quindi, creditori e, ancor di più, i piccoli azionisti che soltanto nell’ultimo anno di scambi, in Borsa hanno assistito al tracollo del titolo che ha bruciato l’84% del suo valore. Proprio mentre il socio di maggioranza, Giorgio Magnoni fratello del più noto Ruggero, ex presidente di Lehman Brothers per l’Italia, “faceva affari d’oro nell’immobiliare sull’asse tra il Lussemburgo e la Germania”, come riportato dal quotidiano Mf lo scorso 12 dicembre. Immancabili, quindi, gli accertamenti in corso da parte della magistratura sulla vicenda Sopaf, come su quella di Banca Network che include gli investimenti in titoli rischiosi da parte dell’istituto A partire da quelli targati Lehman Brothers.
PRODOTTI BANCARI FINITI IN CLASS ACTION. Ma i soldi dei risparmiatori non finiscono solo nelle azioni delle società quotate in Borsa. Ci sono sia i prodotti finanziari più o meno strutturati, sia i banali conti correnti. Un’area piuttosto vasta e delicata, quindi, che quest’anno ha registrato il via della prima class action nei confronti di un gruppo bancario, Intesa SanPaolo. Oggetto del contendere, che potrebbe riguardare fino a 400mila clienti dell’istituto, alcune spese di conto che sono state introdotte dalla banca in sostituzione delle commissioni di massimo scoperto abolite per legge nel 2009 e giudicate illegittime da Altroconsumo, che ha promosso l’azione collettiva partita a settembre. Il termine per l’adesione è il prossimo 21 gennaio, mentre l’appuntamento in Tribunale a Torino per il conteggio finale delle adesioni è fissato per marzo.
In attesa degli esiti della più ampia inchiesta della magistratura sulla gestione della Banca Popolare di Milano di Massimo Ponzellini, si sta invece chiudendo con una conciliazione da almeno 40 milioni di euro la triste vicenda del convertendo allegro della Bpm, il bond ad alto rischio da 170 milioni di euro che era stato venduto nel 2009 senza la necessaria informazione a 15mila clienti della banca milanese oggi nelle mani di Andrea Bonomi. L’intesa, però, non porterà a grandi risultati per i consumatori secondo l’Aduc, unica associazione che non l’ha firmata commentando che “questi tavoli di conciliazione si risolvono in una buffonata a danno dei risparmiatori ed a vantaggio in primo luogo della Banca (che paga una piccola frazione di quello che dovrebbe sborsare), secondariamente delle associazioni che vi partecipano”.
MANCATI INCASSI. Notevole, poi, la lista delle fregature assolutamente legali. Come le uscite dal listino a prezzi convenientissimi per l’azionista di maggioranza, ma piuttosto deludenti per il piccolo investitore costretto giocoforza ad aderire alle Offerte pubbliche di acquisto (Opa) perché in minoranza. E’ il caso, per esempio, di Benetton, con la famiglia di Ponzano Veneto che a febbraio ha approfittato dei prezzi da saldo per ritirare dal mercato la società dei maglioncini a un controvalore di circa 270 milioni di euro pari a 4,6 euro per azione. Somma che secondo il Sole 24 Ore equivale pro quota a meno del solo valore degli immobili della società.
“Sempre meglio che niente”, commenta chi invece è rimasto a bocca asciutta. In caso di cambio di controllo di una società quotata, per offrire a tutti i soggetti coinvolti la stessa possibilità di guadagno, la normativa prevede infatti l’obbligo del lancio di un’Opa allo stesso prezzo per tutti gli azionisti. Legge che però si può aggirare. In prima istanza fermandosi alla soglia 29,99% del capitale, basta che non ci sia un accordo segreto con altri azionisti per avere comunque la maggioranza nelle assemblee dove si prendono le decisioni importanti senza pagare il dazio ai soci di minoranza. E’ proprio su questa ipotesi che sta indagando la Procura di Milano a proposito della vittoria del gruppo Salini sul rivale Gavio all’assemblea di Impregilo dello scorso luglio, che peraltro è stata dichiarata regolare dal Tribunale, anche se sulla sentenza pende un ricorso in appello. La questione non è da poco, anche perché tra la ragnatela di interessi che gravitano intorno alla società di costruzioni c’è l’appalto per il Ponte sullo Stretto di Messina con annesse penali da mezzo miliardo a carico dello Stato.
