martedì 3 agosto 2021

“Bankitalia è al vostro fianco”. Perché Draghi ha a cuore Mps. - Carlo Di Foggia

 

Nei disastri bancari è difficile trovare chi è senza peccato, si sa, ma almeno qualcuno dovrà spiegare cos’è successo. Palazzo Chigi fa filtrare che i partiti non devono ostacolare l’imminente spezzatino del Montepaschi e annessa cessione della polpa a Unicredit a carico dello Stato. Sui giornali retroscena identici narrano di un Draghi deciso a “tirare dritto” e a “mettere in sicurezza il sistema del credito”. Il premier, pare, considera Mps il tema più sensibile tra quelli che ha sul tavolo. Ecco perché.

Il disastro Mps ha un’origine. Nel 2007 il presidente Giuseppe Mussari – dalemiano, poi tremontiano, ma soprattutto caro alla massoneria senese, padrona della banca – decide di strapagare Antonveneta. Il 17 marzo 2008 il governatore di Bankitalia Mario Draghi autorizza l’operazione: “Non risulta in contrasto col principio della sana e prudente gestione”, scrive. Mussari paga 9 miliardi e se ne accolla 7,5 di debiti: 17 miliardi per un istituto che il venditore, il Santander di Emilio Botin, aveva pagato tre volte meno pochi mesi prima rilevandolo da Abn Amro. Botin, legatissimo all’Opus Dei, gliela vende a scatola chiusa. Pochi mesi prima la finanza cattolica italiana gli aveva sbarrato la strada della scalata al San Paolo Imi: i torinesi preferirono consegnarsi alla Banca Intesa di Giovanni Bazoli. Il sistema italiano ricompensa Botin girandosi dall’altra parte quando Mussari decide l’azzardo. Per quegli strani giri dei disastri italiani, a consigliarlo, per conto della banca d’affari Merryll Lynch, è Andrea Orcel, che oggi guida Unicredit destinata a prendersi Mps. Quel che avviene prima e dopo è un trionfo di irresponsabilità e silenzi.

La vigilanza sapeva che Mussari stava suicidando la banca. Pochi mesi prima, una lunga ispezione aveva trovato una situazione critica in Antonveneta. L’ispezione si chiude a dicembre 2006 con un esito “in prevalenza sfavorevole” e la richiesta di multare vertici e collegio sindacale: 64 pagine che prefigurano la futura esplosione delle sofferenze (i crediti inesigibili), pari a 4 miliardi, più un altro miliardo di incagli e la previsione di nuove perdite per 2,8 miliardi; altri 1,8 miliardi sono “a rischio di decadimento qualitativo”. La gestione dell’istituto viene fatta a pezzi con 5 voti negativi su 6: perde clienti; è ingessata; i controlli gestionali “non prevedono analisi di redditività” e la contabilità “è connotata da prassi poco efficaci e da aree di manualità”.

Perché allora Bankitalia dà l’ok? Ai magistrati senesi che indagarono sul disastro, Mussari (nel 2006 acclamato alla guida dell’Abi) spiegò di “non ricordare come si svolsero le trattative”. Non ci fu due diligence, cioè una profonda analisi dei conti di Antonveneta. Il 26 novembre 2007 i vertici di Mps vengono ricevuti da Draghi e dai vertici della Banca d’Italia. Mussari e il dg Antonio Vigni illustrano l’acquisto. Ai pm attoniti, l’allora capo della vigilanza Annamaria Tarantola racconta che governatore e soci si “raccomandarono coi vertici di Mps di ‘fare per bene’ l’acquisizione”. Vigni appunta sulla sua agenda: “Bankit sarà al vs fianco”. Chi lo ha detto? Tarantola si limita a dire che “sicuramente abbiamo detto che Banca d’Italia li avrebbe seguiti e indirizzati”. Sarà la capacità di indirizzo il motivo per cui nel 2011 Monti la vuole presidente della Rai e Draghi l’ha appena chiamata a Palazzo Chigi come consigliere economico.

