Mumble, mumble...la Russia ci libera dal nazismo, ma noi siamo alleati con gli USA... i quali, da alleati, ci caricano di dazi, ci impediscono di comprare dalla Russia il gas e il petrolio a minor prezzo, e ci obbligano a comprarlo da loro ad un prezzo maggiore; inoltre, sempre i nostri alleati, ci obbligano di comprare da loro le armi da regalare a Zelensky... Sono io che non trovo un nesso logico in tutto ciò o c'è qualcosa che non quadra?
Il documento congiunto tra Stati Uniti e Ue sui rapporti commerciali tra i due Paesi è stato pubblicato: molti aspetti sono stati chiariti, ma altrettanti rimandati a data da destinarsi. Proviamo a fare chiarezza.
La scorsa settimana è stato pubblicato il documento congiunto tra gli Stati Uniti e l’Ue sui rapporti commerciali tra le due aree. Al termine dell’incontro del 27 luglio in Scozia tra Ursula Von der Leyen e Trump erano stati pubblicati sul sito della Commissione e su quello della Casa Bianca, due diversi documenti. Ci sono volute tre settimane e mezzo per giungere a un documento congiunto. Questo documento chiarisce i principali aspetti dell’accordo, ma rinvia comunque al futuro punti non irrilevanti. A dire il vero, il documento sembra essere stato chiuso in modo frettoloso. Per quanto sia un aspetto solo formale, stupisce che un testo di questa importanza, peraltro di sole tre pagine, contenga un ovvio refuso: al punto 5, nella penultima frase, dopo “United States” doveva esserci una virgola invece di un punto. Una pignoleria? Certo, ma in un documento ufficiale, per giunta breve, è inusuale trovare un tale refuso. Partiamo dalle cose più chiare, quelle sui dazi veri e propri. L’accordo è, come noto, squilibrato: il paragrafo 1 dice che l’Ue intende eliminare tutti i dazi sui prodotti industriali americani e dare un trattamento preferenziale a un ampio elenco di prodotti agricoli e ittici. Il paragrafo 2, invece, dice che gli Stati Uniti si impegnano ad applicare un dazio, omnicomprensivo, del 15% su tutti i beni provenienti dall’Europa, salvo nel caso inusuale di prodotti per cui il cosiddetto dazio applicato alla Most Favored Nation (MFN) non sia più alto. Per alcuni prodotti (risorse naturali non disponibili negli Stati Uniti, aerei e relative parti, farmaceutici generici e relativi precursori chimici) si applica invece il MFN, che varia da prodotto a prodotto, ma che è molto più basso del 15%. Il paragrafo 3 dice che, una volta azzerati i dazi europei citati nel paragrafo 1, i dazi americani su auto e relative componenti saranno pure ridotti al 15%. Lo stesso paragrafo dice che UE e USA “intendono considerare la possibilità di cooperare” per separare le loro economie dalla sovraccapacità nei settori dell'acciaio e dell'alluminio, anche attraverso una “soluzione di contingente tariffario” (espressione peraltro vaga). Nel frattempo, i dazi restano al 50%. Che ci sia uno squilibrio è ovvio. Superior stabat lupus, verrebbe da dire, anche se lo squilibrio è minore di quello applicato da Trump ad altri Paesi. E, come sottolineato dalla Commissione, il 15% complessivo non peggiora la situazione rispetto a quella attuale per alcuni prodotti (il sito della Commissione cita i formaggi su cui già gravavano dazi del 14,90%). Il resto è “work in progress”. I paragrafi 5-7 elencano gli impegni di acquisto di prodotti americani da parte dell’UE, ma i termini non sono chiari. Per l’energia (gas naturale liquefatto, petrolio e prodotti relativi all’energia nucleare) si dice che l’Ue “intends to procure” beni per 750 miliardi di dollari entro il 2028. Cosa significa “intends to procure”? Un documento sul sito della Commissione piega che “gli acquisti non sono realizzati dall’UE o dalla Commissione. La Commissione agisce come facilitatore per aiutare ad assicurare che gli Stati Membri abbiano abbastanza risorse energetiche”. Insomma, non si sa come questo impegno sarà rispettato. E, in linea di principio, è un impegno rilevante. Secondo Reuters, nel 2024 l’UE ha importato dagli USA combustibili fossili per 76 miliardi, ben al di sotto dei 250 miliardi all’anno ora previsti (assumendo che la data d’inizio del conteggio sia il gennaio del 2026). Si tratta di una “intenzione” però, non di un vincolo legale, anche se, politicamente, importare molto di meno sarebbe problematico. C’è un problema anche per gli Stati Uniti. Il loro totale delle esportazioni di combustibili fossili in tutto il mondo è stato di 318 miliardi nel 2024. Se iniziano a esportarne 250 nell’Ue, che succede agli altri Paesi? Ancora più vago è l’impegno relativo agli investimenti di imprese europee negli USA. In realtà, non è neppure un impegno, ma una semplice previsione della Commissione, basata su colloqui con le principali imprese europee: 600 miliardi di dollari entro il 2028. L’impressione è che questi investimenti sarebbero avvenuti comunque. Infine, c’è un generico impegno di “aumentare sostanzialmente” gli acquisti di materiale per la difesa. Il che è la conseguenza logica dell’impegno che ci siamo presi in sede Nato di aumentare la spesa militare (negli ultimi dieci anni oltre tre quarti della spesa relativa ad armamenti è venuta dagli Usa).
Alla fine, è accaduto. Il solstizio d’estate di quest’anno ha segnato non soltanto un passaggio stagionale, ma l’inizio di una nuova e drammatica stagione bellica.
