Non so se avete letto attentamente quel che dice il ministro Crosetto nel rapporto presentato lunedì al Consiglio Supremo di Difesa: l’Italia e l’Ue devono continuare a prosciugare le proprie casse e i propri arsenali per Kiev come se non ci fosse un domani, ma si sa che è tutto inutile, anzi ogni giorno che passa è un vantaggio per la Russia e un danno per l’Ucraina. Dopo 45 mesi di guerra, centinaia di migliaia di morti, 300 miliardi buttati e vari negoziati sabotati da Nato&C., Crosetto scopre che la “resistenza si traduce principalmente in una capacità di ‘guadagnare tempo’, senza riuscire verosimilmente a generare le condizioni per riconquistare i territori occupati o invertire in modo significativo l’andamento del conflitto”.
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 20 novembre 2025
CROSETTO DOUBLE FACE - Marco Travaglio
sabato 8 novembre 2025
MARCO TRAVAGLIO - O la faccia o la vita - IFQ - 8 novembre 2025.
Tutti sanno come finirà l’assedio russo a Pokrovsk: con la resa o con lo sterminio degli ucraini circondati e minoritari (uno contro otto). Come le battaglie di Mariupol, Bakhmut, Avdiivka e il blitz della regione russa di Kursk. Tutti conoscono pure il finale della guerra: la Russia si terrà i territori che voleva (quelli filorussi di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson, più un cuscinetto di confine tra Sumy e Kharkiv) in cambio di quelli occupati in sovrappiù.
Che Kiev non avrebbe riavuto i territori perduti lo disse il generale Usa Milley nel novembre 2022, dopo la prima e unica vera controffensiva ucraina. Lo ammisero gli 007 ucraini due anni fa, dopo il tragico flop della seconda. Lo confessò Zelensky 11 mesi fa. Ma nessuno, a Kiev come nell’Ue nella Nato, voleva perdere la faccia: quindi si continuò ad armare e finanziare l’Ucraina senza spiegare ai poveri soldati rimasti vivi che non erano fuggiti dal fronte e dalla leva perché dovessero ancora combattere e morire.
La panzana di Putin che vuole l’intera Ucraina è incompatibile con gli appena 180 mila soldati inviati nel 2022 contro un esercito grande il triplo, con le aperture fatte un mese dopo ai negoziati di Istanbul e con la logica (il centro-ovest russofobo, anche se lo avesse occupato, avrebbe faticato a mantenerlo, pieni com’è di armi, mercenari e terroristi neonazisti). Ma fa comodo a chi ha perso la guerra per fingere di averla vinta e giustificare le centinaia di migliaia di vite e di miliardi sacrificati per difendere una causa persa, anziché negoziare e salvare il salvabile.
La propaganda occidentale, come le sanzioni, danneggia chi la fa e crede alle balle che racconta. Tanto a morire sono solo gli ucraini. L’unico a dire la verità (“Zelensky non ha più carte”) è Trump, il più grande bugiardo del mondo che però è l’unico in Occidente a non rischiare la faccia: la guerra non l’ha mica voluta lui. Tutti gli altri fischiettano, raccontando coi loro trombettieri che Pokrovsk resiste (come Mariupol, Bakhmut, Avdiivka). Ma già si preparano a minimizzarne la caduta come la volpe con l’uva: “Tanto è solo un cumulo di macerie”. Fingono di non sapere che i russi non assediano Pokrovsk da 14 mesi perché attratti dalle bellezze del luogo: ma perché la città è l’ultimo avamposto della Maginot a ferro di cavallo che la Nato dal 2014 ha creato in Donbass per evitare che gli indipendentisti e poi i russi dilagassero nelle grandi steppe indifese dell’Ucraina centrale. Oltre quella linea non ci sono più ostacoli verso Dnipro e la Capitale. Questo Zelensky e i vertici di Nato e Ue lo sanno benissimo. Se si decidessero a dirlo e ad agire di conseguenza salverebbero migliaia di vite. Ma la loro priorità è un’altra, quella di sempre: salvare la faccia e la poltrona.
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lunedì 27 ottobre 2025
E' bene che si sappia come stanno veramente le cose.
Nel buono e democratico Occidente, scrivere quello che sto per scrivere è considerata eresia. Ma io lo scrivo e me ne frego, perché un clima di pace e di apertura si crea grazie, e soprattutto, a una corretta informazione. Questa è una vicenda che mai leggeremo sulla nostra stampa di regime.
sabato 25 ottobre 2025
ELENA BASILE: LA VERA STORIA DELLA GUERRA RUSSIA-UCRAINA.
