giovedì 5 gennaio 2012

Giudice: "Le tasse arrivate per posta non sono valide"




Con una sentenza rivoluzionaria il giudice tributario dichiara giuridicamente inesistente una multa via raccomandata. Risultato: tutte le notifiche eseguite da Equitalia sarebbero nulle. E i consumatori preparano già una valanga di ricorsi.


Lancia in resta le associazioni di consumatori sono già partite all’attacco. Tra le mani un piccolo tesoro, carte che potrebbero fare la felicità di decine di contribuenti. 
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Si tratta infatti di una sentenza emessa dalla Commissione Tributaria regionale della Lombardia che ha dichiarato «giuridicamente inesistente» una multa di 9mila euro perché «notificata solo dai dipendenti di Equitalia a mezzo posta». 
Tale modalità di notifica, infatti, se non effettuata da soggetti abilitati, secondo i giudici lombardi, non produce effetti nei confronti dei contribuenti (in pratica è come se la cartella, l’avviso di intimazione di pagamento o l’ipoteca non fossero mai stati notificati). Tutto ciò deriva da un attento esame delle norme che riguardano la notifica degli atti esattoriali in generale e di quella a mezzo posta in particolare.
La vicenda nasce da un ricorso presentato da un contribuente che dopo una verifica agli uffici dell’Esatri era venuto a conoscenza di dover pagare la bellezza di 9.153 euro relativa a Iva del 2003 comprensiva di sanzioni. Il contribuente sosteneva di non aver mai ricevuto la comunicazione, Equitalia con la ricevuta di ritorno alla mano diceva al contrario di aver spedito la raccomandata che era stata ritirata dal custode dello stabile sostenendo che «la notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento». Non così invece per la XXII Commissione Tributaria che, nella sentenza elenca, individuandoli in maniera tassativa, «gli unici soggetti legittimati alla notifica della cartella, ossia: gli ufficiali della riscossione, i messi comunali, gli agenti della polizia municipale altri soggetti sempre opportunamente autorizzati dal Concessionario», ma mai quest’ultimo «direttamente», a mezzo di propri dipendenti. Una sentenza che rimbalzata alle orecchie delle associazioni dei consumatori ha già riempito i siti web di «petizioni popolari» e minacce di class action. 
«Al di fuori dai casi previsti espressamente dalla legge, tutte le notifiche per posta sono da ritenersi inesistenti poiché effettuate da soggetti non appositamente abilitati, spiega l’avvocato Matteo Sances esperto di Diritto tributario e legale della Libera Associazione Consumatori Europei- Inutile dire che tale interpretazione della norma potrebbe portare ad effetti sorprendenti per i contribuenti “morosi”, in quanto non solo avrebbero la possibilità di contestare vecchie cartelle pervenute per posta ma, trattandosi di notifiche “giuridicamente inesistenti”, è come se le somme non fossero mai state richieste, con tutte le conseguenze derivanti da una eventuale prescrizione di vecchi crediti vantati dal Concessionario». Bocciato dalla Commissione Tributaria anche l’invito di Equitalia a una sanatoria. «La sanatoria si potrebbe fare per una atto nullo - spiegano i giudici - ma non per atti dichiarati giuridicamente inesistenti». In campo sono scese anche Sos Fisco e Cartellesattioriali.it due associazioni di consumatori che hanno proposto una petizione popolare. «Sappiamo di cittadini e imprese ridotte sul lastrico a seguito di fermi, ipoteche e pignoramenti portate avanti da Equitalia sulla base di cartelle esattoriali sconosciute - dicono - Per questo siamo impegnati in una battaglia di civiltà volta a sensibilizzare il ministero delle Finanze e il Parlamento affinché si comprenda la necessità di far allegare alle ipoteche e ai pignoramenti inviati da Equitalia almeno copia delle relate di notifica delle cartelle esattoriali per le quali si agisce, in modo da evitare almeno gli errori più grossolani».

Il super-vulcano nel cuore dell'Europa.

lago nebbia fotolia
Il lago che ospita il vulcano

Avranno avuto ragione i Maya con la loro profezia di catastrofi per il 2012? Se il buongiorno si vede dal mattino, infatti, quanto sta accadendo in Germania in questi primi giorni dell'anno non è certamente un buon segno e desta più di una preoccupazione. Non è infatti solo l'Italia ad avere vulcani ancora attivi in Europa: se l'Etna e il Vesuvio destano qualche preoccupazione, pare che i tedeschi non vogliano essere da meno.

Il più grande vulcano sottomarino è nel mar Tirreno

Si chiama vulcano Laacher See e fino a questi ultimi giorni ben pochi  sapevano che in Germania ci fossero dei vulcani. E' situato nelle vicinanze della vecchia capitale tedesca prima delle riunificazione, Bonn, e si trova sotto a un lago, da cui il nome. Ebbene, questo temibile vulcano ha cominciato a ridare segni di vita proprio a inizio 2012. E pensare che la sua ultima eruzione risale a ben 12.900 anni fa, si calcola infatti che esploda circa ogni dieci/dodicimila anni. Le sue dimensioni sono impressionanti: è all'incirca simile al vulcano del Monte Pinatubo in Indonesia, lo stesso che eruttò nel 1991 causando la più disastrosa eruzione del Ventesimo secolo, facendo scendere la temperatura globale della Terra di ben 0,5 gradi per un anno intero.

E' possibile prevedere le eruzioni vulcaniche? Ecco come gli Stati si stanno attrezzando

Se il vulcano tedesco dovesse effettivamente dare vita a una eruzione, è difficile immaginarne le conseguenze: si calcola che la pioggia di ceneri vulcaniche potrebbe ricadere sull'intera Europa. La polvere vulcanica è devastante, ha consistenza molto densa tanto da far crollare edifici interi e se si bagna diventa conduttrice di elettricità, causando nell'atmosfera tempeste elettriche gigantesche.  Non solo: se la si respira, entrando nei polmoni si solidifica diventando quasi cemento. Al momento si notano piccole bolle di gas che si stanno formando sulla superficie del lago, segno che il vulcano sta rilasciando del magma. Sull'imminenza dell'eruzione (guarda caso) nel 2012 e sulle preoccupazioni della comunità scientifica per ora resta soltanto l'articolo del giornale che ha lanciato l'allarme: il tabloid britannico Daily Mail

La minaccia dei supervulcani nei Campi Flegrei è peggiore del Vesuvio 



http://it.notizie.yahoo.com/il-super-vulcano-nel-cuore-dell-europa.html?nc

Senza parole...





Un programma per la giustizia penale. - di Marco Travaglio.



Atto primo: abrogazione di tutte le leggi vergogna. 
Dopo, e solo dopo, si può cominciare a rimettere in piedi la giustizia penale: fuori la politica dal Csm, carriere unificate per giudici e pm, prescrizione bloccata dopo il rinvio a giudizio, inasprimento delle pene per il falso in bilancio, riforma del diritto al silenzio e dell’immunità parlamentare… 


Dopo 17 anni trascorsi dalla classe politica ad approvare «riforme della giustizia» (oltre un centinaio) che, a parole, avrebbero dovuto renderla più rapida ed efficiente e che invece, nei fatti, l’hanno ridotta allo sfascio e alla paralisi, il governo che verrà dopo la caduta del regime dovrà rimuovere le macerie e dedicarsi alla ricostruzione della giustizia. Le cose da fare sono note e stranote a chiunque abbia messo piede un paio di volte in un tribunale. Manca «soltanto» una classe politica, a destra come al centro come a sinistra, che possa permettersi il lusso di una giustizia che funzioni. Ecco alcune proposte – alcune costituzionali, altre processuali, altre sostanziali – che ci paiono urgenti, perlopiù a costo zero e senza pretese di originalità né di esaustività. Cominciando dalla prima vittima di questi 17 anni di regime: la giustizia penale. 