Alle 2:10 iraniane della notte tra il 21 e il 22 giugno, dopo nove giorni di continui bombardamenti israeliani, sono intervenuti i velivoli bombardieri B-2 americani che, trovandosi la strada del cielo completamente spianata, hanno agito in profondità nel territorio nemico e sganciato le loro bombe sui siti nucleari di Fordow e Natanz. Contemporaneamente i sottomarini nucleari della U.S. Navy posizionati nel Mar Arabico colpivano con una ventina di missili da crociera Tomahawk il sito di Isfahan, nel quale è presente l’impianto in cui l’uranio naturale viene processato per poi essere trasferito nelle centrifughe di Natanz e Fordow.
I B-2 hanno, invece, attaccato Fordow e Natanz con le ormai famigerate bunker buster bombs, sganciandone un totale di 14, in quello che è il più importante raid aereo mai svolto con questo tipo di armamento.
Questa particolare e potente bomba che può essere trasportata e sganciata solo dai B-2 statunitensi, ha capacità di distruzione nel sottosuolo ed è, infatti, stata impiegata sui siti di Fordow, costruito all’interno di una montagna una novantina di metri sottoterra, e di Natanz, costruito parte in superfice e parte sotto.
Se una valutazione più precisa dei danni effettivi può essere fatta soltanto con il passare delle ore, le dichiarazioni iraniane e americane tendono a contraddirsi. Secondo Donald Trump l’attacco avrebbe completamente distrutto le centrali nucleari iraniane; mentre secondo fonti iraniane non ci sarebbe stata nessuna fuoriuscita di radiazioni, come per il momento ha confermato anche l’AIEA, ma ci sarebbero alcuni feriti e nessuna vittima. Il numero dei feriti e delle loro condizioni non è stato invece divulgato.
Apparentemente ad avere subito i danni maggiori sembra essere stata la centrale di Natanz, mentre la posizione di Fordow è più complicata da valutare, anche se membri delle istituzioni iraniane hanno dichiarato che tutto il materiale pericoloso era stato preventivamente evacuato e che la contraerea che si è efficacemente attivata ha evitato danni importanti a tutto l’impianto.
Ormai sembra quasi scontato dirlo, ma è sempre bene farlo, che questi attacchi americani, come i precedenti israeliani, sono stati compiuti in palese e aperta violazione del diritto internazionale. Nessuna risoluzione delle Nazioni Unite ha, infatti, autorizzato qualsivoglia operazione militare contro l’Iran.
È importante dirlo perché troppo spesso il diritto internazionale viene evocato a intermittenza, piegato alle necessità politiche contingenti. E gli attori che più frequentemente si ergono a difensori dell’ordine legale internazionale, come i paesi europei e l’Unione Europea, oggi o tacciono o sostengono apertamente questa violazione, così come hanno taciuto e sostenuto le continue violazioni israeliane prima in Palestina, Libano, Siria, Yemen e, infine, in Iran. E ciò avviene senza nessun tipo di remora, dato che lo stesso cancelliere tedesco Merz ha esplicitamente ringraziato Israele poiché “fa il lavoro sporco per noi”.
È evidente che dopo ciò, qualsivoglia argomentazione che includa la violazione del diritto internazionale, anche presunta, e che verrà nuovamente utilizzata per giustificare future aggressioni, condanne o sanzioni contro Stati considerati ostili all’Occidente, non potrà vantare alcuna legittimità.
Tuttavia, è importante cercare di capire cosa abbia spinto gli Stati Uniti a bombardare direttamente l’Iran, entrando con tutti e due i piedi nella guerra di Israele ed esponendosi ad un conflitto di proporzioni potenzialmente disastrose.
La bomba nucleare iraniana: il pretesto
Ogni guerra richiede il sostegno dell’opinione pubblica, e tale consenso è più facilmente ottenibile quando si fornisce una motivazione apparentemente razionale: una minaccia concreta che possa mettere in pericolo la sicurezza stessa delle popolazioni dei Paesi coinvolti. Serve, in altre parole, una giustificazione. Il pretesto e la conseguente giustificazione di questo conflitto contro l’Iran è la minaccia nucleare. Secondo la narrazione israeliana e conseguentemente americana, l’Iran non può e non deve dotarsi dell’arma atomica. Questa linea è ovviamente condivisa anche dagli altri leader occidentali. D’altronde, cosa riesce a mobilitare l’opinione pubblica meglio del timore di una minaccia nucleare imminente?
Eppure, l’Iran non possiede armi nucleari, né risulta fosse prossimo a svilupparle. Tale posizione è stata esplicitata anche da Tulsi Gabbard, attualmente a capo dei servizi segreti statunitensi, durante un’audizione al Congresso tenutasi lo scorso marzo. Solo in seguito, nei giorni recenti, ha parzialmente ritrattato, affermando che “l’Iran potrebbe essere in grado di realizzarla”.
Al di là delle ambiguità retoriche e delle contraddizioni interne a queste dichiarazioni, vi sono alcuni elementi tecnici e politici che meritano una riflessione approfondita.
Anzitutto, benché raramente venga sottolineato, il programma nucleare iraniano è ufficialmente destinato alla produzione di energia a uso civile. Inoltre, il Paese non dispone delle risorse e delle tecnologie necessarie per sviluppare un’arma nucleare moderna. Le bombe nucleari moderne (specialmente le termonucleari a fusione) usano tipicamente plutonio-239 weapons-grade come materiale fissile o una combinazione di uranio arricchito e plutonio, risorsa, quest’ultima, che l’Iran appunto non possiede, come non possiede alcun reattore utilizzabile a questo scopo. E questo è un dato confermato da anni di monitoraggio da parte di enti internazionali.