Quel che succede dopo è ancor più indicativo. L’operazione si conclude nel 2008 quando la crisi mondiale è già in atto. La storia è nota. Per tamponare l’emorragia e abbellire i bilanci Mps metterà in piedi le operazioni in derivati (i famosi “Alexandria” e “Santorini”). Nell’aprile 2016, alle Camere, il governatore Ignazio Visco rivendicò di essere stato lui, appena arrivato, a chiedere a Mussari e Vigni di andarsene. Non altri. Visco li convoca a novembre 2011 e gli dice di andarsene: “Non avevo potere di farlo, ho corso un rischio personale”. In quei giorni Draghi si insedia alla Bce.

La vulgata vuole che siano stati i nuovi vertici di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, a scoprire il trucco dei derivati trovando nella cassaforte di Vigni il contratto con Nomura su Alexandria (lo rivelò il Fatto a gennaio 2013). Eppure i processi hanno mostrato anche altro. Mussari&C. sono stati assolti dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza. Già nel 2010 le strane operazioni in liquidità avevano spinto Bankitalia a mandare gli ispettori. La situazione è così critica che ci ritornano a settembre 2011. Il team guidato da Giampaolo Scardone viene avvisato da Consob (attivata da un esposto anonimo) di indagare su Alexandria: si scopre che una serie di operazioni apparentemente scollegate prefigurano “nella sostanza, piuttosto che nella forma, un Cds”, cioè un derivato: “Era parsa l’unica soluzione plausibile”. Ma, dice Scardone al Tribunale di Siena, senza il mandate agreement è una cosa “che non ci siamo sentiti di contestare perché oggettivamente era fondata su valutazioni di tipo esperienziale”.

L’ispezione si svolge nelle settimane cruciali della caduta del governo Berlusconi, l’arrivo di Monti e, come detto, l’insediamento di Draghi alla Bce. Forse la storia sarebbe cambiata se la bomba Mps fosse esplosa prima. Fatto sta che oggi Palazzo Chigi “tira dritto”.

IlFQ

Pronti a fuggire. - Marco Travaglio

 

Giuseppe Conte, sulla Stampa, dice due cose giuste e una sbagliata. La prima giusta è che, in una maggioranza del genere, è già un miracolo se i 5Stelle – soli contro tutti – abbiano salvato il grosso dei processi dalla morte sicura prevista dalla schiforma Cartabia modello base. La seconda è che non c’è alcuna “riforma Cartabia”: solo emendamenti contro un terzo della vera riforma, quella di Bonafede, che per gli altri due terzi resta, all’insaputa di tutti i partiti che la stanno votando. Sopravvive anche la blocca-prescrizione: la Cartabia ha tentato di aggirarla aggiungendovi la prescrizione non più del reato ma del processo (“improcedibilità”), se la sentenza d’appello non arriva entro 2 anni da quella di tribunale e quella di Cassazione entro 1 anno da quella d’appello. Così i reati avrebbero continuato a non prescriversi, ma si sarebbero prescritti quasi tutti i processi: se non era zuppa era pan bagnato. Invece la cosiddetta ministra della Giustizia ha dovuto cedere alla (tardiva) resistenza del M5S: escludendo i reati di mafia, violenza sessuale e traffico di droga; e triplicando i tempi per i reati con aggravante mafiosa e raddoppiandoli per quelli “ordinari”. Risultato: diverranno improcedibili solo i processi d’appello più lunghi rispettivamente di 6 o di 4 anni, cioè pochi. Per tutti gli altri, la prescrizione del reato resterà bloccata e si arriverà a sentenza definitiva. Così il pericolo principale è stato sventato, anche se i commentatori, ignoranti e/o in malafede, dicono l’opposto.