Riforme costituzionali
Csm. Il Consiglio superiore della magistratura, organo di «autogoverno» delle toghe, non può essere composto da persone estranee all’ordine giudiziario, tantomeno nominate dal parlamento, cioè dai partiti. Con l’eccezione del presidente, che può rimanere il capo dello Stato (meglio sarebbe comunque un ex presidente della Corte costituzionale), va dunque abolita la quota di un terzo di membri «laici». Tutti e 29 i consiglieri del Csm diversi dal presidente verranno eletti da tutti i magistrati in servizio su una rosa di nomi estratti a sorte (per evitare giochi correntizi) fra tutti i magistrati in servizio con almeno cinque anni di anzianità. Fra i compiti da prevedere esplicitamente in capo al Csm c’è quello di esprimere pareri non vincolanti, anche motu proprio, su tutte le leggi che coinvolgano direttamente o indirettamente l’amministrazione della giustizia. Una delle prime leggi che il Csm dovrà sollecitare al parlamento è l’assoluto divieto per i magistrati di assumere incarichi extragiudiziali (arbitrati eccetera). 

Carriere dei magistrati. Per chiarire meglio che il pm e il giudice devono rimanere organi di giustizia votati all’imparzialità e all’accertamento della verità, diversamente dalla parte privata dell’imputato e del suo avvocato difensore, e tagliare definitivamente corto con le tentazioni di separare le carriere di inquirenti e giudicanti, va ribadito nella Costituzione che la magistratura costituisce un «potere» dello Stato (eliminando l’ambiguo termine «ordine») esattamente come il legislativo e l’esecutivo; e che la carriera per tutti i magistrati è unica. Inoltre va inserita una norma che renda obbligatorio per ciascun magistrato esercitarsi, durante la sua carriera, in entrambe le funzioni, requirente e giudicante.

Giusto processo. La sciagurata controriforma costituzionale del 2000, votata da destra e sinistra in pieno inciucio post-Bicamerale e tradotta nel nuovo articolo 111 della Costituzione (umoristicamente battezzato «giusto processo»), va drasticamente riformata. Al comma che recita «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti», va aggiunto «salve le eccezioni previste dalla normativa ordinaria» (per esempio, vedi sotto, a proposito della trasformazione del giudizio abbreviato in rito ordinario). Dal comma «la persona accusata di un reato […] abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico» va eliminata l’espressione «di interrogare», onde evitare che Totò Riina pretenda di interrogare i coimputati o i testimoni che lo accusano, intimidendoli con la sua stessa presenza minacciosa e inducendoli a ritrattare: il controinterrogatorio difensivo va affidato esclusivamente al difensore dell’imputato o dell’indagato. Va infine abolito il comma che recita «la colpevolezza non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore»: il diritto al silenzio, infatti (vedi sotto) va regolato con norme di tipo ordinario, molto più elastiche e meno stringenti di quelle costituzionali.

Norme procedurali

Prescrizione. La prima norma processuale da modificare è quella della prescrizione dei reati. Essa oggi continua a decorrere fino all’ultimo giorno dell’ultimo grado di giudizio. Come nella stragrande maggioranza degli altri paesi, va invece fermata al momento del rinvio a giudizio: quando cioè, sulle richieste del pubblico ministero, si pronuncia per la prima volta un giudice terzo, quello dell’udienza preliminare. Da quel momento, l’imputato deve sapere che verrà comunque processato. Così gli imputati colpevoli e i loro difensori, che oggi escogitano ogni cavillo ritardante per giungere alla prescrizione prima della sentenza definitiva, non avranno più alcun interesse a farlo: anzi, per evitare una sicura condanna, magari lontana nel tempo (con l’aggiunta di anni e anni di parcelle da pagare all’avvocato), opteranno per un rito alternativo, evitando il dibattimento: cioè patteggeranno la pena o sceglieranno il giudizio abbreviato, beneficiando degli sconti previsti dalla legge (fino a un terzo della pena effettivamente inflitta) in cambio del tempo che faranno risparmiare alla giustizia. 

Deposito atti. Non è vero che il processo in Italia abbia solo tre gradi di giudizio. E una gimkana di almeno sei fasi: indagini preliminari, deposito degli atti, udienza preliminare, dibattimento in tribunale, dibattimento in appello e giudizio di legittimità in Cassazione. Fino al 2000 erano cinque, poi fu aggiunto il deposito degli atti (pacchetto «Carotti» in attuazione della riforma del «giudice unico»): secondo il neonato articolo 415bis del codice di procedura penale, allo scadere delle indagini, anziché chiedere subito il rinvio a giudizio per gli indagati, il pm deve far notificare a questi e ai loro difensori un «avviso di conclusione delle indagini» con un riassunto delle accuse, depositando a loro disposizione tutte le carte delle indagini presso la sua segreteria. Da quel momento, l’indagato ha venti giorni di tempo per chiedere di essere interrogato o di rendere spontanee dichiarazioni, o per presentare documentazione e memorie difensive, o per ordinare al pm nuove indagini. Così non solo si perdono venti giorni, più i tempi morti, ma dopo il deposito degli atti il pm deve sentire altre persone, esaminare altre carte, disporre altri accertamenti. Soltanto dopo questi ulteriori adempimenti (che possono richiedere anche mesi, se non anni) potrà finalmente esercitare l’azione penale, che prima scattava subito a fine indagine. Seguono poi la richiesta di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare, l’eventuale rinvio a giudizio e finalmente il dibattimento. Col risultato di dilatare vieppiù i tempi già biblici della giustizia. E di neutralizzare l’effetto benefico prodotto dalla riforma del giudice unico sui tempi dei processi. L’articolo 415bis va semplicemente abrogato, per tornare alla situazione precedente: finite le indagini, il pm formula subito le richiesta al gup: archiviazione o rinvio a giudizio. 

Udienza preliminare. Inizialmente prevista come agile udienza filtro, in cui il gup, sentite le parti, decide il rinvio a giudizio o il proscioglimento dell’imputato, l’udienza preliminare si è progressivamente espansa fino a costituire un doppione del dibattimento e a durare mesi, talvolta anni. Va dunque riportata alla funzione originaria: requisitoria del pm, arringa dell’avvocato difensore ed eventualmente della parte civile, ordinanza del giudice. 