Diverso, ma comunque distante da una minaccia concreta, è il discorso dell’atomica ad uranio arricchito al 90%, una bomba equiparabile a quella dell’Enola Gay, considerata oggi un’arma obsoleta e comunque complessa da mettere a punto, e infatti ciò richiederebbe parecchio tempo, mentre da più di 30 anni Netanyahu avverte il mondo che l’Iran sarebbe proprio a un passo dal costruirla.
Ma per realizzare un’atomica serve anche altro: un sistema di esplosione controllata estremamente sofisticato, che l’Iran non pare avere; e il vettore, ovvero un missile su cui montare la bomba che sia in grado di bucare le difese aeree nemiche.
In ogni caso, il pretesto bellico è stato accuratamente costruito.
Il giorno prima dell’inizio degli attacchi israeliani, l’AIEA – Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (in inglese International Atomic Energy Agency), un’organizzazione intergovernativa che promuove l’uso pacifico dell’energia nucleare e ne impedisce la proliferazione per scopi militari e che controlla che il programma nucleare iraniano rispetti gli accordi sottoscritti – ha approvato una relazione di dura condanna nei confronti dell’Iran, accusandolo di aver aumentato l’arricchimento dell’uranio fino al 60% e di aver incrementato in modo significativo la quantità di materiale stoccato.
La relazione è stata votata con una maggioranza di 19 favorevoli, ai quali si sono opposti 3 contrari (Russia, Cina, Burkina Faso) e ben 12 astenuti, mentre 2 paesi non hanno partecipato al voto, secondo la stampa.
Allo stesso tempo è fondamentale tenere presente gli stati promotori della relazione: Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania.
Non sorprende, dunque, che il giorno seguente alla pubblicazione del rapporto, Israele abbia dato il via agli attacchi contro l’Iran, con l’obiettivo dichiarato di smantellarne il programma nucleare e, al contempo, colpire in modo mirato infrastrutture militari strategiche. Tel Aviv ha inoltre rivendicato con fierezza l’eliminazione di diversi scienziati iraniani coinvolti nel programma nucleare, cioè civili, uccisi deliberatamente. Un’azione, come ampiamente e tristemente noto, non certo inedita nella politica militare israeliana.
In sostanza, la minaccia rappresentata da una bomba che non esiste ha innescato uno dei conflitti potenzialmente più pericolosi degli ultimi decenni. E benché, la stessa AIEA abbia detto per bocca del suo Segretario Generale che l’Agenzia ha la capacità di monitorare che l’Iran non arrivi mai all’arma atomica, ciò non è bastato per evitare le ostilità aperte.
È possibile, ma non definitivamente accertato, che l’Iran abbia deciso di arricchire dell’uranio (ma sicuramente non fino al livello necessario per ottenere la bomba), probabilmente per rafforzare la propria posizione negoziale nei colloqui con gli Stati Uniti e più difficilmente per arrivare a costruire un ordigno, ma il sospetto è sufficiente a scatenare una guerra? Sì, se non è la reale motivazione dietro ad essa.
Il ruolo di Israele
Per comprendere le motivazioni che hanno condotto gli Stati Uniti ad attaccare direttamente l’Iran, è necessario innanzitutto interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto Israele a dare il via alle ostilità.
La domanda è complessa e la risposta ugualmente necessita di tenere insieme diversi fattori.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu attraversava, nei mesi precedenti l’attacco, un periodo di crescente isolamento diplomatico. Le cancellerie europee avevano iniziato improvvisamente ad accorgersi che a Gaza stava succedendo qualcosa e avevano iniziato a chiedere ad Israele di morigerarsi, anche se nessun leader europeo di governo, o quasi, ha parlato espressamente di genocidio.
Le pressioni internazionali cominciavano a farsi pesanti per Israele e la sua reputazione globale ha subito negli ultimi mesi un repentino e drastico calo. D’altronde non poteva essere diversamente con la trasmissione in diretta globale degli attacchi missilistici, dei bombardamenti e dell’invasione via terra di Gaza che non ha risparmiato i civili, poco importa che fossero uomini, donne, anziani, malati o bambini.
In questo contesto, a Netanyahu serviva un’operazione che potesse avere un duplice scopo comunicativo: a) ritornare tra le grazie degli alleati; b) togliere l’attenzione da Gaza per poter continuare l’operazione militare contro i civili palestinesi senza interferenze esterne e mascherare le difficoltà e i limiti di un conflitto ancora lontano dall’essere risolto.
L’assist (volontario? È naturale chiederselo) fornito dalla relazione presentata all’AIEA da Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito ha dato vita all’attacco cominciato la notte tra il 12 e 13 giugno che ha effettivamente raggiunto entrambi gli obiettivi.
Il bisogno di una svolta dal punto di vista dell’immagine e delle pressioni internazionali si è, però, coniugato anche con la strategia di potenza.
Colpire l’Iran significa colpire il pesce grosso nel Medio Oriente, significa dare una spallata agli equilibri egemonici nella regione e assumere influenza maggiore. Dopo aver completamente decapitato la macchina paramilitare di Hezbollah e di Hamas e aver contribuito in maniera determinante al progressivo e definitivo logoramento del regime di Bashar al-Assad in Siria, Netanyahu, che per rimanere a galla sembra necessitare della guerra perpetua, ha deciso di puntare Teheran per tentare il colpo che possa chiudere la partita con i nemici storici dello Stato d’Israele. Un tentativo, appunto, perché il rischio, senz’altro accuratamente calcolato, è quello di un’ostilità lunga.
La capacità di Israele di colpire nel cuore dello stato iraniano è stata ampiamente certificata, non soltanto in questi giorni (basti pensare all’uccisione dell’ex presidente iraniano Raisi). Il livello di infiltrazione dei servizi israeliani all’interno anche delle stesse forze armate iraniane è profondo. Israele ha, infatti, subito colpito con facilità diversi obiettivi militari, pur non eliminando completamente la capacità operativa dell’Iran. Ha colpito in superficie anche i siti nucleari, però senza arrecare eccessivi danni.
