lunedì 6 settembre 2021

Chiedeva il pizzo, arrestato noto amministratore giudiziario.

 

Le indagini dei finanzieri hanno inchiodato il commercialista Antonio Lo Mauro, 54 anni, che era stato nominato dal tribunale Misure di prevenzione dopo lo scandalo Saguto. Emerse condotte illecite.

Estorsione e abuso di potere. Con questa accusa la guardia di finanza - su delega della Procura della Repubblica di Palermo - ha dato esecuzione a un'ordinanza emessa dal Gip del Tribunale del capoluogo, con la quale è stata applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del noto commercialista Antonio Lo Mauro, 54 anni, "indagato per il reato di estorsione aggravata dall'abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione".

Lo Mauro era stato nominato sei anni fa dal tribunale Misure di prevenzione dopo lo scandalo Saguto. Adesso, le indagini eseguite dal nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza di Palermo hanno fatto emergere "condotte illecite tenute dall'indagato nell'ambito di rapporti lavorativi correlati all'incarico di amministratore giudiziario che lo stesso riveste dal settembre del 2015, su nomina del Tribunale di Palermo".

In questo contesto, Lo Mauro "avrebbe costretto un consulente fiscale e contabile delle società in amministrazione giudiziaria a corrispondergli indebitamente, in più tranche, la somma complessiva di 5.000 euro in contanti, nonché a pagare indebitamente un debito di 6.240 euro contratto dallo stesso Lo Mauro con un altro professionista". Dalla finanza concludono così: "Prosegue l'azione delle fiamme gialle palermitane, con il coordinamento della locale Procura della Repubblica, a tutela della corretta esecuzione delle delicate funzioni connesse allo svolgimento delle procedure di amministrazione straordinaria delle imprese oggetto di sequestro e confisca".

PalermoToday

“Dopo Mani Pulite, siamo alle mani libere per i potenti”. - Vincenzo Bisbiglia

 

Una “stagione delle mani libere” è alle porte. Un “assalto finale del sistema” politico alla giustizia: “Tutte le riforme di quest’ultimo periodo sono state di palazzo, derivanti dall’esigenza di abbattere il rischio per le classi dirigenti”. Il procuratore generale uscente di Palermo, Roberto Scarpinato, l’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo e il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, alla Festa del Fatto Quotidiano hanno attaccato duramente il tentativo del governo di Mario Draghi di mettere mano alla giustizia. Intervistati da Valeria Pacelli nel corso del dibattito “La giustizia al tempo dei migliori”, non sono mancate critiche anche ai sei referendum proposti da Lega e Partito Radicale.

Sulla riforma voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, Scarpinato ha parlato di “una forma di amnistia strisciante e permanente”, spiegando che “ogni anno il Parlamento, i cui componenti ridotti nel numero sono tutt’oggi nominati dall’establishment, deve stabilire la priorità nei processi, quali si devono celebrare e quali no”. Un “assalto finale da parte della politica”, appunto, iniziato con la Seconda Repubblica, quando “tutta la classe dirigente ha dovuto mettere in moto due distinte manovre”. “La prima – ha detto Scarpinato – è stata la depenalizzazione selettiva dei reati della classe dirigente. Sono state abbassate le pene e ridotti i termini della prescrizione”. “La seconda”, ha aggiunto, “è il tentativo continuo di sottoporre i pubblici ministeri al controllo politico”. Il magistrato ha portato ad esempio i disegni di legge proposti da Luciano Violante che nel 2008 “per far iniziare le indagini alla polizia e non ai pm”, e di Andrea Orlando, nel 2017, per l’utilizzabilità delle intercettazioni. Ora la riforma Cartabia, “l’assalto finale del sistema”, appunto. “Se è vera – ha detto – la stima dell’Unione europea secondo cui la corruzione in Italia vale 60 miliardi l’anno, vuol dire che il 30-40% se li prenderanno i soliti noti”.