Riti processuali. Il processo «accusatorio», assorbito dall’ordinamento italiano col nuovo codice di procedura penale del 1990, può funzionare soltanto se la gran parte dei procedimenti viene risolta prima del dibattimento, con i riti alternativi: l’abbreviato e il patteggiamento. Oggi invece, grazie anche alla forte aspettativa di prescrizione, sono in pochi gli imputati a scegliere i riti alternativi, e quasi tutti i procedimenti approdano al dibattimento. Di qui il congestionamento e la paralisi dei tribunali. Occorre dunque, oltre a bloccare la prescrizione al momento del rinvio a giudizio, trasformare il giudizio abbreviato (che si celebra davanti al gup monocratico, il quale giudica sulla base delle carte raccolte dal pm dalla difesa) nel rito ordinario: cioè prevederlo automaticamente per tutti i processi per qualsiasi reato, fatti salvi i casi in cui l’imputato chieda di essere giudicato in pubblico dibattimento (dal tribunale composto da tre giudici, nell’oralità fra le parti). Chi accetta il rito abbreviato (che dovrebbe celebrarsi però in pubblica udienza, e non più a porte chiuse), fa risparmiare tempo e denaro alla giustizia e dunque beneficia di uno sconto di pena. Sconto che non spetta invece a chi preferisce le garanzie (e i tempi lunghi) del dibattimento. Inoltre è urgente una riforma del patteggiamento, con l’inserimento delle pene accessorie, dei risarcimenti dei danni alle vittime e alla collettività e soprattutto della necessaria ammissione di colpevolezza. Insomma, la pena patteggiata deve «fare stato» in sede civile e amministrativa, comportando le stesse conseguenze della condanna a seguito di rito abbreviato o di dibattimento. Il patteggiamento dev’essere inoltre irrevocabile, mentre oggi è addirittura impugnabile in Cassazione. 

Appello. Nel rito accusatorio, che si celebra (salvo i riti alternativi) nell’oralità del dibattimento, ricelebrare lo stesso processo sostanzialmente sulle «carte» del primo grado non ha alcun senso. Infatti il grado di appello, nei paesi di «common law», è una eccezione residuale. E così dev’essere in Italia, con la limitazione della possibilità di ricorrere in appello al solo caso di marchiani errori materiali o a quello di nuove prove emerse dopo il primo giudizio. Il tutto filtrato da un giudizio di ammissibilità che eviti l’abuso dell’impugnazione a fini dilatori. Quando poi la condanna in primo grado prevede una pena inferiore ai 2 anni, sospesa dalla condizionale, l’appello dev’essere proibito. 

Cassazione. Anche il giudizio di Cassazione s’è trasformato in qualcosa di quasi automatico: un terzo grado di giudizio di merito che non si nega pressoché a nessuno. Invece, con severi filtri di ammissibilità, dev’essere ricondotto alle sue ragioni originarie: quelle di giudizio di legittimità, per valutare l’eventuale violazione di norme penali, procedurali e di valutazione della prova. E non più per il «difetto di motivazione», vero e proprio cavallo di Troia con cui si riesce quasi sempre a far sindacare dalla Corte suprema il secondo giudizio di merito. 

Motivazione. Nel rito accusatorio, non è prevista motivazione della sentenza. In Italia invece si sono cumulate le garanzie del rito accusatorio a quelle del vecchio inquisitorio, ivi compresa la motivazione, spesso consistente in centinaia o migliaia di pagine scritte per mesi e mesi dal giudice relatore, nel timore di una bocciatura nel successivo grado di giudizio per «difetto di motivazione». Almeno per i reati di lieve entità, invece, occorre abolire la motivazione scritta e sostituirla con quella orale: nel leggere il dispositivo della sentenza, il giudice spiega succintamente le ragioni che l’hanno portato a decretare la condanna o l’assoluzione dell’imputato. Se poi il pm o il difensore intendono proporre appello, sempre con i limiti fissati dalla riforma di cui sopra, la motivazione orale viene trascritta stenograficamente e, in base a quel resoconto, verrà redatto l’appello. 

Reformatio in peius. Nel processo d’appello, così come riformato qui sopra e cioè limitato al caso di nuove prove emerse in seguito al giudizio di primo grado a carico o a discarico dell’imputato, deve cadere l’attuale assurdo divieto per il giudice di «reformatio in peius» della prima sentenza. Cioè la Corte d’appello, se rigetta il ricorso dell’imputato, può irrogargli una pena superiore a quella inflittagli in primo grado. Un deterrente contro i ricorsi dilatori, presentati soltanto per allontanare la sentenza definitiva.

Cauzione per impugnazioni. Un altro deterrente contro le impugnazioni dilatorie da parte dell’imputato, oggi praticamente gratuite e a rischio zero, dev’essere il deposito di una cauzione – per esempio di 2 mila euro – al momento della presentazione del ricorso (esclusi i soggetti non abbienti, che hanno diritto al gratuito patrocinio): se poi questo viene accolto, la cauzione torna nella disponibilità dell’imputato; se invece il ricorso viene respinto, la cauzione viene incamerata dall’amministrazione della giustizia, che può così contribuire ad autofinanziarsi. Si dirà: già oggi il ricorso in Cassazione «costa» 49 euro, ma solo sulla carta, visto che lo Stato non riesce a recuperare che il 3 per cento di tutte le spese di giustizia. Per forza: alla fine nessuno paga. Basterebbe intestare le impugnazioni non alla persona dell’imputato, ma a quella del suo difensore. Così questo, diventando responsabile in solido, si farebbe anticipare i quattrini dal cliente. Il ricavato per la giustizia sarebbe enorme: in Cassazione, fra civile e penale, arrivano ogni anno 100 mila ricorsi. Nel penale, la metà viene dichiarata inammissibile subito e un altro 25 per cento a fine processo: il 75 per cento di ricorsi respinti (35 mila su 50), con cauzioni di 2 mila euro, porterebbe allo Stato 70 milioni l’anno. Più quelli per il civile. Più, nel penale, quelli in appello e al riesame. 

Termini delle indagini. Abolizione dei limiti temporali fissati per le indagini, oggi ristrettissimi, fino a un massimo di 18 mesi (24 per reati di mafia), addirittura per i fascicoli aperti contro ignoti, senza l’iscrizione di alcun indagato. Almeno in casi di particolare gravità (stragi, depistaggi, perizie prolungate, rogatorie bloccate), dev’essere consentita al giudice terzo la facoltà di concedere al pm di indagare anche oltre il massimo di 2 anni. E i termini per indagare devono poter scattare soltanto quando viene iscritto il primo nome nel registro degli indagati. 

Nullità, inutilizzabilità, ricusazioni. Occorre sfrondare le garanzie puramente «formali» che appesantiscono inutilmente il processo, oggi pressoché infinite e riterabili all’infinito: come le continue richieste di nullità e inutilizzabilità degli atti, o le ripetute istanze di ricusazione del giudice e di astensione del pm, che giovano soltanto ai colpevoli ansiosi di tirare i processi in lungo, e non agli innocenti, interessati all’accertamento il più rapido possibile della verità. Le eccezioni di nullità e inutilizzabilità degli atti, così come quelle di incompetenza territoriale o funzionale (vedi per esempio i ricorsi per trasferire i procedimenti al tribunale dei ministri) e le richieste di astensione e ricusazione, devono diventare irripetibili: una volta respinte, non possono essere riproposte per tutto il resto del processo. Ad adiuvandum, è opportuno ridurre drasticamente i casi di inutilizzabilità degli atti, restituendo centralità al giudice nella valutazione delle prove.