L’obiettivo più probabile, in questo scenario, è la demilitarizzazione dell’Iran, perché uno Stato che non è capace di proteggere i suoi cittadini è uno Stato che può essere spinto verso un cambiamento di regime dall’interno. Una prospettiva, sicuramente presa in considerazione da Israele, che appare favorita dal costante lavoro di intelligence svolto dai servizi americani e israeliani negli ultimi anni al fine di fomentare proprio un cambio di regime. Tuttavia, i processi politici non sono equazioni matematiche e spesso non seguono logiche lineari: una popolazione sottoposta a bombardamenti stranieri può, al contrario, ritrovarsi compatta attorno alla propria leadership, anche in presenza di disaccordi politici pregressi.
L’incapacità di Israele di riuscire ad arrivare all’obiettivo pubblicamente dichiarato, invece, ovvero annientare il programma nucleare iraniano è, in definitiva, il motivo principale che ha visto entrare in questa guerra gli Stati Uniti. Sarà da valutare successivamente se l’entrata in guerra si limiterà a questa singola azione, come ribadito da più parti dell’amministrazione americana, o avrà un suo seguito anche in base alle eventuali risposte iraniane e internazionali.
Malgrado le relazioni tra Netanyahu e Trump non siano esattamente idilliache, il rapporto tra Stati Uniti e Israele trascende la politica contingente, ma è strutturalmente stretto, fraterno. Per gli Stati Uniti non è ammissibile in alcun modo che Israele venga visto fallire dal mondo intero, inoltre le pressioni interne ed esterne su Washington per non lasciare solo lo Stato ebraico hanno fatto il resto, insieme alla necessità americana di riportare ai fasti la propria immagine di superpotenza dopo l’impotenza percepita in altri scenari, in particolare proprio mediorientali.
Il calcolo geopolitico
L’egemonia e le sfere d’influenza giocano un ruolo fondamentale nel quadro della geopolitica.
Se da una parte Donald Trump è probabile che non sia entusiasta di impantanare nuovamente gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente, pur a suon di missili piuttosto che “stivali sul terreno”, è sempre vero che dalla contingenza l’obiettivo è di strappare il miglior risultato possibile, e anche in Medio Oriente si gioca la partita dell’egemonia globale e della sfida americana al multipolarismo con lo scopo di rimanere leader del mondo.
Trump preferirebbe concentrare le sue forze nella sfida ben più complessa dell’Indo-Pacifico, nel confronto con la Cina, e in questo senso va anche il progressivo, seppur altalenante, spostamento e ritiro dei contingenti americani anche dai teatri come il Medio Oriente. Ritiro che diventa, ovviamente, impossibile in caso di guerra e piani che quindi slittano nel tempo. In questo senso, va letta la fretta nelle brevissime dichiarazioni del Presidente americano fatte dopo l’attacco, dove ha invitato l’Iran a fare la pace, ribadendo che l’attacco serviva a distruggere il programma nucleare iraniano e non a scatenare una guerra più ampia. Certo, affermazioni singolari, addobbate di contraddizioni e pure di riferimenti evocativi agli attacchi militari, quasi come se si trattasse di un film di Hollywood, ma che rendono l’idea dei piani nella testa dell’attuale Presidente. La guerra all’Iran non sembra tanto essere una guerra di Trump, ma una guerra americana con volontà bipartisan, al quale nessun inquilino della Casa Bianca si sarebbe potuto sottrarre. Da non dimenticare che Kamala Harris in campagna elettorale disse esplicitamente che “l’Iran è il più grande avversario degli Stati Uniti”. La differenza, piuttosto, la possono fare le tempistiche con le quali si sceglie di impegnarsi nel conflitto e la qualità degli attacchi.
Valutando ciò, si potrebbe pensare che gli attacchi americani della notte scorsa possano essere stati un modo per accontentare Netanyahu e per cercare di chiudere subito la questione, facendo credere di aver raggiunto l’obiettivo, con l’Iran che dovrebbe soltanto fare “la parte del morto” per reggere il gioco e cessare, almeno per ora, le ostilità.
Certo, potrebbe essere un’opzione, ma allo stesso tempo potrebbero essere stati anche un modo per testare la volontà iraniana di difendersi e di eventuali altri attori internazionali di alzare la voce. Non è oltretutto detto che ciò fermi Israele, e in questo caso Trump sarà pronto ad andare fino in fondo e far cadere un altro alleato di Russia e Cina cercando, in qualche modo, di strappare alla loro influenza un altro pezzo importante di Medio Oriente, senza rischiare di subire reazioni.
Possibili conseguenze
È improbabile che la Federazione Russa o la Repubblica Popolare Cinese rispondano con un’azione militare diretta in difesa dell’Iran, sebbene Teheran faccia formalmente parte dei BRICS+. Questi ultimi appaiono più come un’alleanza di natura tattica ed economica che non come una coalizione strategica dotata di coesione militare, politica e ideologica.
Seppure i rapporti tra Teheran e Mosca siano solidi e la Russia abbia recentemente perso un alleato rilevante nello scacchiere mediorientale e non può permettersi di vedere ulteriormente compromessa la propria rete d’influenza nella regione, l’impegno militare sul fronte ucraino, che continua a logorare risorse, rende poco plausibile un coinvolgimento diretto in un secondo teatro di guerra ad alta intensità. Analogamente, la Cina sembra non avere alcuna intenzione di esporre la sua forza militare, malgrado l’Iran rappresenti un partner strategico e abbia contribuito lei stessa allo sviluppo di parte del programma nucleare iraniano fornendo tecnologie.
