Non è fantascienza. Trump vince nei podcast e in tutte le contee, cresce tra i ricchi e si proietta sui satelliti dell’amico Musk. Che partecipa ai vertici tra potenti. E non solo adesso. Per i Dem di tutto il mondo è urgente un’agenda. E una strategia per comunicarla.
La mappa per contee è più definitiva di quella degli Stati: la valanga rossa, dove per rossa s’intende trumpiana, è ancora più estesa e permeata di quanto non si sia già capito. Quanto profonda? I numeri dicono tanto, anche se bisognerà aspettare settimane per avere i dati del Census Bureau per un’accurata analisi demografica dei flussi. I numeri dicono che il muro blu non c’è stato e invece il successo di Donald Trump ha investito ogni strato sociale, ogni territorio, andando a prendersi Stati che sembravano in bilico, e non lo erano, e persino strappando consensi là dove alberga e si nutre il sentiment Dem, la città di New York. Nella Grande Mela, per esempio, Trump ha ottenuto il sostegno del 43% degli elettori sotto i 30 anni contro il 32% del 2020. E ha anche raddoppiato il suo sostegno tra gli elettori neri: dal 7% di quattro anni fa è passato al 16%. In tutto il paese la generazione Z è andata meno a votare – si stima un meno 16% – ma il 10% si è spostato su di lui. E non solo maschi. Tra le giovani donne, Harris si è distaccata da Trump di 24 punti, mentre Biden quattro anni fa era sopra di 35.
Un esito elettorale che ha ribaltato l’istituto dei sondaggi e che ora mette in crisi anche la sociologia urbana, pervasa dal dubbio che la distinzione in metropoli-aree rurali non spieghi più lo spirito che scorre nelle vene del corpo elettorale. Ci sono tanti fattori che hanno trasformato la società in una moltitudine di pixel da saper leggere: c’è la demografia dei singoli territori, il peso delle minoranze nelle grandi città come appunto New York, c’è un successo crescente dello stile trumpiano tra i ricchi come tra i poveri. Ci sono contraddizioni per cui non si trova una necessaria spiegazione. In Missouri ha vinto Trump ma è passato il referendum sull’aborto. In California ha vinto Harris ma sono stati sconfitti una serie di referendum su temi sociali come la riduzione della maggioranza necessaria per approvare interventi di edilizia popolare; l’abolizione dell’impiego non retribuito (nel testo si parlava proprio di schiavitù) dei detenuti; l’aumento del salario minimo.
Alle 5 di mattina del 6 novembre, quando lo sgomento per i dati che arrivavano sempre più netti e nitidi, Francesco Memoli, ingegnere italiano che vive a Pittsburgh da 20 anni, spiegava, nella lunga diretta di Radio Popolare, che da quelle parti – «dove ci sono ancora tanti operai» – Trump era arrivato con la promessa di detassare gli straordinari, che sono una componente importante del sistema produttivo locale e su questo si è preso lo Stato più importante (il suo intervento qui al minuto 17).
Di contro, il tema dell’aborto e quello del voto delle donne per una donna cavalcati da Harris non hanno fatto presa né sulle più giovani né sulle over 45. Tra le prime il voto per la candidata Dem è diminuito di sei punti percentuali rispetto a quattro anni fa, mentre è aumentato esattamente del 6% il consenso di Trump in quella fascia d’età; tra le più adulte invece il calo è stato solo di un punto percentuale.
Sono gli Stati Uniti un paese bigotto e misogino? Si è trattato di un errore di proposte politiche e di contenuti per Kamala Harris mentre Donald Trump li avrebbe azzeccati?
La campagna di Trump è stata indirizzata agli uomini, aggressiva e nerboruta, perfino volgare come quando a un comizio in North Carolina la sua reazione a una voce che dal pubblico si era alzata per insinuare che la vicepresidente e candidata fosse una prostituta, lui ha risposto sorridendo: «Questo posto è fantastico». Come hanno potuto le donne, e ancor di più le più giovani, ignorare questo e altri fatti detti, urlati, scritti, agiti?