Ancor più delicato, coi tempi che corrono, il tema delle esenzioni dall’Opa nei casi accertati di salvataggio delle società in crisi. Come quello del gruppo Premafin-Fondiaria Sai che fu dei Ligresti che ha tenuto banco per tutto l’anno. E anche qui la Procura indaga, tra il resto, sull’ipotesi dell’esistenza di accordi irregolari nell’ambito dell’esenzione dal lancio dell’Opa concessa dalla Consob a Unipol, a patto che dal piano orchestrato da Mediobanca venissero cancellati i vantaggi previsti per la famiglia Ligresti, dato che avrebbero premiato l’azionista uscente e per di più responsabile del dissesto, lasciando a bocca asciutta gli altri investitori. Le clausole sono state cancellate, ma a fine luglio gli stessi Ligresti hanno fatto saltar fuori un ipotetico accordo segreto da 45 milioni con l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, che nella faccenda, in quanto creditore miliardario sia verso i Ligresti che verso Unipol, aveva tutti gli interessi a che l’operazione andasse a buon fine.
GRUPPI E CREDITI DA SALVARE. Ma quella del papello Nagel-Ligresti è sola una delle tappe della vicenda Ligresti al vaglio degli inquirenti tra Milano e Torino. Come è ancora tutta da giocare la partita entrata nel vivo nel 2012 sul salvataggio dei grandi gruppi quotati con una buona dose di debiti che non fanno dormire sonni tranquilli né ai banchieri, né ai grandi azionisti. E talvolta neppure allo Stato. Si va dall’immane debito dell’editrice del Corriere della SeraRcs, che coinvolge tutto quel che resta del gotha della finanza italiana che sul tema continua a prendere tempo, al buco del Monte dei Paschi di Siena, passando per Parmalat e Telecom Italia, a proposito della quale perfino un manager pubblico come Franco Bassanini si è appena unito al coro della richiesta di un incentivo statale, per aiutare la società soffocata da 30 miliardi di debiti frutto di una privatizzazione “sbagliata” ad aprire la rete agli altri operatori.
Quel che è certo, intanto, è che nel caso Unipol-FonSai i risparmiatori, inclusi quelli che avevano investito sulla compagnia delle Coop, oltre che con l’Opa mancata possono già fare i conti con l’evaporazione di investimenti per una somma complessiva compresa tra 300 e 400 milioni di euro. In quello del Monte dei Paschi, i soldi, 3,9 miliardi più altri 550 milioni potenziali per gli interessi, arrivano direttamente dal contribuente via ministero del Tesoro. Mentre su Parmalat pagano innanzitutto i dipendenti, che con la prevista chiusura di tre stabilimenti rischiano il posto di lavoro. Intanto l’azionista francese Lactalis si è premurato di vendere a Collecchio una sua società americana, portandosi a casa metà del tesoretto da 1,5 miliardi raccolto da Enrico Bondi con le azioni legali contro le banche per il crac di Calisto Tanzi, che era custodito nelle casse del gruppo. E che così ha finito col servire anche ad alleggerire i debiti dei francesi verso Mediobanca, che a Lactalis nel 2011 aveva prestato 410 milioni proprio per l’acquisto di Parmalat. Anche qui la magistrature è al lavoro, l’ipotesi a carico dei vertici della società è di appropriazione indebita. Ma è difficile che si arrivi a un punto prima di una decisione definitiva sulle sorti del centinaio di dipendenti italiani a rischio.