Ciò non toglie il fatto che saranno svolti altri tipi di tentativi, potenzialmente anche decisi, da parte delle due potenze per evitare un’ulteriore escalation. Tanto che nella mattinata odierna è previsto un incontro a Mosca tra il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi e il Presidente russo Putin, dal quale difficilmente gli iraniani torneranno senza aver ottenuto una qualche forma di supporto.
Dal canto suo l’Iran, che ha già risposto colpendo pesantemente Israele, come già minacciato, potrebbe decidere di reagire chiudendo lo stretto di Hormuz mandando completamente in crisi l’economia europea e globale. Da quel corridoio marittimo fondamentale tra Iran e Oman, infatti, passa circa 1/5 del commercio globale di idrocarburi. Certo, questa decisione porterebbe a un importante aumento della tensione e all’estensione quasi certa della guerra, che in questo caso non si fermerebbe senz’altro. D’altronde, però, questa arma geografica è a disposizione di Teheran e se ritenesse gli attacchi di Israele e degli Stati Uniti una minaccia esistenziale, avrebbe tutta la facoltà di disporne. Allo stesso tempo, la flotta statunitense al largo del Bahrein potrebbe diventare un obiettivo di Teheran, qualora decidesse di replicare con tutte le sue forze, così come le numerose basi americane dislocate nei vari paesi del Medio Oriente.
Se è difficile prevedere ciò che succederà perché dipenderà da numerosi fattori e dalle mosse delle prossime ore, quello che appare ormai certo è che le azioni di Israele e Stati Uniti, con il placido assenso dell’UE, stanno alimentando non poco la fiamma del disordine globale, con conseguenze che rischiano di essere a dir poco incendiarie.
1- nomina di un consiglio di 5 membri di cui tre statunitensi;
2- estrazione non solo delle terre rare, ma anche di gas e petrolio da giacimenti vecchi e nuovi;
3- precedenza - diritto di prelazione - nello sfruttamento minerario (terre rare. gas, petrolio, etc.) ed energetico;
4- precedenza alla aziende statunitensi su tutti gli investimenti infrastrutturali;
5- regime fiscale agevolato in favore di tutte la aziende statunitensi;
6- impegno - obbligo - a destinare agli USA il 50% dei ricavi derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali e dai nuovi progetti infrastrutturali al fine di ripagare il debito di guerra contratto;
7-interessi del 4% in favore degli USA fino all'estinzione integrale del prestito di guerra ricevuto;
8- i vantaggi USA persisteranno anche in caso di nuova guerra e prevedono un indennizzo in caso di blocco dell'estrazione anche se per cause di "forza maggiore";
8- nell'accordo viene chiarito - semmai si avessero dubbi - che gli USA non impegneranno ulteriori fondi per la difesa. Stabiliscono, inoltre, che il contratto deve intendersi a tempo indeterminato e non può subire nessuna modifica che non sia concessa dagli USA.
Un accordo ai limiti tra l'USURA e il TAGLIEGGIAMENTO di stampo mafioso: prendere o subire le ripercussioni.
L'UCRAINA sarà depredata dagli ALLEATI che l'hanno difesa dal RUSSO PREDATORE...... e chissà per quanti anni le sue genti pagheranno il duro prezzo d'aver soggiaciuto all'adulazione statunitense.
La STORIA si ripete: è la solita ESPORTAZIONE DI DEMOCRAZIA all'americana!
Diplomazia o strategia? Le parole del segretario di Stato che lasciano perplessi: “Non si è mai trattato solo dell’Ucraina”
L’invasione della Russia in Ucraina inizia il 24 febbraio 2022, ma l’invio di armi da parte degli Stati Uniti comincia mesi prima, a settembre del 2021. Soprattutto, inizia “silenziosamente”. A rivelarlo ai microfoni del New York Times non è di certo un complottista, ma il segretario di Stato americano Antony Blinken. Durante l’intervista, il “diplomatico di lunga data” - come lo definisce la giornalista statunitense Lulu Garcia-Navarro - ha insistito sul fatto che le decisioni prese insieme al presidente Joe Biden sono state “quelle giuste”. Tra queste, figura anche quella di aver messo “l’Ucraina sulla strada dell'adesione alla NATO”. Blinken ha rivendicato queste scelte come determinanti per salvaguardare la sovranità ucraina e contrastare le ambizioni territoriali di Vladimir Putin. Tuttavia, come lo stesso segretario di Stato ha ammesso, in gioco c’è ben altro. “Non si tratta solo dell'Ucraina - ha sottolineato Blinken -. Non si è mai trattato solo dell'Ucraina”. Soffermandosi sui rischi futuri che potrebbero minare gli Stati Uniti, Blinken ha precisato: “In assenza della diplomazia americana, ci sarà la diplomazia di molti altri Paesi che modelleranno il mondo in modi che potrebbero non essere così amichevoli verso i nostri interessi e i nostri valori”. Insomma, Blinken parla di scelte dettate dalla necessità di salvaguardare la sovranità e gli interessi dell’Ucraina, ma queste sembrano finire sempre per favorire gli Stati Uniti.