Tutto bene, allora? Niente affatto. La riforma, nella parte degli altri emendamenti Cartabia (cioè Ghedini-Bongiorno), resta una sconcezza: ma per fortuna è solo una legge delega e per entrare in vigore necessita di appositi decreti del governo, che si spera non faccia in tempo a vararli. Nella parte (predominante) della Bonafede, invece, contiene i 2,7 miliardi di Recovery stanziati dal Conte-2 per nuovi tribunali e carceri, assunzioni, ufficio del processo, digitalizzazione, notifiche semplificate ecc. Che poi è l’unica cosa che ci chiedeva l’Ue. Si poteva ottenere di più? Difficile: il M5S è solo, ma neppure l’appoggio di Pd e Leu (spariti) avrebbe garantito i numeri per battere le destre (Iv inclusa). Però l’errore di Conte è dire: “Mai pensato a causare la crisi di governo”. Se l’avesse causata, la schiforma sarebbe passata nella prima versione: la peggiore. Ma, senza le migliorie ingoiate da Draghi, buttarlo giù sarebbe stato il minimo sindacale. Se governi coi rappresentanti della criminalità che hanno appena visto condannare per mafia in appello i loro ex uomini di governo D’Alì e Cosentino (dopo B., Previti, Dell’Utri &C. per altri gravissimi reati), meglio tenersi sempre una via di fuga.

ILFQ

Lavoro, dagli ingegneri agli esperti «green»: ecco i profili introvabili in Ue. - Cristina Casadei



 














(Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore)

In Francia l’88% delle imprese non trova le competenze di cui ha bisogno, in Italia l’85%, in Germania l’82%. In Cina e Stati Uniti la carenza esiste ma è ridotta al 28% e al 32%. L’evoluzione tecnologica allontana domanda e offerta di lavoro.

Vicino alla città di Crolles, a quasi 20 chilometri da Grenoble, nel sud est della Francia, c’è una fabbrica che produce microscopici manufatti, considerati l’oro dei nostri giorni: sono quelle piastrine di silicio, i chip, che troviamo nei sensori delle auto, negli oggetti quotidiani dell’internet of things e negli smartphone.
Fa parte del gruppo ST, leader nel mondo nella produzione di componenti elettronici. Dopo gli ampliamenti del passato, oggi ci lavorano 2.400 tecnici e 2mila ingegneri. Anche loro considerati l’oro del nostro tempo. Molto ricercati, ma introvabili e contesi. In un paese, dove, «secondo la Banca di Francia, quasi un’impresa su due non trova risposta alle sue offerte di lavoro», ha sottolineato il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, nel suo discorso alla nazione del 12 luglio. Macron ha da sempre nella sua agenda politica gli interventi per risolvere il mismatch domanda-offerta di lavoro. Un tema ancora più urgente adesso che «la nostra priorità è ritrovare non solo il livello di occupazione antecedente alla pandemia, ma di inserirci nella traiettoria del pieno impiego».

I DATORI DI LAVORO CHE HANNO DIFFICOLTÀ A TROVARE I PROFILI PER I POSTI VACANTI

Il confronto internazionale. Dato 2021, in % - Nota: Indagine Talent shortage di Manpowergroup su 42mila datori di lavoro

I DATORI DI LAVORO CHE HANNO DIFFICOLTÀ A TROVARE I PROFILI PER I POSTI VACANTI

I 22 milioni di europei verso il mercato del lavoro.

In Europa nel post pandemia ci sono «22 milioni di persone che dovranno ritrovare la strada del mercato del lavoro - spiega Stefano Scarpetta, direttore dell’area lavoro dell’Ocse. - Ci sono 8 milioni di disoccupati in più rispetto al periodo precrisi e 14 milioni di inattivi. Il disallineamento delle competenze è una tendenza di lungo periodo che si è accentuata con la pandemia in tutti i paesi».
La carenza dei talenti, di cui parliamo sempre per l’Italia, è un’emergenza internazionale e proprio per questo ancor più difficile da risolvere.
Nell’indagine Talent shortage, della multinazionale dei servizi per il lavoro ManpowerGroup, su 42mila datori di lavoro nel mondo, la percentuale di chi ha difficoltà a trovare lavoratori con le giuste competenze, nel 2021, è ai massimi da 15 anni: parliamo di quasi 7 datori di lavoro su 10. Stefano Scabbio, presidente del Sud Europa di ManpowerGroup, spiega che «in un mondo in cui i modelli di business delle aziende si stanno trasformando con grande rapidità e che ha registrato tassi di disoccupazione sempre più alti a causa della pandemia, il talent shortage si afferma con sempre maggiore forza. In Italia, quest’anno, ha raggiunto l’85%, il dato più alto di sempre, quasi raddoppiato negli ultimi 3 anni. Ma il fenomeno non è solo italiano: in Europa le aziende che riscontrano carenza di talenti sono in aumento in quasi tutti i paesi, con picchi in Francia dove raggiunge l’88%, Svizzera e Belgio con l’83%, Germania con l’82%». Diverso il discorso al di fuori dell’Europa. Nelle grandi economie, oggi trainanti, questo fenomeno è praticamente dimezzato con la Cina al 28%, gli Stati Uniti al 32% e l’India al 43%.