Circolo polare artico. - Armando Di Napoli



Zitto stregato ingoio sorsi di notte
il silenzio sornione
delle montagne
del circolo polare artico
emana l’animo della solitudine
che livido s’appoggia
sull’ombra della sacra vita
metamorfosi dell’infinito
l’alito di Dio
tramutato in vento
mi sfiora i capelli ghiacciati

tanta strada da percorrere
le scarpe bucate
e nelle tasche- dispensa
un pezzo di pane e formaggio
polvere di neve svolazza sulla strada deserta
toccando le corde dell'infinito
di un’inutile cammino

l’aurora lisa ebbra
di sublimezza rincasa
mentre il sole ambiguo
annunciando l’alba
inizia a giocare
trasformandosi
in un’artista depresso
che con violenti colpi di genio
spande colori
sulle triste facce
di laghi ghiacciati
che spatolati si struccono
sciogliendosi
in lacrime d’amore
per annegarene
gli abissi delle emozioni
incorniciati da struggenti sentimenti
di un’esistenza straziata d'angoscia…

Circolo polare artico 8 aprile 2006

Lapponia. - Armando Di Napoli



L’incanto steso ad asciugarsi
a fili d’arcobaleno
l’innocenza gioca a nascondino
intrufolandosi nell’animo
di montagne di neve
una volpe arancione
corre senza fiato
dietro ad una bianca lepre impaurita
spezzando il colore del cielo colbalto
case buffe sbuffano dai comignoli
fiumi di fumo imbottiti
dal delizioso profumo
di carpe e salmoni arrostite
smaniose renne scavando
nel bianco brucano erba secca
slitte tirate da huskies
colme di bambini con le gote vermiglio
scherzano felici le stelle dell’orsa maggiore
si possono spegnere con le dite
con complicita´ti illuminano il cammino

l’incubo in agguato
seguendo con lo sguardo
il volo di un corvo
che stanco s’appoggia
su un cartellone pubblicitario
che altezzoso indica
Mc Donald’s a 2 chilometri
e l’ingannevole scempio
vestito di vergognoso consumismo
continua imperioso
ad assassinare la speranza…
Lycksele 22 marzo 2006


Negli ambulatori del Parlamento 60 camici bianchi a 2 milioni di euro all’anno. - Thomas Mackinson


Aula Senato


Con una nuova delibera datata 18 dicembre, Palazzo Madama punta a rafforzare ulteriormente il presidio di cardiologi e infermieri interni: aperte le selezioni per altri cinque cardiologi e altrettanti tra anestesisti e rianimatori.

La via crucis del ri-candidato si fa più stretta e incerta che mai. Una corsa al cardiopalma, roba da rimanerci secchi. Sarà per questo che il presidente del Senato, Renato Schifani ha deciso di rafforzare il presidio di cardiologi e infermieri presso l’Ambulatorio di Palazzo Madama. Sotto l’albero di Natale, il 18 dicembre, è arrivata una delibera dell’ufficio di presidenza che apre ufficialmente le selezioni per cinque specialisti in cardiologia e cinque in anestesia e rianimazione. Non tirocinanti di primo pelo ma laureati con almeno 105/110 ed esperienza professionale minima di cinque anni per i medici e di quattro per gli infermieri.
Quello del Senato, del resto, è un ambulatorio di tutto rispetto: aperto tutto l’anno, 24 ore su 24, gratuito e a uso esclusivo degli inquilini del palazzo. E lì per legge da ben 27 anni: in origine, spiegano da Palazzo Madama, doveva garantire ai senatori non residenti a Roma l’assistenza sanitaria dei loro colleghi della Capitale, ma col tempo il mini-ambulatorio è diventato maxi. La platea dei pazienti si è infatti allargata a deputati, ex parlamentari, dipendenti del Senato e dei gruppi, mentre il personale conta oggi un medico e quattro infermieri in pianta stabile, più altri 26 camici bianchi retribuiti a prestazione per assicurare i turni h24. E così sono lievitati i anche i costi: nel 2011, ultimo dato disponibile, sono arrivati a 650mila euro. Non è difficile crederlo, visto che per quasi trent’anni il presidio è stato aperto anche quando il palazzo era semideserto e gli inquilini in vacanza, nei week end, perfino a Natale e ad agosto.
Solo qualche mese fa il Consiglio di Presidenza ha deciso di chiuderlo dalle 13 di sabato alle 8 del lunedì, durante i festivi infrasettimanali e nei giorni di ferie con un risparmio di circa 240mila euro. Ma niente panico. Quando l’ambulatorio è chiuso l’assistenza medica è assicurata da una società esterna (Medical Care) a un costo di 20 mila euro l’anno. A Palazzo Madama spiegano che non sono soldi buttati perché nel presidio medico si lavora a pieno regime: in un anno si effettuano 13mila prestazioni, più 700 soccorsi, in maggioranza di tipo cardiologico. Un dato sorprendente se rapportato al numero dei senatori e alla platea dei potenziali marcatori di visita. In un giorno di normale attività parlamentare al Senato, infatti, entrano più o meno 2.500 persone. Forse lavorare in Parlamento è più usurante di quanto si pensi e questo potrebbe spiegare anche quei 7,7 milioni di euro chiesti da senatori (e parenti) per prestazioni sanitarie integrative.
I deputati non sono da meno. I servizi sanitari d’emergenza alla Camera sono assicurati da un ambulatorio con personale medico-infermieristico rinforzato da un servizio distaccato dall’Asl di Roma e da una convenzione diretta con il Policlinico Gemelli. Un presidio che conta su una trentina di camici bianchi tra interni ed esterni che costa 1,4 milioni di euro l’anno. La convenzione per i presidi di palazzo Montecitorio e dei palazzi Marini, in corso dal 2007, conta quattro medici dirigenti e due unità di personale infermieristico che prestano servizio per 36 ore la settimana. Tutti ben retribuiti. Un medico alla Camera costa 60 euro lordi l’ora che diventano 90 dopo le 22, il sabato e nei giorni festivi.
A fine anno il camice bianco a Montecitorio porta a casa 90-100 mila euro. E sono in quattro. Gli infermieri, prendono 44 mila euro l’anno più maggiorazioni e sono in due. Ma vanno poi aggiunti i turnisti esterni e i 435mila euro per la convenzione con il Policlinico. Il conto finale è così salato da spiazzare gli stessi beneficiari del servizio (che in teoria dovrebbero godere di ottima salute, visti i 10 milioni di rimborsi sanitari dello scorso anno). Rita Bernardini (Pd), ad esempio, il 12 ottobre scorso ha chiesto al Collegio dei Questori di optare per uno dei due servizi. Il parere è stato accolto e protocollato ma non si sa se sortirà qualche effetto. L’emergenza sanitaria in Parlamento, a quanto pare, continua.