Competenza. Occorre anche semplificare le regole sulla competenza territoriale, oggi talmente farraginose da provocare un gioco dell’oca giudiziario da una sede a un’altra: quando è subito evidente dov’è stato commesso il reato, l’indagine – se nata altrove – va trasferita nel tribunale che comprende quel luogo; se invece il luogo è incerto, è competente a indagare la procura che ha iscritto per prima la notizia di reato. E il processo rimane in quella sede fino alla fine, senza che nessuno possa più eccepire sul giudice competente.

Notifiche. Onde evitare di inseguire gli imputati in capo al mondo, spesso con risultati inversamente proporzionali al dispendio di risorse ed energie, le notifiche vanno inoltrate soltanto presso lo studio dell’avvocato difensore (che dev’essere uno solo, assistito eventualmente da sostituti ai quali nessuna notifica è dovuta). Spetterà a lui informare il cliente della fissazione di questa o quell’udienza. Così si eviteranno i continui rinvii delle udienze perché l’imputato, o magari uno dei suoi numerosi difensori, non hanno ricevuto la notifica. Nei giudizi di appello e di Cassazione, poi, quando l’impugnazione è stata proposta anche o soltanto dall’imputato, la notifica è abolita: sarà onere del difensore appellante informarsi presso la cancelleria della Corte sulle date delle udienze. 

Se manca un giudice. Va abrogato l’obbligo di identità fisica del giudice collegiale. Se, in un collegio di tre giudici (e dunque non nei giudizi dinanzi al gup o al giudice monocratico), uno è assente per cause di forza maggiore, può essere sostituito, senza che il processo venga rinviato o, in caso di impedimento duraturo, si debba ricominciare tutto daccapo. 

Avvocati difensori. Ciascuna parte privata (indagato o imputato, parte offesa o parte civile) deve nominare un solo avvocato difensore (eventuali altri saranno considerati semplici sostituti processuali, senza obbligo di notificare loro le udienze). Ogni avvocato non può difendere più di un indagato in una stessa inchiesta e più di un imputato in uno stesso processo: sia per evitare «accordi» tra vari soggetti, sia per evitare che le ragioni della cosca, del clan, o semplicemente dell’impresa prevalgano su quelle del diritto di ciascun individuo ad avere una difesa che cura soltanto i suoi interessi. Un’opportuna riforma dei conflitti d’interessi e un più stringente codice di autoregolamentazione dell’attività forense dovrà proibire agli avvocati eletti in parlamento o nominati ministri di esercitare la professione durante il mandato elettivo o l’incarico. E comunque non sarà mai considerato legittimo impedimento a comparire in udienza, con rinvio automatico della stessa, l’impegno parlamentare o ministeriale. 

Indagini difensive. Negli Stati Uniti l’avvocato che, pur sapendo che il suo assistito sta mentendo alla giustizia o sta portando prove false al processo, avalla il suo comportamento anziché denunciarlo, viene incriminato e spesso arrestato su due piedi per oltraggio alle Corte o frode processuale o ostruzione alla giustizia o favoreggiamento. Non si pretende tanto, per l’Italia. Ma almeno una profonda riforma della legge sulle indagini difensive del 2001 (altro frutto avvelenato degli inciuci destra-sinistra), questa sì. La legge attuale consente al difensore di investigare per conto di un cliente già indagato o che prevede di diventare indagato o parte offesa. Da quel momento il difensore assume la veste di pubblico ufficiale e può convocare testimoni per verbalizzarne le dichiarazioni, anche se non sono stati ancora sentiti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria; a patto che le registri tutte, anche quelle eventualmente sfavorevoli al suo assistito (altrimenti commette un reato punito fino a 4 anni). Poi però non ha l’obbligo di depositarle tutte: sceglie lui quali depositare e quali no, a seconda del tornaconto del cliente che lo paga. Va introdotto l’obbligo di depositare tutte le dichiarazioni raccolte nelle indagini difensive (se l’avvocato teme che qualcuna sia sfavorevole al suo assistito, rinuncia a fare le indagini) e il divieto di sentire testimoni che non siano già stati sentiti dal pm o dalla polizia. Altrimenti, quando poi vengono interrogati dagli organi pubblici deputati all’accertamento della verità, c’è il rischio che i testi siano già «formattati», per non dire intimiditi, su una versione precostituita.

Attenuanti generiche. Bisogna rivedere l’istituto delle attenuanti generiche, attualmente troppo generalizzate e quasi automatiche per gli incensurati. Esse, riducendo sensibilmente il termine di prescrizione, creano la figura abnorme dell’«incensurato a vita»: cioè di colui che, salvato continuamente dalla prescrizione, seppur ritenuto colpevole non viene mai condannato e continua dunque, in quanto formalmente incensurato, a beneficiare delle attenuanti e della prescrizione. Basterebbe stabilire il divieto di concedere le generiche a chi ha beneficiato della «prescrizione» in seguito all’accertamento della sua responsabilità penale. Oppure il divieto di concedere le attenuanti generiche per più di una volta allo stesso soggetto. 

Agenti provocatori. Sul modello americano, è il momento di introdurre anche in Italia, almeno per la pubblica amministrazione, la figura dell’agente provocatore, cioè dell’agente di polizia giudiziaria che offre denaro o altre utilità per scovare pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio disponibili a farsi corrompere, o a esercitare traffici di influenze illecite. Se costoro accettano l’offerta dell’agente mascherato da corruttore, vengono arrestati in flagrante e puniti esattamente come i corrotti. 

Diritto al silenzio. Oggi, in Italia e solo in Italia, l’indagato e l’imputato hanno il diritto di tacere, di mentire e di ritrattare impunemente. Vanno dunque riformulate, di pari passo con l’articolo 111 della Costituzione (vedi sopra), le norme procedurali che presiedono al diritto al silenzio. Fermo restando che «nemo tenetur se detegere» (nessuno può essere obbligato ad accusarsi, di qui il celeberrimo Quinto Emendamento americano), l’indagato e l’imputato possono avvalersi della facoltà di non rispondere soltanto quando le domande riguardano la loro posizione e dunque le loro risposte potrebbero incriminarli. Quando invece si riferiscono a soggetti terzi rispetto alla propria posizione, sono equiparati in tutto e per tutto alla figura del testimone, cioè obbligati a rispondere, pena l’incriminazione per reticenza. Quando poi rispondono, su se stessi (per libera scelta) o su posizioni altrui (per obbligo di legge), sono tenuti a dire la verità: pena l’incriminazione per falsa testimonianza, oltraggio alla Corte ed eventualmente favoreggiamento. Nel caso in cui poi, nonostante le nuove norme, l’imputato di reato connesso o collegato, ma anche il testimone, rifiuti di presentarsi o di rispondere nel processo a carico di coindagati o coimputati, ma abbia risposto in fase d’indagine dinanzi al pm o alla polizia giudiziaria, il pm potrà dare lettura al dibattimento delle sue dichiarazioni affinché il giudice le tenga in debito conto. Lo stesso vale nel caso in cui il soggetto modifichi o ritratti le dichiarazioni rese in precedenza. Infine, va abrogata la norma dell’estate 1995 che cancellava l’arresto in flagranza per il testimone menzognero o reticente e va ripristinata quella, voluta da Giovanni Falcone, che lo consentiva: sia per le menzogne o i silenzi del testimone, sia per quelli dell’indagato di reato connesso o collegato.