Partiamo però dall’inizio, dal momento in cui il segretario di Stato ricorda l’incontro a Ginevra con il suo omologo russo, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, nel tentativo di evitare il conflitto in Ucraina. “Abbiamo esercitato una diplomazia straordinaria nel riunire e tenere insieme più di 50 Paesi, non solo in Europa, ma ben oltre, a sostegno dell'Ucraina e in difesa di quei principi che la Russia ha attaccato nel febbraio di quell'anno. Ho lavorato intensamente prima della guerra, anche con incontri con il mio omologo russo, Sergey Lavrov, a Ginevra, un paio di mesi prima del conflitto, cercando di trovare un modo per prevenirlo. Abbiamo voluto testare l’ipotesi che si trattasse davvero delle preoccupazioni della Russia per la sua sicurezza e per l'Ucraina”, ha spiegato. E prosegue: “Eravamo intensamente impegnati diplomaticamente con la Russia. Da allora, se ci fosse stata l'opportunità di impegnarsi diplomaticamente per porre fine alla guerra in modo giusto e duraturo, saremmo stati i primi a coglierla. Purtroppo, almeno fino ad ora, non abbiamo visto alcun segno che la Russia sia realmente disposta a negoziare”. Al di là dell’intensa attività diplomatica, prima che la Russia invadesse l’Ucraina, le armi per Kiev erano già pronte per essere spedite. “Ci siamo assicurati che, ben prima dell’aggressione russa, a partire da settembre e poi di nuovo a dicembre, portassimo silenziosamente molte armi all'Ucraina. Volevamo garantire che avessero ciò di cui avevano bisogno per difendersi: cose come i missili Stinger e Javelin, che si sono rivelati decisivi per impedire alla Russia di prendere Kiev, ribaltare il Paese, cancellarlo dalla mappa e, anzi, respingere i russi”.
Tuttavia, durante l’intervista con il NYT, Blinken sembra trascurare che l’esercito di Kiev, a differenza di quello di Mosca, che continua ad avanzare, non ha mai ottenuto vittorie significative, se non nella narrativa mediatica occidentale. Le perdite umane e materiali subite da Kiev sono elevatissime, sia tra la popolazione che, soprattutto, tra i soldati.
Un disastro che sembra essere stato alimentato anche dalla fornitura di armi all’Ucraina, iniziata diversi mesi prima dell’invasione russa, e che rischia quasi certamente di peggiorare nel caso in cui l’Ucraina entri nella NATO. Eppure, per Blinken, “Putin ha fallito”, mentre “l'Ucraina è ancora in piedi”. “Credo che abbia anche un potenziale straordinario non solo per sopravvivere, ma anche per prosperare in futuro. ” - prosegue - “Per garantire che qualsiasi cessate il fuoco sia realmente duraturo, dobbiamo assicurarci che l'Ucraina abbia la capacità di scoraggiare ulteriori aggressioni. Questo - ha precisato - può avvenire in molte forme: attraverso la NATO, ad esempio, e noi abbiamo messo l'Ucraina sulla strada dell'adesione all’Alleanza. Oppure attraverso assicurazioni di sicurezza, impegni e garanzie da parte di diversi Paesi, per fare in modo che la Russia sappia che, se attaccherà di nuovo, dovrà affrontare gravi conseguenze”. Le parole pronunciate dal segretario di Stato americano Antony Blinken lasciano intendere che il conflitto in Ucraina potrebbe protrarsi ancora a lungo. Una prospettiva che stride con le dichiarazioni di impegno per una trattativa di pace, la quale, fino a oggi, si è concretizzata solo nelle parole di Blinken, senza alcun riscontro pratico. Contrariamente a quanto ci si potrebbe augurare, l’ingresso dell’Ucraina nella NATO rischierebbe di intensificare ulteriormente gli scontri tra l’esercito russo e quello ucraino. Da sempre è evidente che un’espansione della NATO verso est avrebbe portato inevitabilmente a uno scontro con la Russia. Dunque, resta da vedere quale sarà l’approccio di Donald Trump quando, con il suo probabile ritorno alla Casa Bianca, si troverà a gestire questa situazione. Blinken, infatti, durante la sua intervista al NYT, ha espresso preoccupazione per le possibili politiche di Trump in relazione alla questione ucraina. Secondo Blinken, un diverso orientamento politico da parte del tycoon americano potrebbe lasciare spazio ad altri attori internazionali, capaci di influenzare il corso degli eventi in modi contrari agli interessi e ai valori americani. Una considerazione che appare in contraddizione con le affermazioni di chi sostiene di essersi impegnato per la pace in Ucraina.
Non è fantascienza. Trump vince nei podcast e in tutte le contee, cresce tra i ricchi e si proietta sui satelliti dell’amico Musk. Che partecipa ai vertici tra potenti. E non solo adesso. Per i Dem di tutto il mondo è urgente un’agenda. E una strategia per comunicarla.
La mappa per contee è più definitiva di quella degli Stati: la valanga rossa, dove per rossa s’intende trumpiana, è ancora più estesa e permeata di quanto non si sia già capito. Quanto profonda? I numeri dicono tanto, anche se bisognerà aspettare settimane per avere i dati del Census Bureau per un’accurata analisi demografica dei flussi. I numeri dicono che il muro blu non c’è stato e invece il successo di Donald Trump ha investito ogni strato sociale, ogni territorio, andando a prendersi Stati che sembravano in bilico, e non lo erano, e persino strappando consensi là dove alberga e si nutre il sentiment Dem, la città di New York. Nella Grande Mela, per esempio, Trump ha ottenuto il sostegno del 43% degli elettori sotto i 30 anni contro il 32% del 2020. E ha anche raddoppiato il suo sostegno tra gli elettori neri: dal 7% di quattro anni fa è passato al 16%. In tutto il paese la generazione Z è andata meno a votare – si stima un meno 16% – ma il 10% si è spostato su di lui. E non solo maschi. Tra le giovani donne, Harris si è distaccata da Trump di 24 punti, mentre Biden quattro anni fa era sopra di 35.