La maggioranza delle persone non legge e non si informa e quando si parla della guerra Russia-Ucraina cade dal pero e riporta le cose false e scontate riportate dai media nostrani. Non sa che prima del 2022 c’era stato un colpo di stato, 8 anni di massacri da parte delle famigerate brigate naziste Azov, una nazione dove chi parlava russo, cioè un terzo della popolazione, era discriminata. Non si rende poi conto di evidenze palesi a chi ha un minimo di cervello raziocinante. La Basile mette nero su bianco la realtà dei fatti e perché la Russia non vuole fare un armistizio prima che sia chiaro che l’Ucraina non entrerà nella Nato e smetterà di rivendicare le regioni orientali che avrebbero dovuto avere uno statuto speciale, accettato anche dagli ucraini nei trattati di Minsk mai rispettati dagli ucraini. Ma se voi siete in guerra e state vincendo e avete avuto centinaia di migliaia di morti per salvaguardare i diritti della popolazione russofona, cioè oltre il 90% di persone che vivono in quelle regioni, accettereste una tregua? Ma prima di prendere una posizione non ci si dovrebbe informare?
SU UCRAINA E GAZA, MELONI E SCHLEIN SONO ALLINEATE
ELENA BASILE – IL FATTO – 24.10.2025
Sembra evidente che la polarizzazione sia la caratteristica delle società occidentali. Viviamo segmentati in mondi paralleli destinati a non incontrarsi. Unica eccezione: il ring degli spettacoli televisivi in cui il dibattito diventa insulto e violenza verbale. L’elettorato delle destre guarda le tv che portano acqua al mulino del governo, l’elettorato del Pd è spettatore di La7. Allo stesso modo si comportano l’accademia, il giornalismo, la diplomazia le cui analisi alla fine convergono in quanto la distanza tra la Meloni e la Schlein sulle guerre in Ucraina e a Gaza, nonché sulla politica economica, è esigua. Il politichese utilizza gli eroi di ambo i lati per continui attacchi al fronte avverso. Il partito del non voto, primo partito in Italia e in Europa, si distanzia e si rinchiude nel privato. Il timore che i pochi rappresentanti di un pensiero politico alternativo, scegliendo di allearsi per questioni elettoralistiche e di potere al Pd, brucino anzitempo la loro credibilità e la possibilità di attrarre la “generazione Z”, scesa in piazza contro il genocidio, è una paura ben fondata di cui tutti coloro che hanno l’ambizione di fare politica dovrebbero tener conto. Facciamo quindi il rituale riepilogo della propaganda in voga sula possibile mediazione in Ucraina cercando di non parlare soltanto a noi stessi ma facendo domande ai diplomatici, accademici e opinionisti che difendono alcune tesi ormai note circa l’imperialismo russo che vuole espandersi e conquistare tutta l’Ucraina, la Russia in grave crisi economica e in situazione di stallo nella guerra, il dovere occidentale di difendere la democrazia Ucraina contro l’autocrate aggressore. Partiamo dalla democrazia. Potrebbero i nostri interlocutori spiegare come un Paese che ha abolito i partiti dell’opposizione, la libertà di culto, ed è governato da un presidente che ha prorogato sine die le elezioni, preferendo la legge marziale, possa essere considerato democratico. La Russia è intervenuta in Ucraina dopo tentativi diplomatici reiterati dal 2007 al 2021 nei quali chiedeva che l’Occidente considerasse le legittime preoccupazioni di sicurezza di Mosca, minacciate dall’eventuale ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato. La Russia ha violato l’integrità territoriale di un Paese per difendere le popolazioni russofone bombardate dal governo di Kiev dopo 8 anni di guerra civile. Ha invocato la “responsabilità di proteggere”, principio onusiano, coniato dall’Occidente. In questo contesto non si dovrebbe parlare di un aggressore strategico occidentale a cui risponde la Russia, aggressore tattico? Se la Russia fosse un Paese che ha bisogno di territori, perché non utilizza tutta la sua potenza? Un missile Oreshnik contro Kiev concluderebbe il conflitto rapidamente. Essendo poi in crisi economica e in situazione di stallo militare, un’azione dura, simile alla nostra a Dresda, dovrebbe tentarla. Mentre aspettiamo risposte che non perverranno, cerchiamo di illustre quanto sta avvenendo. Mosca da tre anni avanza lentamente per non sprecare le vite dei russi e per non radere al suolo l’Ucraina il cui popolo è apparentato, storicamente, culturalmente e in alcuni casi per vincoli familiari a quello russo. Da tre anni, a cominciare dal marzo 2022, la Russia si è detta disponibile a negoziare chiedendo la rimozione delle cause della guerra. Aveva accettato già nei colloqui di Istanbul nel 2022 la possibilità di un’Ucraina neutrale ma vicina all’Ue (quindi non di influenza esclusiva russa come i diplomatici ospiti di La7 affermano, ovviamente senza documentazione alcuna), ed era disposta quindi a rinunciare a territori aggiuntivi, addirittura a un negoziato sullo status delle Repubbliche autonome. Dopo tre anni di guerra, durante i quali Mosca ha contraddetto le aspettative della maggioranza degli opinionisti occidentali, diversificando la propria economia che cresce a un tasso maggiore di quella europea, i cantori del main stream dovrebbero spiegarci perché il Cremlino sceglierebbe di suicidarsi, accettando un cessate il fuoco in grado di permettere all’Ucraina e all’Europa di rimettersi in sesto, di armarsi e di essere pronti al conflitto, come sostiene Sikorski. L’inquietante realtà è che la telefonata recente tra l’ondivago Trump e Putin ha riguardato la consegna dei missili Tomahawk di lunga gittata e in grado di portare bombe nucleari all’Ucraina. Il presidente Putin deve aver chiarito che una tale escalation avrebbe favorito i falchi i quali chiedono una reazione consona (Oreshnik a Kiev?) per frenare la hybris dei volenterosi. Trump è dunque ritornato a parlare di pace, senza peraltro aver preparato alcuna strategia diplomatica. Non ha interesse a farsi coinvolgere dai “volenterosi” in una guerra contro Mosca. Ma è troppo debole per opporsi ai potentati della finanza.