Intercettazioni. Oggi la gran parte dei costi per le intercettazioni telefoniche e ambientali – circa 250 milioni l’anno – dipende da due fattori: lo Stato non possiede le apparecchiature necessarie per intercettare e ascoltare, dunque le affitta da aziende private; per ogni linea da intercettare le compagnie telefoniche si fanno pagare il costo della bolletta della relativa scheda-utente (così incassano due bollette per ogni linea: una dall’utente, l’altra dello Stato che lo intercetta). Va dunque vietato il ricorso ad aziende private, mediante l’acquisto da parte dell’amministrazione della giustizia delle apparecchiature necessarie per intercettare, costo che si sostiene una tantum e si ammortizza facilmente, con notevoli risparmi di bilancio. E, soprattutto, va imposto alle compagnie telefoniche, tutte concessionarie dello Stato, di mettere a disposizione gratuitamente le linee da intercettare (come avviene in altri paesi, vedi Francia e Germania), pena la revoca della concessione pubblica.

Riforme sostanziali
Depenalizzazione. Per deflazionare i carichi della giustizia, che in Italia celebra ogni anno 3 milioni di nuovi processi penali con le stesse risorse con cui quella britannica ne celebra 300 mila (a parità di detenuti), occorre depenalizzazione una serie di reati minori (purché siano veramente minori), sostituendo le sanzioni penali con quelle amministrative oppure con «risarcimenti per equivalente», che sostituiscano quelle irrogate al termine dei tre gradi di giudizio, i quali verrebbero così evitati.

Segreto investigativo. Oggi, secondo l’articolo 329 del codice di procedura penale, il segreto delle indagini cade «quando l’imputato ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Ma, in totale contraddizione con questa norma, sopravvivono gli articoli 114 e 115 del codice di procedura penale e il 684 del codice penale, secondo i quali tutti gli atti d’indagine, sebbene non siano più segreti, non possono essere pubblicati nel testo integrale o parziale e devono essere parafrasati con altre parole dal giornalista senza riferimenti al testo originario, con grave lesione per il diritto di cronaca e grave danno per la completezza dell’informazione dovuta ai cittadini. Spesso i giornalisti, per informare più compiutamente su vicende giudiziarie di grande interesse pubblico, sfidano il codice penale, grazie anche al fatto che la pena prevista dall’articolo 684 è molto blanda: arresto fino a 30 giorni, sostituibile con un’ammenda da 51 a 258 euro, che consente di chiudere il processo pagando una piccola oblazione (pari alla metà del massimo): 129 euro. Ora, l’articolo 684 del codice penale, nonché il 114 e 115 del codice di procedura penale, devono essere drasticamente modificati, abrogando totalmente il divieto di pubblicazione, anche testuale e integrale, di tutti gli atti d’indagine non coperti da segreto. Non solo, ma dev’essere riconosciuto il ruolo fondamentale della libera stampa nel processo penale e civile: i giornalisti dovranno avere libero accesso nelle cancellerie delle procure e dei tribunali agli atti d’indagine nel momento in cui vengono resi noti agli indagati e ai difensori, senza doverli elemosinare sottobanco, spesso con compromessi opachi con le fonti, che non sono mai neutre e disinteressate. Un atto non è più segreto? In quel momento il cronista può trarne copia per informarne compiutamente i cittadini. Non solo nel contenuto o per riassunto, ma nella forma più completa ed esaustiva che si conosca: quella testuale.

Corruzione-concussione. Va riproposta l’idea lanciata a Cernobbio nel settembre del 1994, in piena Tangentopoli, dal pool Mani Pulite e da un gruppo di giuristi e docenti universitari. Era articolata in tre punti. 
A) I reati di corruzione e concussione diventano uno solo. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che accetta da terzi denaro o altra utilità, non importa se costretto o meno, e così colui che glieli dà o glieli offre, in cambio di un favore lecito o illecito, commette reato grave che dev’essere punito di conseguenza. Se – come il concusso nell’attuale reato di concussione (che lo vede nel ruolo di vittima innocente e non punibile) – il corruttore è indotto a pagare o a promettere di farlo al solo scopo di evitare il pericolo di un danno ingiusto minacciato dal pubblico ufficiale, ottiene una speciale attenuante che gli dimezza la pena. 
B) Legislazione premiale per incentivare il «pentitismo» (con sconti fino a due terzi della pena) anche su questo reato, cioè per incoraggiare il corruttore o il corrotto che va spontaneamente a confessare e a denunciare i complici, «prima che la notizia di reato sia stata iscritta a suo nome e comunque entro tre mesi dalla commissione del fatto». Sempreché restituisca il maltolto fino all’ultima lira. E con la sanzione automatica della decadenza e dell’interdizione dai pubblici uffici per il corrotto e del divieto di contrattare in futuro con la pubblica amministrazione per il corruttore. In pratica, si rompe il vincolo di omertà fra corruttore e corrotto e si innesca una corsa a chi arriva prima a denunciare se stesso e l’altro per guadagnarsi l’impunità. L’obiettivo è far emergere gran parte del sommerso del malaffare politico-amministrativo, prosciugando la fonte di possibili ricatti e veleni. C) Linea dura con chi arriva fuori tempo massimo, o non confessa tutto, o viene colto con le mani nel sacco; custodia cautelare obbligatoria per corrotti e corruttori, come per i mafiosi, con sostanziosi aumenti delle pene. È anche opportuno allargare le figure di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio a tutti i soggetti che esercitano funzioni o attività corrispondenti in Stati esteri, nell’Unione europea e in organizzazioni pubbliche internazionali. 

Corruzione fra privati. Ripropongo qui la proposta lanciata lo scorso anno sul Fatto Quotidiano, con l’aiuto di magistrati e giuristi, per l’introduzione di una serie di reati ancora scandalosamente sconosciuti all’ordinamento italiano, ma previsti dalle Convenzioni penale e civile del Consiglio d’Europa sulla corruzione, siglate a Strasburgo rispettivamente il 27 gennaio e il 4 novembre 1999 da tutti gli Stati membri dell’Ue e non solo dell’Ue, ma mai ratificate dal parlamento italiano. Il primo è la «corruzione in affari privati»: i dipendenti, i consulenti, i collaboratori di una società che indebitamente ricevono, per sé o per terze persone, denaro o altra utilità, o ne accettano la promessa in relazione al compimento, all’omissione o al ritardo di atti rientranti nei propri incarichi e funzioni, ovvero al compimento di atti contrari ai propri doveri, sono puniti con la reclusione da 1 a 4 anni (e così, naturalmente, i loro corruttori). Se si tratta di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei bilanci, sindaci e liquidatori, la pena aumenta sia per i corrotti sia per i corruttori, e va da un minimo di 2 anni a un massimo di 8. Per tutti, la condanna implica l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.