Un esito elettorale che ha ribaltato l’istituto dei sondaggi e che ora mette in crisi anche la sociologia urbana, pervasa dal dubbio che la distinzione in metropoli-aree rurali non spieghi più lo spirito che scorre nelle vene del corpo elettorale. Ci sono tanti fattori che hanno trasformato la società in una moltitudine di pixel da saper leggere: c’è la demografia dei singoli territori, il peso delle minoranze nelle grandi città come appunto New York, c’è un successo crescente dello stile trumpiano tra i ricchi come tra i poveri. Ci sono contraddizioni per cui non si trova una necessaria spiegazione. In Missouri ha vinto Trump ma è passato il referendum sull’aborto. In California ha vinto Harris ma sono stati sconfitti una serie di referendum su temi sociali come la riduzione della maggioranza necessaria per approvare interventi di edilizia popolare; l’abolizione dell’impiego non retribuito (nel testo si parlava proprio di schiavitù) dei detenuti; l’aumento del salario minimo.
Alle 5 di mattina del 6 novembre, quando lo sgomento per i dati che arrivavano sempre più netti e nitidi, Francesco Memoli, ingegnere italiano che vive a Pittsburgh da 20 anni, spiegava, nella lunga diretta di Radio Popolare, che da quelle parti – «dove ci sono ancora tanti operai» – Trump era arrivato con la promessa di detassare gli straordinari, che sono una componente importante del sistema produttivo locale e su questo si è preso lo Stato più importante (il suo intervento qui al minuto 17).
Di contro, il tema dell’aborto e quello del voto delle donne per una donna cavalcati da Harris non hanno fatto presa né sulle più giovani né sulle over 45. Tra le prime il voto per la candidata Dem è diminuito di sei punti percentuali rispetto a quattro anni fa, mentre è aumentato esattamente del 6% il consenso di Trump in quella fascia d’età; tra le più adulte invece il calo è stato solo di un punto percentuale.
Sono gli Stati Uniti un paese bigotto e misogino? Si è trattato di un errore di proposte politiche e di contenuti per Kamala Harris mentre Donald Trump li avrebbe azzeccati?
Un’auto in Pennsylvania
La campagna di Trump è stata indirizzata agli uomini, aggressiva e nerboruta, perfino volgare come quando a un comizio in North Carolina la sua reazione a una voce che dal pubblico si era alzata per insinuare che la vicepresidente e candidata fosse una prostituta, lui ha risposto sorridendo: «Questo posto è fantastico». Come hanno potuto le donne, e ancor di più le più giovani, ignorare questo e altri fatti detti, urlati, scritti, agiti?
Per forza c’è altro. La sfiducia, il risentimento, la rabbia. Roger Cohen ha scritto ieri sul NYT un editoriale che parte proprio da qui, da un avvertimento di Mikhail Gorbachev all’Ovest in giubilo per la fine della guerra fredda: «Stiamo facendo la cosa peggiore per voi: vi stiamo privando di un nemico».
Non da ultimo, su questi e su altri sentimenti c’è la strategia comunicativa. Capillare, quella di Trump e dei suoi. Martellante e pervasiva, occupando ogni canale di trasmissione di informazioni vere, false, distorte o parziali. Non solo bot dell’internet. Cartacei foraggiati da gruppi di interessi di stampo conservatore, se non proprio di destra, e scritti da algoritmi, da anni vengono adagiati con cura sullo zerbino di ogni casa. Controllo della narrativa senza lasciare spazio vuoto. Non da adesso, ma da quando è comparso sulla scena politica e forse prima, senza far passare giorno senza una qualche sparata, un qualche segno, un graffio ma anche un buffetto. Lui e i suoi sostenitori, grandi influencer e piccoli uomini, e donne, uniti in un modo di fare, e forse di essere, imprevedibile e sempre sopra le righe. Si direbbe spontaneo. Il cambio in corsa Biden-Harris lo aveva visto rallentare: per qualche settimana, Trump e il suo vice JD Vance erano fuori tempo, colpivano nel vuoto con un campionario di attacchi ormai superati e Harris appariva in vantaggio, più fresca, con un consenso crescente tra i big del partito e del jet set, sui media tradizionali. Adeguato il registro linguistico, la campagna Trump ha ripreso a sferrare i colpi sotto la cinta, usando gli stereotipi sessuali e razziali e abusando del politicamente scorretto che, come a scuola, conquista risate e spallucce. Nei discorsi di Trump l’obiettivo era attaccare Harris che invece è andata meno a testa d’ariete contro di lui e anzi lo ha nominato davvero poco. La spesa totale in spot tv, radio, digitali per i Democratici è stata di 5 miliardi di dollari, per i Repubblicani di 4,1. E lo Stato in cui si è concentrata una quota consistente è proprio la Pennsylvania: poco più di 1 miliardo di dollari in totale. Che è stata importante nel successo del Presidente, ma non da sola. Uno degli spot più diffusi in Tv da Harris provava a parlare alla classe media, promettendo interventi per abbassare i prezzi degli affitti e dei generi alimentari, ricordando la manifesta intenzione di Trump di tagliare le tasse alle imprese. La campagna del Tycoon invece ha investito la cifra maggiore per una pubblicità sui mezzi digitali in cui dice di voler eliminare le tasse sui sussidi e sulle mance della previdenza sociale.
Secondo l’analisi di AdImpact, i repubblicani hanno poi speso quasi 215 milioni di dollari in spot televisivi che diffamavano le persone transgender. Harris è stata accusata più volte di essere loro sostenitrice.