Non c’è solo la riforma del governo Draghi a tenere banco. A breve al vaglio della Corte Costituzionale arriveranno anche i referendum sulla giustizia sottoscritti anche da Italia Viva. Secondo Davigo, “le intenzioni sono le peggiori”. “Questi pensano che i cittadini siano dei cretini – ha affermato l’ex magistrato di Mani Pulite – La Lega per anni ha fatto una campagna sulla sicurezza” e “ora prende in giro i suoi elettori”. Se andasse in porto il referendum sui limiti alla custodia cautelare, ad esempio, “se uno viene a casa tua e la svaligia, il ladro lo possono arrestare ma poi lo devono rilasciare, perché non può restare in carcere”. Non solo. “La responsabilità diretta dei magistrati non c’è in nessun paese al mondo. Chi sbaglia paga è uno slogan cretino”. Se passasse questo concetto, “potrebbero iniziare a crearsi rapporti non chiari con gli avvocati e vi sarebbero cause pretestuose, in via preventiva, per togliersi di mezzo un giudice scomodo”. Gli fa eco Scarpinato. “Ripropongono ciclicamente anche la separazione delle carriere, per portare i magistrati sotto il controllo dell’esecutivo”. Insomma: “La questione giustizia in questo Paese è irredimibile a causa del gioco politico. È la stagione delle mani libere”.

Negli ultimi due anni la magistratura ha dovuto affrontare anche la crisi culminata con l’indagine per corruzione ai danni dell’ex magistrato romano Luca Palamara, già membro del Csm, che secondo quanto emerso sarebbe stato primo attore di una “guerra tra correnti” che ha condizionato le nomine nelle principale procure italiane. “Palamara non votava da solo – ha affermato Nicola Gratteri – e non poteva da solo condizionare tutte le nomine che si sono avute”. Il magistrato calabrese avanza una proposta: “Penso che si debba agire a monte, modificando il Consiglio superiore della magistratura e introducendo il sistema del sorteggio”, anche a costo “di cambiare la Costituzione, se necessario”. “È la madre di tutte le riforme”, ha concluso.

ILFQ

Ma mi faccia. - Marco Travaglio

 

Oremus. “#lariachetira Il segno zodiacale di Mario #Draghi, la Vergine, lo rende già tenace di suo, ma Marte e Saturno così forti nel suo tema natale ne fanno un Vergine particolarmente determinato e molto autorevole” (La7, Twitter, 3.9). La Vergine Mario.

Dragospia. “Cretini e vaccini. Travaglio, pur di andare contro Draghi, ammicca ai No Vax” (Dagospia, 4.9). Io ho fatto il vaccino, Dago fa il cretino.

Solo? “Vaccini, gli italiani con Draghi. Sì all’obbligo da otto su dieci” (Repubblica, 4.9). Già, bella forza: ma il problema sono proprio quei 2 su 10.

Scarogna. “Il nucleare ci serve. Per azzerare le emissioni le rinnovabili non bastano” (Paolo Scaroni, vicepresidente Rothschild, Repubblica, 4.9). “Salvate Cingolani dalle bugie M5S. I grillini sono finti ambientalisti che attaccano il ministro in base a dati fasulli. Giusto pensare al nucleare” (Chicco Testa, Libero, 4.9). Ecco, bravi, fatevi una bella centrale atomica a casa vostra.

Sua Maestà/1. “Benigni show a Venezia. Il saluto a Mattarella: ‘Resti ancora con noi’” (Repubblica, 2.9). Ecco, bravo, pòrtatelo a casa tua.

Sua Maestà/2. “Draghi ha confermato una regola liturgica del potere: la risposta corta colpisce meglio, e non lascia scampo. Watever-it-takes è una parola in meno di lo-Stato-sono-io, ma significa la stessa cosa” (Giuliano Ferrara, Foglio, 4.9). Che è tornata la monarchia.

Urbano poco vigile. “Draghi mi piace molto. Mi ricorda un regista, potrebbe essere uno alla Gianni Rivera, per stile e classe (Urbano Cairo, editore Corriere della sera e La7, 18.3). “Se Draghi fosse un calciatore? Ho apprezzato molto il nostro regista agli Europei, direi Jorginho” (Cairo, Foglio, 4.9). Altre cazzate?