Traffico di influenze. Il reato di millantato credito (attualmente punito dall’articolo 346 del codice penale) sparisce e viene sostituito e ampliato con un nuovo reato previsto dalla Convenzione europea anticorruzione: il «traffico di influenze illecite». È quello che i giudici di Firenze, indagando sulla cricca della Protezione civile, definirono «sistema gelatinoso»: una ragnatela di opacità reciproche a base di piccoli e grandi regali o scambi di favori che, anche quando non si traducono nella classica mazzetta, comportano enormi lievitazioni dei costi delle opere pubbliche, falsando il libero mercato, annullando la concorrenza e ribaltando la meritocrazia in demeritocrazia. Dunque: chiunque riceve per sé o per altri denaro o altra utilità (anche soltanto in forma di promessa) in cambio dell’influenza illecita che sostiene di poter esercitare su un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio in relazione al compimento, all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio o servizio, oppure al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. E chi gli dà o promette denaro a quello scopo è punito con la reclusione da 2 a 6 anni. Le pene aumentano se il percettore del denaro è a sua volta un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. E aumentano vieppiù se il traffico d’influenze è finalizzato ad alterare l’esito di un processo. Per tutti, la condanna comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Anche in questo caso, le figure di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio vanno estese a tutti i soggetti che esercitano funzioni o attività corrispondenti in Stati esteri, nell’Unione europea e in organizzazioni pubbliche internazionali. 

Autoriciclaggio. Va introdotto anche un altro reato, previsto dalla Convenzione europea e incredibilmente ancora sconosciuto in Italia: quello di «autoriciclaggio», per punire finalmente chi reimpiega il denaro ricavato da un reato da lui commesso, attività che attualmente in Italia non è punita dalla legge (mentre lo è per esempio negli Stati Uniti, in Francia e persino in Svizzera). Oggi infatti il 648bis (riciclaggio) e il 648ter (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) puniscono con la reclusione da 4 a 12 anni e con la multa da 1.032 a 15.493 euro, rispettivamente «chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione a essi altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa» e «chiunque impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto»; ma «soltanto fuori dei casi di concorso nel reato». Queste ultime sette parole vanno cancellate: così finalmente chi vende droga o incassa il pizzo o sequestra persone o traffica in esseri umani o prende tangenti o evade le tasse e poi rimette in circolo il denaro sporco così ottenuto in attività edilizie o finanziarie, può essere punito non solo per le attività illecite impiegate per guadagnare soldi sporchi, ma anche per averli riciclati e ripuliti.

Voto di scambio. Oggi il codice penale (art. 416ter) punisce il voto di scambio politico-mafioso solo quando il mafioso «ottiene la promessa di voti […] in cambio della erogazione di denaro». Ma è rarissimo il caso di un politico che compri voti mafiosi in cambio di denaro. Basterebbe aggiungere in coda «o altra utilità» per comprendervi tutte le fattispecie più diffuse del voto di scambio: che avviene di solito in cambio di appalti e favori di ogni genere alle cosche da parte della pubblica amministrazione.

Concorso esterno in associazione mafiosa. Oggi, per integrare il reato, occorre una prova quasi impossibile (a parte i casi più eclatanti) per dimostrare non solo i rapporti organici tra l’organizzazione mafiosa e il soggetto esterno, ma anche la messa a disposizione di quest’ultimo nei confronti della prima, e il contributo di rafforzamento permanente offerto da quest’ultimo alla prima. In una parola, un prolungato, sistematico, stabile «do ut des». Almeno per i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, il reato va formulato con una tipizzazione che punisca chiunque, durante l’esercizio delle sue funzioni pubbliche, intrattenga rapporti non sporadici e consapevoli con esponenti di un’organizzazione mafiosa. Già il fatto di avere rapporti non episodici con un membro della pubblica amministrazione o con un politico, infatti, contribuisce a rafforzare l’organizzazione mafiosa che quei rapporti detiene. 

Falso in bilancio. Deve essere abrogata la legge Berlusconi sui delitti societari del 2001-2002 e dunque va ripristinato il falso in bilancio come reato «di pericolo» e non più «di danno», con aumenti di pena che inneschino il necessario effetto deterrente e consentano le intercettazioni e la custodia cautelare in carcere. Per farlo, occorre modificare gli articoli 2621, 2622 e 2624 del codice civile:
Articolo 2621. È quello che disciplina le «false comunicazioni sociali». Con la controriforma del 2001-2002, per punire «gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori» che, «al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto», truccano «bilanci, relazioni o altre comunicazioni sociali […] dirette ai soci o al pubblico» esponendovi «fatti materiali non rispondenti al vero […] ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo a indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione», occorre anzitutto dimostrare che l’hanno fatto «con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico». Il nuovo 2621 deve cancellare quest’ultima condizione, praticamente indimostrabile. La pena prevista, attualmente irrisoria («l’arresto fino a 2 anni», che fa delle false comunicazioni sociali non un delitto, ma una contravvenzione) deve passare alla reclusione fino a 6 anni. Non basta: vanno pure cancellate le soglie di non punibilità previste dalla controriforma Berlusconi (commi 3, 4 e 5 dell’articolo 2621) per i falsi in bilancio che «non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene» e comunque inferiori al 5 per cento «dell’utile prima delle imposte, all’1 per cento del patrimonio netto e al 10 per cento delle valutazioni estimative. Devono scomparire cioè quelle enormi aree di franchigia che hanno fatto parlare gli esperti di «modica quantità» di falso in bilancio consentita per legge.
Articolo 2622. La vecchia definizione di «false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori» va riformulata in «false comunicazioni nelle società quotate in Borsa». Oggi, per punire chi trucca i bilanci di una società quotata, il magistrato non può procedere d’ufficio: deve sperare nella «querela della persona offesa», cioè dell’azionista (che, se è quello di controllo, di solito è il mandante del reato; se è un piccolo azionista può essere tacitato facilmente; se invece è un creditore, di solito ignora il reato: insomma, la querela non arriva mai). E comunque la sanzione è irrisoria: reclusione da 6 mesi a 3 anni. Il nuovo articolo 2622 non deve prevedere più la querela obbligatoria, ma si deve poter procedere anche d’ufficio, e la pena viene elevata a 8 anni. E, con l’aggravante per i falsi in bilancio che danneggiano gravemente i risparmiatori o la società, scatta un aumento di pena della metà, cioè si può arrivare fino a 12 (che sono comunque la metà della pena massima prevista dalla legge Serbanes-Oxley varata dal governo Bush dopo i crac Enron e Worldcom).
Articolo 2624. È quello che disciplina le «falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione». Anche qui vanno eliminate le assurde condizioni imposte per la punibilità del reato di falsità nelle relazioni delle società di revisione: e cioè «la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni», e l’aver «cagionato un danno patrimoniale»: sarà sufficiente che il falso sia stato commesso «consapevolmente». Il reato, attualmente degradato a semplice contravvenzione e punito con l’arresto fino a 1 anno, deve diventare delitto e la pena passa alla reclusione fino a 6 anni. Che diventano 8 se il reato è commesso a proposito di una società soggetta a revisione obbligatoria. E diventano 12 se la società ha subìto «un grave nocumento» dalla falsa relazione. 

Responsabilità delle imprese. Il decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 disciplina la responsabilità delle società («enti forniti di personalità giuridica e società e associazioni anche prive di personalità giuridica») per gli illeciti amministrativi dipendenti dai reati commessi da loro dirigenti o dipendenti. Illeciti che vengono puniti dal giudice penale con sanzioni pecuniarie calcolate per «quote»: una quota va da un minimo di 250 a un massimo di 1.500 euro. L’importo della quota lo stabilisce il giudice in base alle condizioni economiche e patrimoniali della società. Il numero delle quote da pagare dipende dalla gravità del fatto, dal grado di corresponsabilità della società e dalle attività svolte per eliminare o attenuare le conseguenze del reato e prevenirne di ulteriori. La 231 prevede anche confische di beni della società e sanzioni interdittive (interdizione dall’esercizio dell’attività; sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni; divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi; divieto di pubblicizzare beni o servizi). Occorre inserire fra i reati che comportano le sanzioni alle società, oltre alla nuova fattispecie di corruzione (che ingloba anche la vecchia concussione), la corruzione fra privati e il traffico d’influenze illecite. E poi aggravare le sanzioni pecuniarie fino a 800 quote per le società coinvolte. 