Direzione nazionale antimafia, ridate quel posto a Caselli. - Benny Calasanzio Borsellino


Dopo lo “spostamento” di ruolo di Pietro Grasso da procuratore nazionale antimafia a candidato del Partito Democratico alle prossime elezioni politiche (“il Pd è la mia casa”, e gente come Vladimiro Crisafulli il suo coinquilino), si è aperta la corsa alla successione del magistrato palermitano che era stato giudice a latere nel maxiprocesso a cosa nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E si fanno già i primi nomi: dai più affascinanti ma che francamente hanno poche possibilità, come Ilda Boccassini e Roberto Scarpinato, a quelli più probabili, come Franco Roberti e Roberto Alfonso.
Durante la conferenza stampa in cui ha annunciato la sua candidaturaAntonio Ingroia ha provato a ristabilire una verità troppo spesso dimenticata: nel 2005, dopo la fine dell’incarico di Pier Luigi Vigna, il magistrato destinato a ricoprire la funzione di procuratore nazionale antimafia, a parere di molti, era Giancarlo Caselli. Il decreto legge del 20 novembre 1991, convertito il 20 gennaio successivo, all’art. 6 prevedeva infatti che “alla Direzione è preposto un magistrato avente qualifica non inferiore a quella di magistrato di Cassazione (Caselli lo era dal 1991, Nda), scelto tra coloro che hanno svolto anche non continuativamente, per un periodo non inferiore a dieci anni, funzioni di pubblico ministero o giudice istruttore, sulla base di specifiche attitudini, capacità organizzative ed esperienze nella trattazione di procedimenti relativi alla criminalità organizzata. L’anzianità nel ruolo può essere valutata solo ove risultino equivalenti i requisiti professionali”.
Dal 15 gennaio del 1993, giorno dell’arresto di Totò Riina, fino al 1999 Caselli era stato procuratore capo a Palermo dando il via ad un’irripetibile stagione interrotta proprio dall’arrivo di Pietro Grasso, considerato, anche da molti magistrati di quella procura, un “normalizzatore”.
Ma il provvidenziale governo Berlusconi, grazie all’emendamento firmato dall’ex An Luigi Bobbio presentato nell’ambito della controriforma dell’ordinamento giudiziario, cancellò per sempre la possibilità che il canuto magistrato piemontese sedesse su quella poltrona. L’emendamento indicava infatti come tetto massimo per l’assegnazione degli incarichi direttivi l’età di 66 anni ed escludeva coloro che non potevano garantire quattro anni di presenza prima dell’età pensionabile. Mancava solo che ci fosse scritto che erano esclusi dalla “gara” tutti quelli che avevano un cognome che iniziasse con “C” e finisse con “aselli”. Anche se sembra (ed effettivamente era) una legge contra personam, che doveva far pagare a Caselli le sue indagini sui rapporti mafia politica, in testa il processo Andreotti, Piero Grasso accettò l’incarico senza fare una piega. Mors tua vita mea.
Nessuna sorpresa, dunque, quando nel maggio scorso, a pochi giorni dal ventesimo anniversario della strage di Capaci, Grasso fece la memorabile e blasfema dichiarazione: “darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia”. E per forza (Italia): senza Silvio e gli altri sventurati il buon Grasso mai sarebbe riuscito a diventare procuratore nazionale, sovrastato per esperienza, coraggio e carisma dal buon Caselli.
Per queste ragioni, dopo lo scippo del 2005, sarebbe giusto e soprattutto necessario, vista la carriera e le capacità unanimemente riconosciute a Giancarlo Caselli, che quel posto venga oggi assegnato, o meglio, ridato a lui.