Divieto di nozze. “Bonafede si vergogna delle sue nozze da scialo. Il grosso grasso matrimonio toscano. Per l’ex ministro grillino ricevimento nuziale in una sfarzosa villa toscana. Foto bandite e divieto di parlarne: mica che lo scambino per uno della casta…” (F.F., Libero, 4.9). Uno scandalo mondiale. Siccome sei contro la casta, intanto, non ti sposi; se ti sposi, non lo fai in un bel posto, ma in una discarica o in una latrina; e niente ricevimento, al massimo pranzo al sacco.

Giornalismo abusivo. “Terrazza abusiva all’hotel Forum. ‘Demolire il dehors dei vertici 5S. L’albergo vicino ai Fori che ospita Beppe Grillo nelle sue trasferte romane condannato dal Tar” (Repubblica-Roma, 2.9). Quindi, se la terrazza fosse abusiva, la colpa sarebbe dei clienti. Anzi, di uno solo.

Furbo, lui. “Conte kamikaze: vuole perdere le Comunali per poter processare la linea filo Draghi. Una débacle gli darebbe l’alibi per la svolta” (Giornale, 4.9). Uahahahahah.

Volturara Appula, mondo. “Alleanza informale tra Usa e talebani per colpire il nuovo Daesh” (Messaggero, 29.8). “I talebani sono stati pragmatici ed efficienti” (gen. Kenneth Mc Kenzie, capo del comando centrale Usa, 30.8). “Londra e Parigi trattano per i corridoi umanitari. Negoziati con talebani e Onu” (Repubblica, 30.8). “Pentagono: ‘Cooperazione possibile tra Usa e talebani contro l’Isis-K’” (Repubblica, 2.9). Conte conquista il mondo.

La netta differenza. “Ma come fa Conte a dire che bisogna dialogare con i talebani? Glielo diciamo forte e chiaro: l’Italia sta dalle parte dei diritti umani e non con chi vuole dialogare per interessi economici” (Gennaro Migliore, deputato Iv, 19.8). “Comunicare con i talebani non vuol dire legittimare come vorrebbe qualcuno, vuol dire prendersi cura di chi oggi rischia la vita, di chi ha dato un contributo prezioso ai nostri contingenti e che non possiamo abbandonare” (Gennaro Migliore, 30.8, beccato da @nonleggerlo). Il governo dei Migliore.

Aspetta e spera. “L’autogol di Forza Italia: non sostiene Palamara” (Fabrizio Cicchitto, Riformista, 1.9). Ma solo perché non l’hanno ancora condannato per corruzione.

Calendario/1. “Calenda: ‘Pulizia nei primi 12 mesi’” (Corriere della sera-Roma, 1.9). Si vede che la sua colf è rientrata dalle ferie, solo che è un po’ lenta.

Calendario/2. “Calenda: non farò accordi con nessuno al ballottaggio” (Corriere della sera-Roma, 1.9). Magna tranquillo, Carlé.

Azzurro tenebra. “Il candidato sindaco di centrodestra galvanizzato dai numeri, Bernardo: “Noi come la Nazionale di Mancini” (Libero, 31.8). Quella dell’1-1 con la Bulgaria.

Il titolo della settimana/1. “A tutti i partiti conviene Berlusconi al Quirinale” (Libero, 2.9). In effetti, sarebbero soddisfazioni.

Il titolo della settimana/2. “Il vaccino contro il virus c’è, contro l’idiozia no. Purtroppo” (Foglio, 31.8). Dài che l’avete scampata bella.

ILFQ

Da Siena alle garanzie di Stato: Amco fa fruttare le “sofferenze”. - Nicola Borzi

 

“La scopa del sistema”. L’ex Sga di BancoNapoli si prepara al post-Covid con il piano sul recupero dei finanziamenti assistiti.