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lunedì 29 settembre 2025
«La terza guerra mondiale scoppierà il 3 novembre»: le parole del generale della Nato scatenano il panico.
Tre parole insieme che danno forma a un incubo: "terza guerra mondiale". Da quando la minaccia russa si è fatta più concreta, in tanti si chiedono se il conflitto li riguarderà direttamente in tempi brevi e con quali conseguenze. Così, basta poco per creare una psicosi collettiva, soprattutto nel mondo social dove tutto è valido. Come successo con le parole dell'ex comandante della Nato Richard Shirreff, trasformate in una predizione della fine del mondo.
La terza guerra mondiale comincerà il 3 novembre?
In un'intervista al Daily Mail l'ex militare ha immaginato l'inizio della guerra mondiale tra Russia e Nato, ipotizzando una data vicina: il 3 novembre. Shirreff ha utilizzato questo giorno specifico per sottolineare l'impreparazione dell'Alleanza a un attacco delle forze russe. L'ex comandante voleva spiegare che la Nato dovrebbe prepararsi alla svelta. Ma quella data sui social è diventata preso una predizione della fine del mondo.
Immaginando lo scoppio della guerra il 3 novembre 2025, il generale ha immaginato come prime vittime le capitali baltiche. Vilnius e altre città subirebbero blackout estesi, poi propagati in Estonia e Lettonia a causa di attacchi informatici alle reti elettriche. La paralisi delle infrastrutture critiche – banche, ospedali e uffici pubblici – scatenerebbe panico diffuso, mentre rivolte e disordini verrebbero alimentati da agenti russi e bielorussi.
Poi si passerebbe al resto dell'Europa, con Regno Unito, Francia e Germania colpite in poco tempo. In questo modo la Nato non avrebbe il tempo di reagire.
L'Italia: Putin non pensa ad attaccarci.
Proprio nelle scorse ore il ministro degli Esteri Antonio Tajani, rispondendo al presidente russo Zelensky, ha dichiarato che ritiene «improbabile un attacco russo all'Italia perché Putin non ha intenzione di scatenare la terza guerra mondiale». La speranza di tutti è che abbia ragione.
lunedì 15 settembre 2025
~ Sapendo di mentire ~ Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano 15 settembre 2025
Abbiamo ascoltato molte idee interessanti, anche diverse dalle nostre, e sfornato un bel po’ di notizie.
Pensavamo che, data l’autorevolezza della fonte, qualcuno dei media che sull’Ucraina raccolgono anche l’ultimo sospiro del più sfigato guerrapiattista la riprendesse e magari chiedesse al suo corrispondente a Parigi di interpellare l’Eliseo.
Invece, silenzio di tomba.
Del resto nel novembre 2019, mentre Macron e Merkel tentavano di convincere Zelensky a rispettare gli accordi di Minsk sull’autonomia e il cessate il fuoco per il Donbass per metter fine a cinque anni di guerra civile e i settori oltranzisti dell’Alleanza remavano contro e soffiavano sul fuoco antirusso annunciando l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia, fu proprio il presidente francese a dichiarare la “morte cerebrale della Nato”.
E a battersi fino all’ultimo affinché Zelensky accettasse Minsk e rinunciasse alla Nato per scongiurare l’invasione russa.
Ora, nelle sue memorie appena pubblicate, la Merkel si vanta di aver detto no a Kiev nella Nato perché “sarebbe stato come dichiarare guerra a Putin”.
Anche la Meloni sa bene come e perché la guerra cominciò.
Infatti dopo l’annessione russa della Crimea e fino al 2022, si oppose alle sanzioni a Mosca e addirittura elogiò la Russia di Putin.
E il giorno dell’invasione russa (24.2.22) scrisse in chat ai suoi: “Ci sarebbero molte cose da dire su come questa vicenda è stata gestita, e fin quando abbiamo potuto le abbiamo dette. Quando tutto sarà finito la storia dirà che ancora una volta abbiamo avuto ragione: la strategia dei Democratici americani era sbagliata. I risultati parlano da soli. Ed era nostro dovere dirlo per cercare di evitare questo epilogo. Ma… ora che la guerra è iniziata non è più il momento dei distinguo: con l’Occidente e la Nato senza se e senza ma”.