Gli ingegneri introvabili.

Da Crolles percorrendo 400 chilometri verso est si sconfina in Brianza dove, ad Agrate, c’è un’altra fabbrica di ST, recentemente ampliata con uno stabilimento di 65mila metri quadrati su più piani. Caratteristica dell’impianto è la lavorazione di fette di silicio da 300 mm, o dodici pollici, di diametro. È il primo impianto per fette così grandi in Italia. Qui lavorano 2mila tecnici e 2.550 ingegneri.
Preziosissimi, introvabili tanto quanto in Francia. «Per grandi realtà produttive come Agrate e Crolles le competenze più critiche da reperire sono legate alle discipline Stem - ci racconta Gualtiero Mago, group vice President human resources di ST Italia - In assoluto le posizioni più difficili sono quelle di maintenance ed equipment engineer o tecnico di manutenzione, specialisti che operano su macchinari estremamente complessi. Solo ad Agrate ne abbiamo più di 30 aperte».
Difficili da trovare? Molto, perché «purtroppo mancano percorsi formativi specifici per una professionalità in così rapida evoluzione e che evolverà ancora». ST, ad Agrate come a Crolles, ha piani di sviluppo che prevedono molti inserimenti. Per evitare che la mancanza di determinati profili e competenze possa rallentare i piani sono state avviate iniziative specifiche in Italia e in Francia per avvicinare i mondi del sapere e del fare.
Tra queste, in Italia, la collaborazione con la Fondazione ITS Lombardia Meccatronica, gli ITS, IFTS e le Università, in particolare l’università di Catania per il Master di primo livello in Smart Manufacturing Production Engineering and predictive maintenance.

La transizione green e digitale.

Per ricostruire il quadro abbiamo cercato il presidente della World Employment Confederation-Europe, Herman Nijns che, a una vista globale, ne affianca una specifica su Belgio e Lussemburgo, dove è ceo di Randstad. Nijns spiega che «i disallineamenti di competenze sono una preoccupazione crescente in molti paesi europei. Dai dati Ocse, ad esempio, Austria, Belgio, Francia, Germania e Italia. Prima della pandemia, la carenza di competenze era già ai massimi storici e recenti ricerche evidenziano che il problema non è scomparso». Anche per questo, continua Nijns «il 42% delle aziende sta dando maggiore importanza agli sforzi di riqualificazione e miglioramento delle competenze dopo l’epidemia di Coronavirus». Nell’interpretazione che ne dà Nijns «le esigenze e le discrepanze di competenze sono fortemente guidate dallo sviluppo economico e dalla struttura delle economie in Europa. Guardando ai paesi della Ue, la maggior parte sta attualmente attraversando una doppia transizione, quella verde e quella digitale. Sia la transizione digitale che quella verde richiedono nuove competenze e hanno aumentato la domanda in alcuni settori, come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e le energie rinnovabili».

L’informatizzazione del paese a rischio.