La scopa del sistema (bancario). È il ruolo di Amco, la società di recupero crediti del ministero delle Finanze in grado di acquistare, digerire e trasformare in incassi – e utili – le sofferenze (i crediti ormai inesigibili di aziende insolventi) e le inadempienze probabili (i crediti di clienti incamminati verso l’insolvenza). L’ex Società gestione attivi (Sga) deve assicurarsi grandi masse da lavorare per mantenere le proprie economie di scala. Le dimensioni contano: in base ai dati al 30 giugno 2020, è sesta per masse in Italia tra gli operatori attivi nei crediti non performing e seconda per quanto riguarda le inadempienze probabili (unlikely to pay, Utp) e i crediti scaduti (past due). L’ex bad bank sorta nell’89 per gestire 36mila posizioni creditizie a rischio che gravavano per 6,4 miliardi di euro sui conti del Banco di Napoli, poi passata al SanPaolo Imi e da questi a Intesa Sanpaolo che nel 2016 l’ha ceduta al Mef, ha una storia di successi: ha recuperato il 90% dei crediti che acquisì da BancoNapoli al 70% del loro valore, tanto che a fine 2015 contava su 469 milioni cash e 214 milioni di crediti residui. Oggi ha chiesto l’accesso al dataroom di Mps per giocare un ruolo nel piano di cessione a UniCredit della banca di Siena. Conti che Amco d’altronde già conosce bene: di Siena è parte correlata perché entrambe sono controllate dal Tesoro. Ma si prepara a giocare da protagonista anche nello scenario post-pandemico.

Dopo anni di calo, con la recessione dovuta al Covid la marea dei crediti malati sta per tornare a salire in Italia. Il 2020 ha visto cessioni di crediti a rischio dalle banche per un valore lordo totale di 40 miliardi. Così lo stock di incagli che gravano sul settore è calato da 135 a 99 miliardi (-27%) . Per la prima volta, le sofferenze (47 miliardi a fine 2020) sono state superate dalle inadempienze probabili (49). Il processo di deleveraging è proseguito anche nei primi sei mesi di quest’anno, con operazioni per 2 miliardi, ma in calo dai 6 dello stesso periodo del 2020. A frenare le cessioni sono le garanzie e moratorie pubbliche, che ritardano l’emersione di incagli e sofferenze: i crediti assistiti sono ancora 83 miliardi, di cui 64 a carico di piccole e medie imprese. Ma le moratorie, che scadranno a fine anno, sono volontarie e valgono solo per la quota capitale, mentre incombono le nuove regole europee che ne prevedono la verifica e la copertura con tempi certi nei bilanci delle banche. Così si prevede che nei prossimi due anni e mezzo emergeranno tra 80 e 100 miliardi di nuovi crediti a rischio.

Amco si candida a gestire questa nuova ondata in un mercato sempre più competitivo, tra tassi di recupero in calo e prezzi di cessione dei crediti deteriorati notevolmente aumentati. L’operatore pubblico ha infatti esperienza sia nel recupero delle sofferenze che, soprattutto, nella possibilità di erogare direttamente fondi per consentire continuità e rilancio di imprese con inadempienze probabili e crediti scaduti. A un aumento di capitale da 1 miliardo nel 2019 e bond già emessi per 2,8 miliardi ha affiancato un piano per emettere obbligazioni per altri 6 miliardi. D’altronde nel 2018 ha acquisito in gestione due portafogli da 16,7 miliardi di 90 mila debitori delle liquidazioni del 25 giugno 2017 di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Le acquisizioni sono poi proseguite con portafogli di crediti targati Banca del Fucino, Credito Sportivo, Carige, con la creazione della prima piattaforma di crediti a rischio immobiliari, da Creval (447 milioni lordi totali in più tranche), Carige (281 milioni totali), poi ancora Fucino, Banca Igea, Banco Bpm (600 milioni), Popolare di Bari (2 miliardi), operazioni immobiliari e cartolarizzazioni varie da sola e insieme a terzi. Il salto è arrivato a fine 2020 con il compendio da 7,7 miliardi di crediti deteriorati acquisito da Mps.