Oggi solo Trump osa dire in pubblico ciò che tutti i leader europei sanno, ma dicono solo in privato.
Il guaio è che, persa la guerra, questi squilibrati cercano o fabbricano ogni giorno un casus belli per trascinarci in guerra.
Ecco perché la rivelazione di Sachs che li smaschera non deve conoscerla nessuno.
Come ha detto ieri Gustavo Zagrebelsky alla Festa del Fatto, nessun governante “fa” mai la guerra: la “fa fare” agli altri.
Cioè a noi.
Svegliamoci.
lunedì 4 agosto 2025
La demenza di Trump, Putin e i coglioni europei. - Tommaso Merlo
martedì 22 luglio 2025
Ue: Tagli al sociale e tasse per comprare più armi. - Pasquale Tridico.
Ieri sono interventuo in Parlamento europeo per denunciare la gravissima situazione che emerge dal nuovo Bilancio europeo 2028-2034, soprattutto per il Sud Italia.
Infatti, il Sud Italia pagherà un prezzo salatissimo dalla riforma della politica di coesione contenuta nella bozza di bilancio pluriennale della Commissione europea.
Spariscono i POR, PAC, FESR, FSE, acronimi dietro i quali c'erano finanziamenti e opportunità per le Regioni del Mezzogiorno e i suoi cittadini.
La Commissione europea li accorperà in un unico fondo togliendo la possibilità di spesa alle Regioni e tagliando l'assegno per gli Stati membri così da dirottare una parte consistente di quei fondi per il riarmo.
Cancellare la politica di coesione per finanziare una guerra è una vergogna assoluta che combatteremo in ogni sede istituzionale. Sul bilancio pluriennale ci sono le impronte digitali e le responsabilità di Ursula Von der Leyen, del Commissario Raffaele Fitto, che ha la delega proprio alla politica di coesione, e di tutte quelle forze politiche che li sostengono.
Bisogna staccare la spina a questa Commissione di destra che è contro il Sud, contro il sociale e la coesione.
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domenica 20 luglio 2025
venerdì 11 luglio 2025
ALESSANDRO ORSINI – IL FATTO – 08.07.2025
venerdì 4 luglio 2025
USA e Russia dialogano... ma... - Giuseppe Salamone
martedì 24 giugno 2025
Perché gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iran?

Alla fine, è accaduto. Il solstizio d’estate di quest’anno ha segnato non soltanto un passaggio stagionale, ma l’inizio di una nuova e drammatica stagione bellica.
Alle 2:10 iraniane della notte tra il 21 e il 22 giugno, dopo nove giorni di continui bombardamenti israeliani, sono intervenuti i velivoli bombardieri B-2 americani che, trovandosi la strada del cielo completamente spianata, hanno agito in profondità nel territorio nemico e sganciato le loro bombe sui siti nucleari di Fordow e Natanz. Contemporaneamente i sottomarini nucleari della U.S. Navy posizionati nel Mar Arabico colpivano con una ventina di missili da crociera Tomahawk il sito di Isfahan, nel quale è presente l’impianto in cui l’uranio naturale viene processato per poi essere trasferito nelle centrifughe di Natanz e Fordow.
I B-2 hanno, invece, attaccato Fordow e Natanz con le ormai famigerate bunker buster bombs, sganciandone un totale di 14, in quello che è il più importante raid aereo mai svolto con questo tipo di armamento.
Questa particolare e potente bomba che può essere trasportata e sganciata solo dai B-2 statunitensi, ha capacità di distruzione nel sottosuolo ed è, infatti, stata impiegata sui siti di Fordow, costruito all’interno di una montagna una novantina di metri sottoterra, e di Natanz, costruito parte in superfice e parte sotto.
Se una valutazione più precisa dei danni effettivi può essere fatta soltanto con il passare delle ore, le dichiarazioni iraniane e americane tendono a contraddirsi. Secondo Donald Trump l’attacco avrebbe completamente distrutto le centrali nucleari iraniane; mentre secondo fonti iraniane non ci sarebbe stata nessuna fuoriuscita di radiazioni, come per il momento ha confermato anche l’AIEA, ma ci sarebbero alcuni feriti e nessuna vittima. Il numero dei feriti e delle loro condizioni non è stato invece divulgato.
Apparentemente ad avere subito i danni maggiori sembra essere stata la centrale di Natanz, mentre la posizione di Fordow è più complicata da valutare, anche se membri delle istituzioni iraniane hanno dichiarato che tutto il materiale pericoloso era stato preventivamente evacuato e che la contraerea che si è efficacemente attivata ha evitato danni importanti a tutto l’impianto.