Secondo i datori di lavoro, la carenza è particolarmente acuta in ambito digitale. Lo sa bene Rinaldo Ocleppo, il presidente del gruppo di servizi It, Dylog. Sulla crescita della società e dei progetti incombe la fatica «a trovare persone skillate sui framework più nuovi, web cloud e reti – dice Ocleppo. - L’arrivo delle ingenti risorse del Pnrr, non essendoci le persone, rischia di generare un aumento dei salari ma non delle attività di informatizzazione del paese, se non si fa un percorso efficace di formazione e orientamento dei giovani».
Al punto che il gruppo si trova a dover «rinunciare a portare avanti determinati progetti». Un esempio? «Proprio nelle scorse settimane - racconta Ocleppo - stavamo cercando 15 persone per creare un gruppo di lavoro per riscrivere un prodotto in cloud. Ne abbiamo trovate 2 a Torino, 2 a Catania, 2 a Bari, ma la realtà è che se lei vuole costruire un gruppo di lavoro di 20 persone con le competenze su web, reti e cloud a Torino non le trova». Anche perché cresce «il fenomeno di multinazionali inglesi o tedesche che assumono talenti nel nostro paese e li lasciano a lavorare in smart working in Italia, con stipendi molto più alti dei nostri».

L’invecchiamento della popolazione.

A determinare le dinamiche del mercato del lavoro non sono solo la transizione digitale e quella green, ma «anche l’invecchiamento delle società che porta ad un aumento della domanda nel settore sanitario e dell’assistenza agli anziani, professioni che sono state al centro dell’attenzione durante la pandemia di Covid-19 - dice Nijns -.Oltre a questo, vediamo molti posti vacanti per persone poco qualificate che sono anche difficili da riempire. Ciò significa che le politiche attive in molti paesi europei non sono ancora pienamente efficienti».

La formazione strategica.

Se i dati Ocse ci dicono che nel post pandemia ci sono 22 milioni di persone che dovranno reinserirsi nel mondo del lavoro, «ammesso che non tutti coloro che hanno perso il lavoro dovranno trovarne uno diverso da quello che facevano, è evidente che questa crisi ha accelerato un cambiamento già in atto: saranno creati nuovi posti e molti non esisteranno più. In questo quadro la formazione gioca un ruolo essenziale - interpreta Scarpetta -. Bisogna agire attraverso il profilaggio delle persone e delle opportunità, rivolgendosi agli intermediari come le agenzie del lavoro che conoscendo bene il mercato possono aiutare l’incrocio domanda offerta, riformando i centri per l’impiego e lavorando per mettere in relazione mondo della scuola e del lavoro. C’è molto da fare, soprattutto in un paese come l’Italia, ma la buona notizia è che forse stavolta ci sono ingenti risorse che il Pnrr ha messo a disposizione di tutti i paesi, che, seppure in maniera diversa, sono tutti coinvolti dal tema del mismatch. Queste risorse sono molto preziose e vanno investite in modo oculato».

La competizione internazionale.

In questa fase St che, secondo i dati 2020 ha un giro d’affari di 10,22 miliardi e un utile netto di 1,11 e dà lavoro a 46mila persone nel mondo, sta crescendo fortemente e deve rispettare ritmi di consegna molto sostenuti a causa della ingente richiesta mondiale di chip. Impresa non facile con posizioni aperte su diversi ruoli, soprattutto legati alla manutenzione e la fame mondiale che c’è nell’It di tecnici e ingegneri. Quello che raccontano dalla società si può considerare un po’ l’eco del sentimento espresso da migliaia e migliaia di datori di lavoro che stanno combattendo per portarsi in casa le competenze che servono in uno scenario internazionale. Scarpetta dice che stiamo parlando di tendenze che «valgono per tutti i paesi. Non c’è una specificità italiana, europea o americana. Ci sono delle tendenze di lungo periodo, iniziate già da tempo e che con la crisi pandemica si sono accentuate, con la forte pressione che c’è oggi sulle competenze digitali che si applicano a tante professioni, anche le più tradizionali. Poi è vero che ci sono anche elementi più specifici per ciascun paese».

Le risposte.