Oggi così Amco gestisce 34 miliardi di crediti dubbi lordi con circa 230 mila controparti, 45 mila delle quali sono imprese, per lo più piccole e medie. Il 58% sono sofferenze, il 42% inadempienze probabili. Il 74% sono gestiti in house da 287 dipendenti a Milano, Napoli, Vicenza, 88 dei quali provenienti da Mps, il resto in outsourcing. Il 2020 si è chiuso in utile per 76 milioni, in crescita dell’80% sul 2019 grazie al contenimento delle spese (il rapporto costi/ricavi è calato dal 45,9% del 2019 al 25,8%), anche grazie al raddoppio dei ricavi per il boom delle masse gestite. Ora il piano al 2025 della ad Marina Natale prevede di mantenere i 30 miliardi di masse tramite nuove acquisizioni. La società è vigilata da Banca d’Italia, Corte dei Conti e Direzione Concorrenza della Commissione Ue che mira a scoprire e bloccare eventuali aiuti di Stato.

In sostanza, Amco compra crediti dubbi a prezzi di mercato e poi cerca di incassarli, evitando però di mandare in fallimento le imprese debitrici che hanno qualche possibilità di risollevarsi. Lo fa attraverso l’analisi delle garanzie e l’ottimizzazione dei recuperi attraverso modelli matematici e negoziazioni. Qualche incidente di percorso non è mancato: la relazione della Corte dei Conti sul bilancio 2019 segnala la mancata erogazione di due corsi di formazione finanziati da fondi inter-professionali a consulenti esterni con costi non corrispondenti alle prestazioni ricevute. Le irregolarità sono state sanate con provvedimenti disciplinari e l’azione di contrasto è stata valutata positivamente dalla magistratura contabile.

Sempre la Corte dei Conti segnala che, a 4 anni e 3 mesi dalla liquidazione di Vicenza e Veneto Banca, Bankitalia non ha ancora varato le regole per favorire il recupero delle “operazioni baciate”: crediti a rischio per 1,8 miliardi finanziati dalla banche venete stesse per sostenere surrettiziamente il patrimonio, attraverso l’acquisto di azioni o obbligazioni subordinate proprie. Nel 2019 Amco ha comunque lavorato 855 delle 900 posizioni “baciate” totali per un valore lordo di 1,6 miliardi, incassando però appena 14 milioni.

Da inizio anno è operativa una nuova divisione immobiliare e, da aprile, Amco fornisce garanzie su cartolarizzazioni sintetiche. Ora la società controllata dal Tesoro lavora alla due diligence di Mps per valutarne i crediti deteriorati classificati “stage 2”. Sono le esposizioni con il rischio più elevato di deterioramento, anche se al momento risultano ancora “in bonis”. La valutazione dei crediti “stage 2” sarebbe legata ad alcune clausole sulla retrocedibilità dei crediti di Mps che potrebbero essere acquistati da UniCredit, se si dovessero deteriorare rapidamente dopo la cessione. Si tratta dello stesso percorso di garanzia ottenuto nel 2017 da Intesa Sanpaolo su PopVicenza e Veneto Banca.

Come scrive Amco nei suoi bilanci, nel contratto con il quale a giugno 2017 acquisì per 2 euro la parte “in bonis” delle due banche venete, Intesa si riservò il diritto di retrocedere ad Amco, tra il 26 giugno 2017 e la data di approvazione del suo bilancio al 31 dicembre 2020, i crediti delle due banche venete originariamente “in bonis” che in seguito fossero riclassificati “ad alto rischio”. Intesa ha esercitato questa facoltà sette volte: tre nel 2018 , due nel 2019 e due ad aprile e giugno 2020. Nell’operazione sul Monte, ora UniCredit vuole, insomma, che il Mef le conceda lo stesso trattamento di favore erogato alla sua concorrente.

Se sul fronte di Mps fonti finanziarie fanno sapere che per Amco le ipotesi sono ancora tutte sul tavolo, la bad bank si sta però muovendo rapidamente sul progetto Glam: vuol gestire lo stock di 148 miliardi di finanziamenti “in bonis” garantiti dal Medio Credito Centrale attraverso il Fondo Pmi. Amco avrebbe presentato alle banche diverse ipotesi in ottica win-win: gli istituti potrebbero deconsolidare dai propri bilanci i crediti garantiti, riducendone i costi relativi all’assorbimento di capitale e Amco si garantirebbe un enorme flusso di masse da gestire anche per i prossimi anni. La “scopa del sistema” fa progetti a lungo termine per assicurarsi il futuro.