Ma il martellamento di Trump, soprattutto negli ultimi giorni, è stato minuzioso e mirato al target di elettori che voleva coinvolgere: a luglio il profilo di Trump era stato riattivato su Twitch, piattaforma di Amazon, ossia di Jeff Bezos, proprietario del Washington Post che quest’anno per la prima volta da decenni non ha fatto l’endorsement (che naturalmente sarebbe andato a Harris): era stato bannato a seguito dei fatti di Capitol Hill, il 6 gennaio 2021 dopo la vittoria di Joe Biden. Ai tempi, la stessa decisione l’aveva presa Meta, che sempre a luglio ha consentito a Trump di ricomparire su Facebook e Instagram. Piccoli segnali di un consenso – o almeno di non ostilità – da parte dei proprietari delle principali piattaforme social, che così in qualche modo hanno rafforzato i mezzi di propagazione del verbo trumpiano. A parte X, quello chiaramente schierato con Trump per dichiarazione e azione del suo dominus, Elon Musk.
Mentre i Dem diffondevano i video con la candidata che andava a bussare alle porte degli americani per invitarli al voto, Trump intanto entrava nella vita degli elettori dalle cuffiette dei videogiochi e dei podcast, anche di quelli meno famosi, più locali, purché con un significativo numero di followers. Alcuni di loro – Nelk Boys, Adin Ross, Theo Von, Bussin’ With The Boys – sono stati nominati a titolo di ringraziamento durante il discorso di vittoria di mercoledì mattina. L’ultimo dell’elenco era Joe Rogan, comico, il podcaster più famoso di tutti, una potenza di ascolti e visualizzazioni: una volta fervente democratico. Solo su Youtube, la sua intervista di fine ottobre a Trump ha totalizzato quasi 50 milioni di visualizzazioni. Con questi signori, seguiti prevalentemente da un pubblico maschile giovane, l’obiettivo era assicurato. Ore e ore di chiacchiere seduto davanti a un microfono, in un ecosistema amico e confortevole, riverberante, senza filtri, senza regole, senza limiti, pieno di cospirazionisti, dubbiosi, arrabbiati, soli. Come i manovali che, spiegava la radio pubblica NPR, alla fine di una giornata di polvere e fango, in autobus tornano a casa fuori dalle città, in mezzo al niente, con pochissimi soldi, tutto diventato insensatamente caro e si attaccano ai video giochi on line, dai quali spunta The Donald che promette l’America della leggenda, la terra feconda di opportunità e intanto scatena la guerra civile contro gli immigrati irregolari arrivando al cuore degli immigrati che intanto si sono regolarizzati e quindi votano per lui: semplicemente sbagliava, chi pensava che le battute sugli haitiani che mangiano i gatti o sui portoricani che sono pattumiera fossero troppo pure per i trumpiani. Una cacofonia in cui si perdono i sensi e il senso.
La strategia democratica non ha potuto nulla. Ci si interroga ora se le primarie avrebbero potuto individuare un candidato migliore di Biden e di Harris. Se il passo indietro di Biden sia arrivato troppo tardi e ormai troppo male. Ci si chiede perché gli influencer di Trump abbiano portato voti, mentre lo star system schierato con Harris no.
Fuori da un seggio elettorale il 5 novembre 2024.
Sarada Peri senior speechwriter di Barack Obama ha detto a Politico.com che «anche il modo in cui ascoltiamo e rispondiamo agli elettori è rifratto attraverso Trump […] Timorosi di alcuni elettori e sprezzanti di altri, non convinciamo quasi nessuno […] Le idee stantie su cui si è basato il partito sono state una reazione alla sua agenda». Will Stancil avvocato per i diritti civili mette in evidenza il successo della «macchina della rabbia nazionale» trumpiana e invita i democratici, di cui fa parte, a «trovare un modo per fare progressi nei media moderni e strappare un maggiore controllo dell’ambiente informativo nazionale a Trump». Perché è un errore, non attribuire il reale peso della pluralità di fonti virtuali di [mala]informazione. Donna Brazile, ex presidente del Democratic National Committee, colpita dall’esito di questa campagna ha suggerito come unica strada sia la convocazione del comitato esecutivo democratico e la condivisione di una «nuova strada da seguire». Ed è una strada che non può non passare anche da un aggiornamento di linguaggi e strumenti, una presenza sulla terra ma anche nelle reti virtuali che con i loro algoritmi segreti non sono neutrali e anzi campi di battaglia culturale su cui installare le strategie di futuro, una riconnnotazione dei confini del mondo e una redistribuzione dei pesi.
E non è fantascienza, Elon Musk e il suo Starlink che vegliano su di noi – a ottobre 2020 il segretario alla difesa, Colin Kahl, si appellò al miliardario perché le forze armate ucraine stavano perdendo la connessione internet nei territori contesi dalla Russia e ora Musk ha preso parte alla telefonata tra Trump e Zelensky – sono lì a dirlo. Forte e chiaro.
Il Parco Nazionale della Foresta Petrificata, nel nord-est dell'Arizona, USA, è un luogo intriso di storia antica e affascinante bellezza naturale. Questo parco si veste di un legno petrificato dai colori vivaci, formatosi durante il tardo periodo Triassico, offrendo uno squarcio su un mondo preistorico lontano. Le colorate formazioni di roccia sedimentaria, tra cui la famosa Blue Mesa e il Deserto Dipinto, esaltano la straordinaria bellezza del parco, avvolgendo l'area in un'atmosfera di mistero e atemporalità.
Oltre alla sua splendida geologia, il parco nutre un profondo legame con le antiche civiltà umane, con prove di presenza umana che risalgono a oltre 13.000 anni fa. L'area è punteggiata da siti archeologici, che includono petroglifi e antiche rovine pueblo, rivelando l'enduring relazione tra l'uomo e il mondo naturale. Questi enigmatici segni delle culture passate aggiungono un velo di mistero al parco, invitando alla riflessione sulle storie mai raccontate e gli enigmi celati nei suoi antichi panorami.