Trovare le risposte però non è semplice. «La prima poteva essere quella di affrontare il tema attraverso i flussi migratori ma è difficile farlo nel breve periodo, a maggior ragione adesso che con la crisi pandemica i flussi migratori si sono ridotti - continua Scarpetta -. La migrazione può essere una variabile di aggiustamento che può aiutare squilibri tra domanda e offerta ma il problema è che oggi tutti i paesi sono in una situazione simile. L’Italia forse è messa un po’ peggio in termini di competitività perché offre salari più bassi rispetto ad altri paesi e ha un tema di integrazione dei migranti».
Quindi? «Bisogna fare un enorme sforzo sulla formazione dei giovani e anche degli adulti per far sì che possano acquisire le competenze chieste dal mercato. L’Italia è molto indietro sulla formazione continua degli adulti - aggiunge Scarpetta -, ma, come hanno spiegato i dati Invalsi, lo è anche su una fetta significativa di giovani che rischiano di essere analfabeti funzionali che non hanno le competenze che dovrebbero avere alla loro età. Il Governo italiano sembra però aver colto questa urgenza».
Il tema è così rilevante da essere stato messo nell’agenda di governanti, a partire dal presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron e dal presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. Tutti uniti dalla comune volontà di portare i propri paesi verso tassi di disoccupazione più bassi e stimolare un allineamento delle competenze che possa supportare la crescita generata anche grazie ai finanziamenti del Pnrr.

IlSole24Ore

Pil italiano con il turbo, ma attenzione alla quarta ondata. - Dino Pesole

 

Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore


Dal “lieve recupero” del primo trimestre alla crescita “molto sostenuta” del secondo trimestre. I dati diffusi dall’Istat fotografano l’atteso rimbalzo del Pil grazie alle riaperture e alla campagna vaccinale, tanto che si ipotizza un risultato a fine anno certamente superiore al 5,1%, e che potrebbe anche attestarsi nei dintorni del 6%.

Se si guarda all’andamento delle variabili del Pil, dai servizi all’industria, il risultato pare raggiungibile anche se non va dimenticato che il confronto in termini tendenziali è con l'analogo periodo del 2020, quando - come ricorda l’Istat - si è raggiunto il picco minimo, tanto che a fine anno il Pil è crollato dell'8,9%.
Poiché la variazione acquisita è al momento del 4,8% (in sostanza il risultato che si otterrebbe qualora nel terzo e quarto trimestre si registrasse una variazione pari a zero), si può essere decisamente ottimisti circa il risultato finale dell'anno in corso. È senz’altro una buona notizia per la nostra economia, che tuttavia va registrata con una certa prudenza. Pesa l'incognita dell'andamento dei contagi, spinti dalla variabile Delta, pesano le incertezze dell’autunno collegate alla riapertura dell’anno scolastico.

Pil con il turbo ma con vaccini e green pass.

Dalla Banca d’Italia alla Commissione europea e alle principali istituzioni internazionali (Ocse e Fmi) la valutazione è unanime: il green pass e il completamento della campagna vaccinale sono la precondizione essenziale per centrare il target di crescita che va configurandosi in base ai dati preliminari diffusi dall’Istat sul secondo trimestre dell’anno. Nel Documento di economia e finanza di aprile la crescita era indicata al 4,5%, e lo stesso ministro dell’Economia, Daniele Franco, in diverse occasioni ha indicato l’obiettivo del 5% come assolutamente raggiungibile.

Il caveat è ancora una volta rappresentato dalla diffusione delle varianti del Covid. Quali potrebbero essere gli effetti anche sulle altre variabili macroeconomiche, qualora la stima di un aumento del Pil attorno al 6% fosse suffragata dai dati reali nei prossimi mesi? Le previsioni relative al deficit (-11,8%) e al debito (159,8%) sono tarate su una crescita del Pil che in termini programmatici si attesta al 4,5%.
Dall’incremento del “denominatore” (la crescita, appunto) trarrebbe beneficio il numeratore dunque il deficit e il debito. Non numeri decisivi, in grado di cambiare in modo evidente il quadro delle variabili di finanza pubblica, ma pur sempre significativi. Poi va ricordato che la Commissione europea non ha inserito nelle stime sull’economia italiana l’effetto atteso dalle riforme contenute nel Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La spinta delle riforme.