ILFQ

Smart working nel mondo: l’Europa «vince» tra controlli e disconnessione. - Aldo Bottini, Valentina Melis e Ornella Patané

 

I temi chiave sono controlli in remoto, reperibilità e disconnessione. Nella Ue conta la privacy, meno in Cina, Russia e Brasile.

Controlli a distanza dei lavoratori, fasce di reperibilità, diritto alla disconnessione dagli strumenti informatici. Sono tre punti cardine emersi durante la sperimentazione globale dell’home working dovuta alla pandemia di Covid-19. Ma anche i tre nodi degli accordi che le aziende stanno mettendo a punto per disegnare il lavoro “ibrido” dei prossimi mesi, composto in molti casi da un mix tra lavoro in ufficio e lavoro da remoto.

Il mix potrebbe essere fortemente ribilanciato per i dipendenti della Pubblica amministrazione a favore del lavoro in presenza, se - come prospettato dal ministro Renato Brunetta - il rientro negli uffici sarà organizzato prima del 31 dicembre, data di scadenza dello stato di emergenza sanitaria e del regime semplificato dello smart working (cioè senza accordi individuali), sia per il pubblico, sia per il privato.

Le strade percorse dai Paesi.

La globalizzazione del virus Covid-19 ha fatto sorgere problemi globali: ovunque, infatti, la pandemia ha forzato tutti a lavorare da remoto, mettendo alla prova le organizzazioni aziendali e le norme locali relative al rapporto di lavoro “tradizionale”. Tutti i datori si sono dovuti, quindi, confrontare con gli stessi problemi di gestione dei lavoratori a distanza.

Tra questi, come emerge da un’indagine condotta all’interno di Ius laboris, alleanza globale di studi specializzati in diritto del lavoro, c’è il controllo a distanza dei dipendenti. In nessun Paese è stata introdotta una legislazione ad hoc per la pandemia e in quasi tutti l’esercizio del potere di controllo è di norma subordinato a una informativa dei dipendenti e al rispetto delle norme sulla protezione dei dati personali.

Francia.

In Francia, il Governo insieme al Garante della privacy locale ha pubblicato linee guida per chiarire che l’esercizio del potere di controllo non cambia in caso di lavoro da remoto, con ciò precisando che in tali circostanze è da escludere che il controllo possa essere svolto in maniera pedissequa e costante e che telefonate o video call possano comportare un’eccessiva e invadente sorveglianza.

Germania.

In Germania, durante la pandemia, sono cambiati gli strumenti tramite i quali esercitare il potere di controllo (strumenti digitali di monitoraggio di email e chat o keyloggers, non sempre ritenuti legittimi) ma non le regole.

Cina e Russia.

La relativa uniformità di regole sui controlli nei Paesi europei si spiega ovviamente con la disciplina comune dettata dalle direttive e dai regolamenti comunitari, primo tra questi ultimi il Gdpr, sulla protezione dei dati personali. Nei Paesi extra europei talvolta la sensibilità su questi temi è diversa. In Cina, ad esempio, è possibile installare lecitamente sistemi di controllo della prestazione lavorativa negli strumenti digitali assegnati ai dipendenti, con l’unico limite del rispetto della disciplina locale sulla protezione dei dati personali.

Allo stesso modo, in Russia, è considerato vietato il controllo fisico presso le abitazioni dei dipendenti, ma consentiti tutti gli strumenti di controllo a distanza, a condizione di avere preventivamente informato i dipendenti e avere ricevuto il loro consenso.

Il diritto alla disconnessione.

Un ulteriore tema affrontato durante la pandemia è il diritto alla disconnessione, con lo speculare obbligo di reperibilità del lavoratore: dopo la risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021, in ambito Ue è sempre più sentita la necessità di adottare misure di sensibilizzazione e formazione sui luoghi di lavoro per prevenire i rischi legati a quella che il Parlamento Europeo ha definito «cultura del sempre connesso».