Reati fiscali. Drastica riforma all’americana della legge penale tributaria, incentrata su quattro capisaldi. 1) Chiunque mente, in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, sui propri introiti nella dichiarazione dei redditi – fatti salvi errori formali o di scarsissima entità sanabili con sanzioni amministrative – commette reato: vengono così abrogate le incredibili «soglie di non punibilità» previste dalla normativa attuale, che dopo l’ultima manovra finanziaria sono state portate a 30 mila euro l’anno di imposta evasa per la frode fiscale con false fatture o altri artifici fraudolenti e a 50 mila per la dichiarazione infedele (il tradizionale «nero» delle partite iva), e che nella versione precedente, opera del centro-sinistra, erano rispettivamente di 77 e di 103 mila euro l’anno. 2) Se proprio si vuole conservare la distinzione fra il reato più grave di «frode fiscale» (oggi punito fino a 6 anni, con possibilità di custodia cautelare e intercettazioni) e quello più lieve di «dichiarazione infedele» (punito fino a 3 anni, senza custodia cautelare né intercettazioni), occorre aumentare le pene per entrambi: fino a 15 anni di carcere per la prima e fino a 10 per la seconda. Così, in entrambi i casi, sono possibili la custodia in carcere e le intercettazioni, e la prescrizione diventerebbe impossibile anche se non venisse riformata (vedi sopra). Così finalmente le «manette agli evasori» non resterebbero solo nei proclami e sulla carta, ma diventerebbero realtà quotidiana. 3) Massima pubblicità alle dichiarazioni dei redditi e incentivi a chi denuncia evasori fiscali (denunciare un reato grave come l’evasione non è «delazione»: è un dovere civico). 4) Rovesciamento dell’onere della prova per chi manifesta un tenore di vita incompatibile con quanto dichiara di guadagnare: un tizio, ufficialmente indigente, sorpreso a bordo di uno yacht o di un’auto di lusso dovrà dimostrare convincentemente alla guardia di finanza con quali soldi li ha acquistati e, se non ci riuscirà, questi gli verranno immediatamente confiscati. Chi si dichiara pezzente viva da pezzente. 

Giustizia e politica
Immunità. È giusto che i membri del parlamento non possano essere direttamente intercettati, né arrestati (ma perquisiti sì, e dunque le perquisizioni vanno espunte dall’articolo 68 della Costituzione) senz’autorizzazione. Ma questa non può essere affidata alla Camera di appartenenza, caso tipico di giustizia domestica e di conflitto d’interessi: le richieste di autorizzazione nei confronti dei parlamentari devono essere esaminate dalla Corte costituzionale. Per il resto, i parlamentari non devono godere di alcun altro trattamento giudiziario di favore rispetto agli altri cittadini. Se parlano con un soggetto intercettato, i magistrati possono utilizzare le loro conversazioni sia contro di loro, sia contro il soggetto intercettato senza passare per il parlamento. Se si tratta di ministri accusati di un reato commesso durante il mandato, l’eventuale competenza del tribunale per i reati ministeriali può essere decisa esclusivamente dal pm e dal gip titolari dell’indagine, senz’alcuna interferenza (o conflitto di attribuzioni alla Consulta) della giustizia domestica parlamentare. Idem per l’insindacabilità delle opinioni: se queste, in caso di processi per diffamazione, siano state espresse o meno nell’esercizio delle funzioni parlamentari, lo stabiliscono il pm e il gip titolari dell’indagine, e non la giustizia domestica parlamentare.

Incandidabilità dei condannati. Chiunque sia stato definitivamente condannato, o abbia patteggiato la pena, fatta eccezione per i reati di opinione, per delitti colposi e per quelli squisitamente politici (manifestazione non autorizzata, resistenza alla forza pubblica, blocco stradale, interruzione di pubblico servizio, vilipendio e così via), non solo è ineleggibile e dunque decade dalle funzioni parlamentari se già le ricopre, ma diventa anche incandidabile in perpetuo, e interdetto per sempre dai pubblici uffici. 

Leggi da abrogare
Tutte le leggi vergogna in materia di giustizia approvate dal 1994 a oggi dal centro-destra e dal centro-sinistra (separatamente e insieme), devono essere abrogate per decreto con un tratto di penna e sostituite dalle normative precedenti. In particolare (non citeremo quelle di cui già abbiamo parlato sin qui): controriforma della custodia cautelare (1995); depenalizzazione dell’abuso d’ufficio non patrimoniale (1997); legge Simeone-Saraceni sulla (non) esecuzione delle sentenze definitive (1998); legge Sofri che consente di chiedere la revisione dei processi in sedi diverse da quella dov’è stato pronunciato il primo giudizio (1998); controriforma dei pentiti che ha tagliato i benefici per i collaboratori di giustizia e li ha obbligati a rendere tutte le dichiarazioni nei primi sei mesi di collaborazione (2001); legge Cirami sul legittimo sospetto (2002); legge pro Carnevale che ha consentito al cosiddetto «ammazzasentenze» di tornare in Cassazione fino al 2013, quando avrà 83 anni, per recuperare quelli perduti durante il processo per mafia, dal quale uscì assolto per un cavillo (2003); legge Boato-Schifani sulla non intercettabilità, neppure indiretta, dei parlamentari (2003); ex Cirielli sul trattamento aggravato per i recidivi e il dimezzamento della prescrizione per gli incensurati (2005); legge salva-tangenti che ha portato da 5 a 50 mila euro il tetto sotto il quale i partiti possono incassare soldi da privati senza l’obbligo di dichiararli né rischiare l’incriminazione per illecito finanziamento ai partiti (2006); legge Mastella-Castelli sull’ordinamento giudiziario che ha di fatto separato le carriere dei magistrati e aumentato a dismisura le interferenze politiche nell’autonomia della magistratura (2008); norme sui servizi segreti che hanno allargato all’infinito le possibilità di porre il segreto di Stato, per salvare gli spioni Telecom e i vertici del Sisde coinvolti nel sequestro Abu Omar e nelle schedature illegali (2007-2008). 
Tabula rasa, per ricominciare. 




http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-programma-per-la-giustizia-penale/

Di Chi sono i Tuoi Soldi? - DI GIANPAOLO MARCUCCI



diodenaro



Il debito di uno Stato è per definizione un debito pubblico. 


Ciò significa che a farlo sono i politici, ma a pagarlo sono tutti i cittadini. Il creditore del debito pubblico è colui che possiede i Titoli di Stato, e i Titoli di Stato italiani, sono in mano per lo più a banche, compagnie di assicurazione e fondi d’investimento. 
Ma se i creditori del debito pubblico sono privati e tale debito è stato contratto da politici corrotti, perché sono i cittadini a doverne pagarne le conseguenze?