Ormai sembra quasi scontato dirlo, ma è sempre bene farlo, che questi attacchi americani, come i precedenti israeliani, sono stati compiuti in palese e aperta violazione del diritto internazionale. Nessuna risoluzione delle Nazioni Unite ha, infatti, autorizzato qualsivoglia operazione militare contro l’Iran.
È importante dirlo perché troppo spesso il diritto internazionale viene evocato a intermittenza, piegato alle necessità politiche contingenti. E gli attori che più frequentemente si ergono a difensori dell’ordine legale internazionale, come i paesi europei e l’Unione Europea, oggi o tacciono o sostengono apertamente questa violazione, così come hanno taciuto e sostenuto le continue violazioni israeliane prima in Palestina, Libano, Siria, Yemen e, infine, in Iran. E ciò avviene senza nessun tipo di remora, dato che lo stesso cancelliere tedesco Merz ha esplicitamente ringraziato Israele poiché “fa il lavoro sporco per noi”.
È evidente che dopo ciò, qualsivoglia argomentazione che includa la violazione del diritto internazionale, anche presunta, e che verrà nuovamente utilizzata per giustificare future aggressioni, condanne o sanzioni contro Stati considerati ostili all’Occidente, non potrà vantare alcuna legittimità.
Tuttavia, è importante cercare di capire cosa abbia spinto gli Stati Uniti a bombardare direttamente l’Iran, entrando con tutti e due i piedi nella guerra di Israele ed esponendosi ad un conflitto di proporzioni potenzialmente disastrose.
La bomba nucleare iraniana: il pretesto
Ogni guerra richiede il sostegno dell’opinione pubblica, e tale consenso è più facilmente ottenibile quando si fornisce una motivazione apparentemente razionale: una minaccia concreta che possa mettere in pericolo la sicurezza stessa delle popolazioni dei Paesi coinvolti. Serve, in altre parole, una giustificazione.
Il pretesto e la conseguente giustificazione di questo conflitto contro l’Iran è la minaccia nucleare. Secondo la narrazione israeliana e conseguentemente americana, l’Iran non può e non deve dotarsi dell’arma atomica. Questa linea è ovviamente condivisa anche dagli altri leader occidentali. D’altronde, cosa riesce a mobilitare l’opinione pubblica meglio del timore di una minaccia nucleare imminente?
Eppure, l’Iran non possiede armi nucleari, né risulta fosse prossimo a svilupparle. Tale posizione è stata esplicitata anche da Tulsi Gabbard, attualmente a capo dei servizi segreti statunitensi, durante un’audizione al Congresso tenutasi lo scorso marzo. Solo in seguito, nei giorni recenti, ha parzialmente ritrattato, affermando che “l’Iran potrebbe essere in grado di realizzarla”.
Al di là delle ambiguità retoriche e delle contraddizioni interne a queste dichiarazioni, vi sono alcuni elementi tecnici e politici che meritano una riflessione approfondita.
Anzitutto, benché raramente venga sottolineato, il programma nucleare iraniano è ufficialmente destinato alla produzione di energia a uso civile. Inoltre, il Paese non dispone delle risorse e delle tecnologie necessarie per sviluppare un’arma nucleare moderna. Le bombe nucleari moderne (specialmente le termonucleari a fusione) usano tipicamente plutonio-239 weapons-grade come materiale fissile o una combinazione di uranio arricchito e plutonio, risorsa, quest’ultima, che l’Iran appunto non possiede, come non possiede alcun reattore utilizzabile a questo scopo. E questo è un dato confermato da anni di monitoraggio da parte di enti internazionali.
Diverso, ma comunque distante da una minaccia concreta, è il discorso dell’atomica ad uranio arricchito al 90%, una bomba equiparabile a quella dell’Enola Gay, considerata oggi un’arma obsoleta e comunque complessa da mettere a punto, e infatti ciò richiederebbe parecchio tempo, mentre da più di 30 anni Netanyahu avverte il mondo che l’Iran sarebbe proprio a un passo dal costruirla.
Ma per realizzare un’atomica serve anche altro: un sistema di esplosione controllata estremamente sofisticato, che l’Iran non pare avere; e il vettore, ovvero un missile su cui montare la bomba che sia in grado di bucare le difese aeree nemiche.
In ogni caso, il pretesto bellico è stato accuratamente costruito.
Il giorno prima dell’inizio degli attacchi israeliani, l’AIEA – Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (in inglese International Atomic Energy Agency), un’organizzazione intergovernativa che promuove l’uso pacifico dell’energia nucleare e ne impedisce la proliferazione per scopi militari e che controlla che il programma nucleare iraniano rispetti gli accordi sottoscritti – ha approvato una relazione di dura condanna nei confronti dell’Iran, accusandolo di aver aumentato l’arricchimento dell’uranio fino al 60% e di aver incrementato in modo significativo la quantità di materiale stoccato.
La relazione è stata votata con una maggioranza di 19 favorevoli, ai quali si sono opposti 3 contrari (Russia, Cina, Burkina Faso) e ben 12 astenuti, mentre 2 paesi non hanno partecipato al voto, secondo la stampa.