La necessità di assicurare questo diritto in caso di lavoro da remoto, sorge proprio in quei Paesi, inclusa l’Italia, in cui il dipendente che lavora in smart working può gestire autonomamente il tempo di lavoro, non essendo vincolato a rispettare i normali orari di lavoro, ma potendo, per accordo individuale, essere tenuto a rispettare determinati periodi di reperibilità.

Dopo la risoluzione europea, l’Italia, prima fra gli altri, ha rafforzato in maniera significativa, con il Dl 30/2021, il diritto alla disconnessione, già presente nella legge sul lavoro agile (la 81/2017). Oggi tale diritto è riconosciuto al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile «nel rispetto degli accordi individuali e degli eventuali periodi di reperibilità in essi stabiliti». È espressamente previsto che l’esercizio del diritto alla disconnessione non possa avere per il lavoratore rispercussioni negative.

Nei Paesi (come Cina, Giappone e Argentina) in cui è previsto che anche da remoto si osservi il normale orario di lavoro, periodo nel quale il dipendente deve rimanere connesso e operativo, la disconnessione è possibile solo dopo la fine dell’orario di lavoro.

La strada degli accordi aziendali.

Intanto, gli accordi aziendali cominciano a tracciare una serie di comportamenti pratici, perché sia garantito il diritto alla disconnessione: l’intesa siglata dal gruppo Generali con i sindacati il 27 luglio per il post emergenza prevede che la pianificazione delle riunioni o video conference avvenga di norma dalle 9 alle 18, fatto salvo l’intervallo dalle 13 alle 14. Si raccomanda ai lavoratori l’uso dell’opzione di ritardata consegna se si inviano comunicazioni con sistemi informatici aziendali fuori dall’orario di lavoro. Infine, l’accordo precisa che la ricezione di comunicazioni aziendali fuori dall’orario di lavoro e nei momenti legittimi di assenza non vincola i lavoratori ad attivarsi prima della ripresa dell’attività.

Illustrazione di Giorgio De Marinis.

Il Sole 24 Ore

Bollette, il governo studia il taglio e misure cuscinetto per i rincari. - Celestina Dominelli, Carmine Fotina

 

L’esecutivo apre il cantiere della riforma degli oneri di sistema: possibile prima mossa nel ddl Concorrenza.

Il governo apre il cantiere della riforma degli oneri generali di sistema con l’obiettivo, nel medio-lungo periodo, di alleggerire il “fardello” di quelle voci che in bolletta sono destinate a coprire attività di interesse generale per il sistema elettrico e che, a partire dal 2015, hanno raggiunto un livello pari a 14-15 miliardi annui arrivando a pesare fino a un quarto della spesa totale sostenuta dagli utenti finali.

Nell’immediato, però, in vista della nuova stangata autunnale sulle bollette, provocata dai rincari delle quotazioni delle materie prime per via della ripresa dell’economia mondiale, e dal netto aumento dei prezzi dei permessi di emissione della CO2, si studia un nuova manovra, dopo quella messa in pista agli inizi di luglio, per evitare che gli effetti dell’impennata colpiscano in modo pesante il portafoglio dei consumatori.

Il sostegno alle rinnovabili pesa sul 70% degli oneri.

È un doppio livello, dunque, quello su cui si muove il governo che punterebbe ad affidare allo strumento della delega, come trapela da una bozza del nuovo disegno di legge per la concorrenza, il lavoro di revisione degli oneri inserendolo in una più compiuta riforma della materia, anche nella prospettiva di trasferire sotto la fiscalità generale gli oneri per il sostegno alle energie rinnovabili. Che, stando ai numeri pubblicati dall’Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente (Arera) nell’ultima Relazione annuale al Parlamento e al governo, rappresentano circa il 70% dei 14,9 miliardi di euro di oneri del 2020 (la cosiddetta componente Asos).