Ne consegue che al netto della variabile costituita dall’andamento dei contagi, la possibilità di conseguire tassi di crescita sostenuti, e soprattutto di far sì che il rimbalzo del Pil si trasformi in crescita stabile e strutturale, è per buona parte connessa alla capacità del nostro paese di portare a compimento il programma di riforme e investimenti contenuto nel Pnrr.

Si agirebbe in tal modo sul Pil potenziale, con effetti positivi sulla produttività totale dei fattori, che da un paio di decenni è stagnante. Ecco perché ormai unanimemente si considera l’appuntamento con i fondi del Next Generation Eu come decisivo per il futuro del Paese.
Come ha confermato il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, a breve (probabilmente entra metà agosto) sarà erogata la prima tranche pari a circa 25 miliardi, sotto la forma di un anticipo rispetto al totale dei fondi assegnati all’Italia da qui al 2026.
La previsione è che il Governo già in settembre avanzi richiesta della nuova tranche che verrebbe erogata entro fine anno, ma differentemente dall’anticipo si tratterà (come per i successivi) di finanziamenti la cui erogazione è strettamente connessa alla realizzazione del cronoprogramma inviato dal Governo a Bruxelles.
Sui passaggi relativi alla concreta attuazione delle riforme e degli investimenti si attiverà la vigilanza europea, e ancora una volta la palla tornerà nel nostro campo. Se le riforme annunciate (nel totale circa 48) e gli investimenti non verranno realizzati o lo saranno solo in parte, la corresponsione dei fondi potrà essere sospesa con evidenti conseguenze anche sul consolidamento della ripresa.

Dal rimbalzo alla crescita strutturale.

La concreta realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza è in sostanza fondamentale per trasformare il rimbalzo congiunturale in crescita strutturale. Soprattutto in un’ottica non di breve periodo. Quando la pandemia sarà definitivamente alle nostre spalle, la partita la si giocherà proprio su come saremo in grado (come sistema Paese) di porre le premesse per una crescita stabile e sostenuta, in grado di creare occupazione stabile. E di conseguenza se riusciremo a porre il debito pubblico (che comunque andrà ridotto) in una traiettoria di costante riduzione.

Crescita dell’economia e finanza pubblica pienamente sostenibile marciano dunque di pari passo, e nessun governo da qui ai prossimi decenni potrà prescinderne.

IlSole24Ore

Doppia fiducia sulla riforma della giustizia, M5s si ricompatta.

 

Ma in 13 non partecipano, nemmeno Ferraresi. Stasera voto finale.

Passa per ben due volte consecutive alla Camera la fiducia (una per ognuno dei due articoli di cui è composta la legge) posta dal governo Draghi sulla riforma del processo penale firmato da Marta Cartabia, con 462 e 458 voti favorevoli e una cinquantina di contrari. La seduta fiume, terminata a notte fonda, ha visto ricompattarsi il Movimento 5 stelle in cui solo 24 ore prima si erano fatte notare un quarto delle defezioni e un voto in dissonanza dal gruppo. 

La percentuale dei 5 stelle partecipanti al voto è salita dal 66,04% di domenica sera sulla pregiudiziale di costituzionalità all'87,42% di stanotte sulla prima fiducia. 'Solo' in tredici su 159 non hanno preso parte al voto: l'ex sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, insieme ai colleghi D'Arrando, Iorio, Mammì, Parentela, Segneri, Buompane, Federico, Frusone, Lorenzoni Gabriele, Misiti, Pignatone e Vianello.

Tra gli altri gruppi quello che ha fatto registrare la percentuale più alta di votanti è stato il Pd, con l'89,5%. Tra poche ore si ricomincia: dalle 9 e per tutta la giornata è previsto l'esame e i voti sugli ordini del giorno e, quindi, il voto finale in serata. 

Ansa