Allo stesso tempo è fondamentale tenere presente gli stati promotori della relazione: Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania.
Non sorprende, dunque, che il giorno seguente alla pubblicazione del rapporto, Israele abbia dato il via agli attacchi contro l’Iran, con l’obiettivo dichiarato di smantellarne il programma nucleare e, al contempo, colpire in modo mirato infrastrutture militari strategiche. Tel Aviv ha inoltre rivendicato con fierezza l’eliminazione di diversi scienziati iraniani coinvolti nel programma nucleare, cioè civili, uccisi deliberatamente. Un’azione, come ampiamente e tristemente noto, non certo inedita nella politica militare israeliana.
In sostanza, la minaccia rappresentata da una bomba che non esiste ha innescato uno dei conflitti potenzialmente più pericolosi degli ultimi decenni. E benché, la stessa AIEA abbia detto per bocca del suo Segretario Generale che l’Agenzia ha la capacità di monitorare che l’Iran non arrivi mai all’arma atomica, ciò non è bastato per evitare le ostilità aperte.
È possibile, ma non definitivamente accertato, che l’Iran abbia deciso di arricchire dell’uranio (ma sicuramente non fino al livello necessario per ottenere la bomba), probabilmente per rafforzare la propria posizione negoziale nei colloqui con gli Stati Uniti e più difficilmente per arrivare a costruire un ordigno, ma il sospetto è sufficiente a scatenare una guerra? Sì, se non è la reale motivazione dietro ad essa.
Il ruolo di Israele
Per comprendere le motivazioni che hanno condotto gli Stati Uniti ad attaccare direttamente l’Iran, è necessario innanzitutto interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto Israele a dare il via alle ostilità.
La domanda è complessa e la risposta ugualmente necessita di tenere insieme diversi fattori.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu attraversava, nei mesi precedenti l’attacco, un periodo di crescente isolamento diplomatico. Le cancellerie europee avevano iniziato improvvisamente ad accorgersi che a Gaza stava succedendo qualcosa e avevano iniziato a chiedere ad Israele di morigerarsi, anche se nessun leader europeo di governo, o quasi, ha parlato espressamente di genocidio.
Le pressioni internazionali cominciavano a farsi pesanti per Israele e la sua reputazione globale ha subito negli ultimi mesi un repentino e drastico calo. D’altronde non poteva essere diversamente con la trasmissione in diretta globale degli attacchi missilistici, dei bombardamenti e dell’invasione via terra di Gaza che non ha risparmiato i civili, poco importa che fossero uomini, donne, anziani, malati o bambini.
In questo contesto, a Netanyahu serviva un’operazione che potesse avere un duplice scopo comunicativo: a) ritornare tra le grazie degli alleati; b) togliere l’attenzione da Gaza per poter continuare l’operazione militare contro i civili palestinesi senza interferenze esterne e mascherare le difficoltà e i limiti di un conflitto ancora lontano dall’essere risolto.
L’assist (volontario? È naturale chiederselo) fornito dalla relazione presentata all’AIEA da Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito ha dato vita all’attacco cominciato la notte tra il 12 e 13 giugno che ha effettivamente raggiunto entrambi gli obiettivi.
Il bisogno di una svolta dal punto di vista dell’immagine e delle pressioni internazionali si è, però, coniugato anche con la strategia di potenza.
Colpire l’Iran significa colpire il pesce grosso nel Medio Oriente, significa dare una spallata agli equilibri egemonici nella regione e assumere influenza maggiore. Dopo aver completamente decapitato la macchina paramilitare di Hezbollah e di Hamas e aver contribuito in maniera determinante al progressivo e definitivo logoramento del regime di Bashar al-Assad in Siria, Netanyahu, che per rimanere a galla sembra necessitare della guerra perpetua, ha deciso di puntare Teheran per tentare il colpo che possa chiudere la partita con i nemici storici dello Stato d’Israele. Un tentativo, appunto, perché il rischio, senz’altro accuratamente calcolato, è quello di un’ostilità lunga.
La capacità di Israele di colpire nel cuore dello stato iraniano è stata ampiamente certificata, non soltanto in questi giorni (basti pensare all’uccisione dell’ex presidente iraniano Raisi). Il livello di infiltrazione dei servizi israeliani all’interno anche delle stesse forze armate iraniane è profondo. Israele ha, infatti, subito colpito con facilità diversi obiettivi militari, pur non eliminando completamente la capacità operativa dell’Iran. Ha colpito in superficie anche i siti nucleari, però senza arrecare eccessivi danni.
L’obiettivo più probabile, in questo scenario, è la demilitarizzazione dell’Iran, perché uno Stato che non è capace di proteggere i suoi cittadini è uno Stato che può essere spinto verso un cambiamento di regime dall’interno. Una prospettiva, sicuramente presa in considerazione da Israele, che appare favorita dal costante lavoro di intelligence svolto dai servizi americani e israeliani negli ultimi anni al fine di fomentare proprio un cambio di regime. Tuttavia, i processi politici non sono equazioni matematiche e spesso non seguono logiche lineari: una popolazione sottoposta a bombardamenti stranieri può, al contrario, ritrovarsi compatta attorno alla propria leadership, anche in presenza di disaccordi politici pregressi.