La parola debito sembra essere l'unica costante della nostra economia, la moneta stessa oggi viene emessa a debito
ma il debito è un sistema senza fine. 
Più si è indebitati e più bisogna indebitarsi e gli stati europei - ma non solo - hanno oggi debiti pubblici di entità superiore ai loro PIL e non godendo più della sovranità monetaria, ovvero non potendo stampare autonomamente moneta, all’occorrenza sono costretti a chiedere un prestito alle banche centrali, a loro volta controllate da banche private
Come se non bastasse, a livello mediatico l’obbligo di pagare sempre e comunque il debito è un concetto assodato per chiunque. 
Nessun giornale o canale televisivo accennerà mai alla possibilità di non pagarlo. Grazie a questo sistema, un gruppo ristretto di privati è oggi in grado di indebitare interi stati e all’occorrenza, di dichiararli sul baratro, così da potergli prestare ulteriore denaro. Se si segue la regola secondo la quale qualsiasi legge va rispettata, seppur lo si trovi assurdo, non si può uscire da tale logica, in quanto il debito pubblico per legge va pagato. 
Ma la legge non è sempre sinonimo di giustizia, pertanto quando essa nuoce ai più per favorire i pochi, è indubbio che essa vada modificata e di sicuro non vi è alcun obbligo morale di rispettarla. Se si ritiene che non sia etico, non sia equo o non sia corretto pagare un debito pubblico contratto da politici corrotti nei confronti di banchieri privati, va fatto di tutto per far comprendere all’intera popolazione la natura fraudolenta di tale debito e la natura egualmente fraudolenta delle manovre economiche proposte dall'alto per sanarlo.


Inventiamo nuovi strumenti che ci permettano di uscire dalla catena della debitocrazia partendo dalla presa di coscienza che alternative a questo sistema esistono e che non sono così irraggiungibili come vogliono farci credere.

Violenze al carcere minorile: tutti sapevano Un ex detenuto: “Era una guerra tra bande”. - di Giulia Zaccariello e Ilaria Giupponi.




Il ministro della Giustizia Paola Severino ha azzerato in un solo giorno i vertici dell'amministrazione penitenziaria a Bologna e la Procura ha aperto un fascicolo. Secondo gli ispettori del ministero tutti sapevano, ma non hanno mai denunciato cosa avveniva dentro al Pratello.

Di quei tre anni passati nel carcere è rimasta solo una cicatrice sul viso, uno sfregio guadagnato a 17 anni dopo un regolamento di conti tra detenuti. Oggi Aldo, ex adolescente rinchiuso nell’istituto minorile di Bologna, ricorda quell’episodio con distacco, come uno dei tanti che ogni giorno scandivano la vita dei giovani nella struttura. Risse, angherie, scherzi che sfociavano in prepotenze e scene del peggior bullismo. Una realtà con cui ha dovuto convivere dal 2007 al 2010, e che non è mai trapelata fuori dalle mura di quell’edificio a due passi dalla centro città. Fino all’ispezione ordinata a dicembre dal ministero della Giustizia, che ha azzerato i vertici dell’amministrazione carceraria minorile a Bologna, tutto è rimasto nascosto.

Non una denuncia né una parola che raccontasse quale difficile mondo fossero costretti ad affrontare ogni giorno i ragazzi. Un quadro a tinte fosche, in parte già raccontato dagli ispettori mandati dal ministro Paola Severino, su cui ora proverà a far luce anche un’inchiesta avviata dalla procura. E che ogni giorno si arricchisce di nuove storie di violenze. Come quella di Aldo raccolta dal fattoquotidiano.it.

“I litigi molte volte avvenivano all’insaputa degli agenti, ce la sbrigavamo fra noi – spiega il giovane al telefono – Funzionava così: il pesce piccolo veniva mangiato dal pesce più grosso. In altre parole, vinceva sempre il più forte”. Detenuto per tentato omicidio, furti vari e rapina a mano armata, Aldo rimane al Pratello di Bologna per tre anni: “Non sempre c’era un motivo alla base delle violenze. Basta che un giorno un ragazzo si alzi col piede storto. È bullismo, ti mettono alla prova.”. E via con le prepotenze: “Sparivano i vestiti. Altre volte erano gli altri detenuti che ti obbligavano a darglieli, e se non lo facevi rischiavi che ti spaccassero la faccia durante l’ora d’aria. Era fastidioso perché ti prendevi un provvedimento disciplinare o una denuncia per cosa? Un paio di pantaloni”. Motivi futili, ma quando si è dentro, ammette ancora, si è costretti a reagire. “Se stai zitto tutti gli altri ragazzi ti prendono di mira, perché diventi il pollo della situazione”. E si rischia grosso. “A me è stata tagliata la faccia con una lametta, perché volevano che i miei compagni di cella lavassero i pantaloni a un capo della gang. Ho reagito, e se non l’avessi fatto magari mi avrebbero tagliato anche la gola. Non sapevi mai quello che poteva succederti”.

Aldo rivela poi i trucchi per procurarsi le armi. “Venivano create rompendo dei termosifoni e affilando i pezzi. Ne uscivano vere e proprie lame. Oppure venivano rotti i sanitari: la porcellana è micidiale”. E quelli che lui chiama “giochi” appaiono come delle punizioni tra detneuti al limite della tortura. “Il più comune era il gioco della “bicicletta”: quando dormivi ti mettevano la carta tra le dita dei piedi e poi le davano fuoco”.

Ma le violenze non erano solo tra i ragazzi o tra le diverse bande del carcere. “Spesso i detenuti si credevano così potenti da alzar le mani anche contro gli agenti. Ma in tre anni non ho mai visto un poliziotto alzare le mani su uno di noi”. Mentre per quanto riguarda eventuali casi di violenze sessuali, Aldo nega: “Non ne ho mai sentito parlare. Ovviamente io non sono più lì dentro e non posso sapere, ma a meno che non sia cambiato il personale, non credo sia successo”.

Il racconto di Aldo conferma in parte ciò che è già emerso dalle indagini del ministero della Giustizia. Nella relazione finale dell’ispettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, mandato il 6 dicembre scorso, si parla di quattro tentativi di suicidio, un presunto abuso sessuale nei confronti di un ragazzo di quindici anni da parte di altri detenuti, risse, agenti della polizia penitenziaria percossi, estorsioni, incendi, danneggiamenti e lesioni. Ma anche di punizioni sopra le righe, manette usate impropriamente, scappellotti ai ragazzi detenuti e un uso eccessivo della cella di isolamento, a volte utilizzata dopo aver smontato la finestra, per lasciare i giovani al freddo.

I reati sarebbero stati annotati nel registro disciplinare della struttura ma mai comunicati all’autorità giudiziaria. Per questo motivo il ministro Paola Severino ha già rimosso dai loro incarichi Lorenzo Roccaro, direttore del carcere del Pratello, di Giuseppe Centomani, direttore del Centro giustizia minorile di Bologna, e di Aurelio Morgillo, comandante della polizia penitenziaria. Mentre la procura di Bologna, su segnalazione del procuratore capo dei minori, Ugo Pastore, ha aperto un fascicolo (per ora non risultano indagati) per omissione di rapporto.

Gli incarichi ora sono stati affidati a Paolo Attardo, che assumerà ad interim la guida del Centro di giustizia minorile di Bologna, a Francesco Pellegrino, nuovo direttore del Pratello e ad Alfio Bosco, capo della polizia penitenziaria.