Nella bozza del Ddl, si apre anche alla possibilità che tali oneri vadano a gravare, in modo selettivo, sul consumo di combustibili fossili nel riscaldamento e nei trasporti con meccanismi di gradualità, ma sul punto il confronto è tutt’altro che chiuso. Anche perché il ministero della Transizione ecologica, è quanto si legge nel documento, «ritiene necessaria una compiuta riforma della materia» come peraltro ribadito anche nella proposta di piano per la transizione ecologica, approvato a metà luglio, che vedrà, tra i suoi pilastri, una complessiva e strutturata revisione del sistema fiscale per affrontare le problematiche ambientali.

L’urgenza: tagliare dalla bolletta i costi delle vecchie centrali nucleari.

La strada, quindi, è tracciata anche se le possibili soluzioni sono tuttora al vaglio. Ma una direzione l’ha indicata la stessa Arera che, in più occasioni, da ultimo a ottobre, nell’ambito dell’audizione in Commissione industria al Senato, in merito all’Affare sulla razionalizzazione, la trasparenza e la struttura di costo del mercato elettrico e sugli effetti in bolletta, ha rimarcato la necessità di eliminare fin da subito dalla bolletta «gli oneri non direttamente connessi agli obiettivi di sviluppo ambientalmente sostenibile e quelli finalizzati al contrasto della povertà energetica».

Tradotto: le voci che coprono i costi di smantellamento delle centrali nucleari dismesse e anche gli oneri a copertura del regime tariffario speciale riconosciuto a Rfi per i consumi di elettricità sulla rete tradizionale. Una posizione, quest’ultima, sposata anche dall’Antitrust nella segnalazione di marzo scorso al Parlamento con le proposte di riforma per la legge annuale, secondo cui «alla copertura di tali oneri si può provvedere mediante trasferimenti dal bilancio dello Stato».

L’ipotesi di un intervento cuscinetto contro i rincari.

Fin qui il binario più generale, quindi, ancora da declinare nel dettaglio. Mentre, nel breve periodo, il governo starebbe valutando un nuovo intervento “cuscinetto” per alleviare il peso dei rincari che si annunciano nel prossimo aggiornamento trimestrale delle bollette fissato per fine settembre. Nei giorni scorsi, nel corso di una intervista, anche il presidente dell’Arera, Stefano Besseghini, ha parlato di un «cantiere aperto» su questo fronte.

E, come già accaduto agli inizi di luglio, un assist prezioso per calmierare l’impatto della stangata potrebbe arrivare dalle aste del mercato europeo dei permessi di emissione di CO2 che stanno facendo registrare ricavi straordinari a causa della tendenza rialzista del prezzo della stessa con proventi pari, nel solo secondo trimestre, a 719 milioni, come documentano i dati pubblicati dal Gse, responsabile del collocamento delle quote di emissioni italiane sulla piattaforma Ue.

Il faro del governo sulle aste della CO2.

Certo, l’entità della manovra è ancora tutta da decidere perché solo da metà settembre l’Arera comincerà a mettere in fila i numeri per capire quale sarà la variazione tariffaria per le bollette, ma intanto l’esecutivo ha acceso un faro con un occhio alle aste della CO2, i cui proventi sono destinati, come prevede l’articolo 15 del decreto di recepimento della direttiva Ue sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili (Red II), per la parte che compete al Mite, a coprire, dal 2022, «i costi di incentivazione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica mediante misure che trovano copertura sulle tariffe dell’energia».

È una tessera del percorso più ampio di riforma che, come detto, dovrebbe seguire lo strumento della delega, destinato a dominare buona parte del disegno di legge per la concorrenza che potrebbe arrivare in consiglio dei ministri per metà mese. Il governo pensa infatti di chiedere la delega al Parlamento, per poi agire con decreti legislativi, anche sui servizi pubblici locali, sulle concessioni idroelettriche, sul commercio ambulante, sulla vigilanza dei mercati e conformità dei prodotti. Altre materie invece, dalla sanità ai porti alla mobilità elettrica, dovrebbero entrare nel Ddl senza ricorso alla delega ma anche su questi fronti non si escludono cambiamenti dell’ultim’ora.

IlSole24Ore