L’incapacità di Israele di riuscire ad arrivare all’obiettivo pubblicamente dichiarato, invece, ovvero annientare il programma nucleare iraniano è, in definitiva, il motivo principale che ha visto entrare in questa guerra gli Stati Uniti. Sarà da valutare successivamente se l’entrata in guerra si limiterà a questa singola azione, come ribadito da più parti dell’amministrazione americana, o avrà un suo seguito anche in base alle eventuali risposte iraniane e internazionali.
Malgrado le relazioni tra Netanyahu e Trump non siano esattamente idilliache, il rapporto tra Stati Uniti e Israele trascende la politica contingente, ma è strutturalmente stretto, fraterno. Per gli Stati Uniti non è ammissibile in alcun modo che Israele venga visto fallire dal mondo intero, inoltre le pressioni interne ed esterne su Washington per non lasciare solo lo Stato ebraico hanno fatto il resto, insieme alla necessità americana di riportare ai fasti la propria immagine di superpotenza dopo l’impotenza percepita in altri scenari, in particolare proprio mediorientali.
Il calcolo geopolitico
L’egemonia e le sfere d’influenza giocano un ruolo fondamentale nel quadro della geopolitica.
Se da una parte Donald Trump è probabile che non sia entusiasta di impantanare nuovamente gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente, pur a suon di missili piuttosto che “stivali sul terreno”, è sempre vero che dalla contingenza l’obiettivo è di strappare il miglior risultato possibile, e anche in Medio Oriente si gioca la partita dell’egemonia globale e della sfida americana al multipolarismo con lo scopo di rimanere leader del mondo.
Trump preferirebbe concentrare le sue forze nella sfida ben più complessa dell’Indo-Pacifico, nel confronto con la Cina, e in questo senso va anche il progressivo, seppur altalenante, spostamento e ritiro dei contingenti americani anche dai teatri come il Medio Oriente. Ritiro che diventa, ovviamente, impossibile in caso di guerra e piani che quindi slittano nel tempo. In questo senso, va letta la fretta nelle brevissime dichiarazioni del Presidente americano fatte dopo l’attacco, dove ha invitato l’Iran a fare la pace, ribadendo che l’attacco serviva a distruggere il programma nucleare iraniano e non a scatenare una guerra più ampia. Certo, affermazioni singolari, addobbate di contraddizioni e pure di riferimenti evocativi agli attacchi militari, quasi come se si trattasse di un film di Hollywood, ma che rendono l’idea dei piani nella testa dell’attuale Presidente. La guerra all’Iran non sembra tanto essere una guerra di Trump, ma una guerra americana con volontà bipartisan, al quale nessun inquilino della Casa Bianca si sarebbe potuto sottrarre. Da non dimenticare che Kamala Harris in campagna elettorale disse esplicitamente che “l’Iran è il più grande avversario degli Stati Uniti”. La differenza, piuttosto, la possono fare le tempistiche con le quali si sceglie di impegnarsi nel conflitto e la qualità degli attacchi.
Valutando ciò, si potrebbe pensare che gli attacchi americani della notte scorsa possano essere stati un modo per accontentare Netanyahu e per cercare di chiudere subito la questione, facendo credere di aver raggiunto l’obiettivo, con l’Iran che dovrebbe soltanto fare “la parte del morto” per reggere il gioco e cessare, almeno per ora, le ostilità.
Certo, potrebbe essere un’opzione, ma allo stesso tempo potrebbero essere stati anche un modo per testare la volontà iraniana di difendersi e di eventuali altri attori internazionali di alzare la voce. Non è oltretutto detto che ciò fermi Israele, e in questo caso Trump sarà pronto ad andare fino in fondo e far cadere un altro alleato di Russia e Cina cercando, in qualche modo, di strappare alla loro influenza un altro pezzo importante di Medio Oriente, senza rischiare di subire reazioni.
Possibili conseguenze
È improbabile che la Federazione Russa o la Repubblica Popolare Cinese rispondano con un’azione militare diretta in difesa dell’Iran, sebbene Teheran faccia formalmente parte dei BRICS+. Questi ultimi appaiono più come un’alleanza di natura tattica ed economica che non come una coalizione strategica dotata di coesione militare, politica e ideologica.
Seppure i rapporti tra Teheran e Mosca siano solidi e la Russia abbia recentemente perso un alleato rilevante nello scacchiere mediorientale e non può permettersi di vedere ulteriormente compromessa la propria rete d’influenza nella regione, l’impegno militare sul fronte ucraino, che continua a logorare risorse, rende poco plausibile un coinvolgimento diretto in un secondo teatro di guerra ad alta intensità. Analogamente, la Cina sembra non avere alcuna intenzione di esporre la sua forza militare, malgrado l’Iran rappresenti un partner strategico e abbia contribuito lei stessa allo sviluppo di parte del programma nucleare iraniano fornendo tecnologie.