Per forza c’è altro. La sfiducia, il risentimento, la rabbia. Roger Cohen ha scritto ieri sul NYT un editoriale che parte proprio da qui, da un avvertimento di Mikhail Gorbachev all’Ovest in giubilo per la fine della guerra fredda: «Stiamo facendo la cosa peggiore per voi: vi stiamo privando di un nemico».
Non da ultimo, su questi e su altri sentimenti c’è la strategia comunicativa. Capillare, quella di Trump e dei suoi. Martellante e pervasiva, occupando ogni canale di trasmissione di informazioni vere, false, distorte o parziali. Non solo bot dell’internet. Cartacei foraggiati da gruppi di interessi di stampo conservatore, se non proprio di destra, e scritti da algoritmi, da anni vengono adagiati con cura sullo zerbino di ogni casa. Controllo della narrativa senza lasciare spazio vuoto. Non da adesso, ma da quando è comparso sulla scena politica e forse prima, senza far passare giorno senza una qualche sparata, un qualche segno, un graffio ma anche un buffetto. Lui e i suoi sostenitori, grandi influencer e piccoli uomini, e donne, uniti in un modo di fare, e forse di essere, imprevedibile e sempre sopra le righe. Si direbbe spontaneo.
Il cambio in corsa Biden-Harris lo aveva visto rallentare: per qualche settimana, Trump e il suo vice JD Vance erano fuori tempo, colpivano nel vuoto con un campionario di attacchi ormai superati e Harris appariva in vantaggio, più fresca, con un consenso crescente tra i big del partito e del jet set, sui media tradizionali. Adeguato il registro linguistico, la campagna Trump ha ripreso a sferrare i colpi sotto la cinta, usando gli stereotipi sessuali e razziali e abusando del politicamente scorretto che, come a scuola, conquista risate e spallucce. Nei discorsi di Trump l’obiettivo era attaccare Harris che invece è andata meno a testa d’ariete contro di lui e anzi lo ha nominato davvero poco. La spesa totale in spot tv, radio, digitali per i Democratici è stata di 5 miliardi di dollari, per i Repubblicani di 4,1. E lo Stato in cui si è concentrata una quota consistente è proprio la Pennsylvania: poco più di 1 miliardo di dollari in totale. Che è stata importante nel successo del Presidente, ma non da sola. Uno degli spot più diffusi in Tv da Harris provava a parlare alla classe media, promettendo interventi per abbassare i prezzi degli affitti e dei generi alimentari, ricordando la manifesta intenzione di Trump di tagliare le tasse alle imprese. La campagna del Tycoon invece ha investito la cifra maggiore per una pubblicità sui mezzi digitali in cui dice di voler eliminare le tasse sui sussidi e sulle mance della previdenza sociale.
Secondo l’analisi di AdImpact, i repubblicani hanno poi speso quasi 215 milioni di dollari in spot televisivi che diffamavano le persone transgender. Harris è stata accusata più volte di essere loro sostenitrice.
Ma il martellamento di Trump, soprattutto negli ultimi giorni, è stato minuzioso e mirato al target di elettori che voleva coinvolgere: a luglio il profilo di Trump era stato riattivato su Twitch, piattaforma di Amazon, ossia di Jeff Bezos, proprietario del Washington Post che quest’anno per la prima volta da decenni non ha fatto l’endorsement (che naturalmente sarebbe andato a Harris): era stato bannato a seguito dei fatti di Capitol Hill, il 6 gennaio 2021 dopo la vittoria di Joe Biden. Ai tempi, la stessa decisione l’aveva presa Meta, che sempre a luglio ha consentito a Trump di ricomparire su Facebook e Instagram. Piccoli segnali di un consenso – o almeno di non ostilità – da parte dei proprietari delle principali piattaforme social, che così in qualche modo hanno rafforzato i mezzi di propagazione del verbo trumpiano. A parte X, quello chiaramente schierato con Trump per dichiarazione e azione del suo dominus, Elon Musk.