Ciò non toglie il fatto che saranno svolti altri tipi di tentativi, potenzialmente anche decisi, da parte delle due potenze per evitare un’ulteriore escalation. Tanto che nella mattinata odierna è previsto un incontro a Mosca tra il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi e il Presidente russo Putin, dal quale difficilmente gli iraniani torneranno senza aver ottenuto una qualche forma di supporto.
Dal canto suo l’Iran, che ha già risposto colpendo pesantemente Israele, come già minacciato, potrebbe decidere di reagire chiudendo lo stretto di Hormuz mandando completamente in crisi l’economia europea e globale. Da quel corridoio marittimo fondamentale tra Iran e Oman, infatti, passa circa 1/5 del commercio globale di idrocarburi. Certo, questa decisione porterebbe a un importante aumento della tensione e all’estensione quasi certa della guerra, che in questo caso non si fermerebbe senz’altro. D’altronde, però, questa arma geografica è a disposizione di Teheran e se ritenesse gli attacchi di Israele e degli Stati Uniti una minaccia esistenziale, avrebbe tutta la facoltà di disporne.
Allo stesso tempo, la flotta statunitense al largo del Bahrein potrebbe diventare un obiettivo di Teheran, qualora decidesse di replicare con tutte le sue forze, così come le numerose basi americane dislocate nei vari paesi del Medio Oriente.
Se è difficile prevedere ciò che succederà perché dipenderà da numerosi fattori e dalle mosse delle prossime ore, quello che appare ormai certo è che le azioni di Israele e Stati Uniti, con il placido assenso dell’UE, stanno alimentando non poco la fiamma del disordine globale, con conseguenze che rischiano di essere a dir poco incendiarie.

sabato 21 giugno 2025
Peggio per noi - Di Marco Travaglio.
Se Trump interverrà nella guerra privata di Netanyahu contro l’Iran senza ragioni né sbocchi, sarà peggio per lui e per gli americani, ma soprattutto per noi europei.
Peggio per lui perché l’ansia di apparire protagonista dappertutto e purchessia, anche in un conflitto che non voleva e tentava di evitare con un negoziato intelligente e promettente troppo presto abbandonato, lo trasformerà nell’attendente di Bibi, che lo trascinerà in una lunga avventura di cui nessuno conosce l’esito finale, ma tutti sanno che sarà disastroso.
Peggio per gli americani perché ripiomberanno nell’incubo delle guerre neocon per esportare democrazia, che hanno esportato morte, instabilità e terrorismo e importato migliaia di bare di soldati morti per nulla. E a ripiombarveli sarà Trump, quello del Maga e dell’America First, che appena un mese fa pronunciava a Riad il suo miglior discorso di sempre dinanzi ai satrapi del Golfo: “Gli interventisti occidentali vi hanno impartito lezioni su come vivere o come governare i vostri affari. Ma le scintillanti meraviglie di Riad e Abu Dhabi non sono state create dai cosiddetti ‘costruttori di nazioni’, dai ‘neoconservatori’ o dalle Ong ‘progressiste’, che hanno speso miliardi di dollari per non sviluppare Kabul, Baghdad e tante altre città… I cosiddetti ‘costruttori di nazioni’ hanno distrutto molte più nazioni di quante ne abbiano costruite e gli interventisti hanno ingerito in società complesse che neppure comprendevano… Troppi presidenti americani sono stati affetti dall’idea che sia nostro compito giudicare l’anima dei leader stranieri e dispensare giustizia per i loro peccati… Giudicare è compito di Dio: il mio compito è difendere l’America e promuovere gli interessi fondamentali di stabilità, prosperità e pace”. Per questo era stato rieletto: non certo per ricominciare a impicciarsi nei fatti altrui come un Clinton, un Bush jr., un Obama, un Biden o una Harris qualsiasi.
Ma, se Trump smentirà Donald, sarà soprattutto peggio per noi europei. Quando l’Iran diventerà un nuovo Vietnam / Jugoslavia / Afghanistan / Iraq / Siria / Libia / Ucraina, gli Usa fuggiranno come sempre oltre Oceano, lasciandoci le consuete e scontate ondate di profughi e di terrorismo. Il che rende ancor più tragicomica la postura dei vertici Ue e dei governi europei, che non muovono un dito per sanzionare Israele e straparlano di “autodifesa” dell’aggressore dall’aggredito. E sotto sotto pensano ciò che il più demente di tutti (ma è una bella gara), il tedesco Merz, dice in chiaro: “Netanyahu sta facendo il lavoro sporco per tutti noi”. Sono troppo impegnati a montare di vedetta a Est contro l’immaginaria invasione russa, per vedere la vera invasione in arrivo da Sud.
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