Mentre i Dem diffondevano i video con la candidata che andava a bussare alle porte degli americani per invitarli al voto, Trump intanto entrava nella vita degli elettori dalle cuffiette dei videogiochi e dei podcast, anche di quelli meno famosi, più locali, purché con un significativo numero di followers. Alcuni di loro – Nelk Boys, Adin Ross, Theo Von, Bussin’ With The Boys – sono stati nominati a titolo di ringraziamento durante il discorso di vittoria di mercoledì mattina. L’ultimo dell’elenco era Joe Rogan, comico, il podcaster più famoso di tutti, una potenza di ascolti e visualizzazioni: una volta fervente democratico. Solo su Youtube, la sua intervista di fine ottobre a Trump ha totalizzato quasi 50 milioni di visualizzazioni. Con questi signori, seguiti prevalentemente da un pubblico maschile giovane, l’obiettivo era assicurato. Ore e ore di chiacchiere seduto davanti a un microfono, in un ecosistema amico e confortevole, riverberante, senza filtri, senza regole, senza limiti, pieno di cospirazionisti, dubbiosi, arrabbiati, soli. Come i manovali che, spiegava la radio pubblica NPR, alla fine di una giornata di polvere e fango, in autobus tornano a casa fuori dalle città, in mezzo al niente, con pochissimi soldi, tutto diventato insensatamente caro e si attaccano ai video giochi on line, dai quali spunta The Donald che promette l’America della leggenda, la terra feconda di opportunità e intanto scatena la guerra civile contro gli immigrati irregolari arrivando al cuore degli immigrati che intanto si sono regolarizzati e quindi votano per lui: semplicemente sbagliava, chi pensava che le battute sugli haitiani che mangiano i gatti o sui portoricani che sono pattumiera fossero troppo pure per i trumpiani. Una cacofonia in cui si perdono i sensi e il senso.
La strategia democratica non ha potuto nulla. Ci si interroga ora se le primarie avrebbero potuto individuare un candidato migliore di Biden e di Harris. Se il passo indietro di Biden sia arrivato troppo tardi e ormai troppo male. Ci si chiede perché gli influencer di Trump abbiano portato voti, mentre lo star system schierato con Harris no.
Sarada Peri senior speechwriter di Barack Obama ha detto a Politico.com che «anche il modo in cui ascoltiamo e rispondiamo agli elettori è rifratto attraverso Trump […] Timorosi di alcuni elettori e sprezzanti di altri, non convinciamo quasi nessuno […] Le idee stantie su cui si è basato il partito sono state una reazione alla sua agenda». Will Stancil avvocato per i diritti civili mette in evidenza il successo della «macchina della rabbia nazionale» trumpiana e invita i democratici, di cui fa parte, a «trovare un modo per fare progressi nei media moderni e strappare un maggiore controllo dell’ambiente informativo nazionale a Trump».
Perché è un errore, non attribuire il reale peso della pluralità di fonti virtuali di [mala]informazione. Donna Brazile, ex presidente del Democratic National Committee, colpita dall’esito di questa campagna ha suggerito come unica strada sia la convocazione del comitato esecutivo democratico e la condivisione di una «nuova strada da seguire». Ed è una strada che non può non passare anche da un aggiornamento di linguaggi e strumenti, una presenza sulla terra ma anche nelle reti virtuali che con i loro algoritmi segreti non sono neutrali e anzi campi di battaglia culturale su cui installare le strategie di futuro, una riconnnotazione dei confini del mondo e una redistribuzione dei pesi.
E non è fantascienza, Elon Musk e il suo Starlink che vegliano su di noi – a ottobre 2020 il segretario alla difesa, Colin Kahl, si appellò al miliardario perché le forze armate ucraine stavano perdendo la connessione internet nei territori contesi dalla Russia e ora Musk ha preso parte alla telefonata tra Trump e Zelensky – sono lì a dirlo. Forte e chiaro.