venerdì 8 luglio 2011

La terra non si inchina alla terra.




Perché mai si dovrebbe obbedire al potente? La domanda è di quelle fondamentali, o almeno così dovrebbe essere. Ma ancora di più, perché mai non si dovrebbe contestare il potente, anche se è “della tua parte politica“? Anche questo è un tema decisivo. E’ chiaro che l’incoerenza tra parole e fatti di chi ha il potere è pratica quotidiana (ci sono lodevoli eccezioni), dunque perché mai si dovrebbe rinunciare alla denuncia e alla smitizzazione del Potente?

Eugenio Scalfari, in un famoso articolo, giustamente scrisse che “Berlinguer non è la Madonna“, in merito ad alcune sdegnate reazioni del Pci alle critiche che il proprio leader aveva ricevuto dagli studenti. E Berlinguer era per indole personale, spessore politico e levatura morale l’opposto di quel ritratto di arroganza, prepotenza e strafottenza del politico di allora (e di oggi). Dunque, il principio qui è fondamentale: non ci sono mostri sacri e, soprattutto, ricevere una critica (a fronte di centinaia di lodi) non è un dramma, nè dovrebbe essere interpretato come un atto di ostilità.

Ed è questo che insegna la storia di Bertoldo, antico buffone della nostra tradizione popolare. Con il suo Re Alboino Bertoldo affronta l’antica questione se un uomo possa o debba inchinarsi ad un altro uomo. L’argomentazione del buffone, vincente, è la seguente: “tutti siamo di terra, tu di terra, io di terra, e tutti torneremo in terra; dunque la terra non deve inchinarsi alla terra.

Alboino, incapace di controbattere, non può però permettere che un buffone metta in dubbio il suo potere: ne va del suo onore e della sua legittimità di fronte agli altri servitori. Dunque escogita uno stratagemma che userà anche il basso Gabriele D’Annunzio nel suo ufficio al Vittoriale: fa abbassare l’uscio della sua camera, tanto che, chiunque entrasse, avrebbe dovuto chinare il capo al suo cospetto.

Del resto, tutti i capi sono fatti così: di fronte ai servitori più riottosi, da cui non ottengono la genuflessione di anima e mente, cercano sempre di ottenere quella fisica. Ma Bertoldo, come tutti i buffoni, sa come contestarlo il Potere e sa come aggirare i suoi trucchi: al posto di chinare il capo e abbassarlo nell’entrare nella camera, voltò la schiena ed entrò all’indietro calandosi i pantaloni e rendendo omaggio al Re con le natiche.

Ecco, questo è il nostro approccio al Potere: se vuole genuflessioni, di qualsiasi tipo, noi lo onoriamo con le natiche. E non ci importa se questo sia di Destra o di Sinistra, anzi: su certe cose siamo intransigenti fino alla morte. Gli ideali non si svendono, nemmeno di fronte al più grande dei bottini.

E’ quello che insegna del resto anche Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia, la cui storia è stata raccontata da Carlo Levi in “Le Parole sono Pietre“: sindacalista socialista, rifiutò le offerte di corruzione della mafia e fu ucciso perché aveva insegnato ai lavoratori siciliani di Sciara ad alzare la testa e ad onorare la principessa Notarbartolo e i suoi sgherri con le natiche. Il processo ai suoi assassini, il primo istruito nella storia d’Italia grazie alle denunce coraggiose di sua madre, vide fronteggiarsi due futuri presidenti della Repubblica: Giovanni Leone, il più odiato, a difesa degli assassini, mentre dall’altra parte c’era Sandro Pertini, il presidente della Repubblica più amato di tutti i tempi.

Ebbene, questo è l’approccio di Qualcosa di Sinistra. Se a qualcuno non piace, non c’è ragione che ci continui a leggere. Se i potenti pensano che basti qualche loro bravo a intimidirci (vi faremo chiudere il sito, ha minacciato qualche zelante servitore), hanno sbagliato persone. Noi non ci vendiamo. E soprattutto non mettiamo in svendita i nostri ideali.

Diceva Pier Paolo Pasolini: “La verità è rivoluzionaria“. Ecco, questo non vogliono i potenti, che sia raccontata la verità: noi continueremo a farlo, finchè potremo. Ricordo solamente a chi dice che strumentalizziamo il nome di Berlinguer per farci gli affari nostri: la colpa non è dello specchio, come diceva Enzo Biagi, ma di chi ci sta davanti. Ergo, se i potenti non si piacciono allo specchio quando ci leggono, non è certamente un problema nostro.

http://www.enricoberlinguer.it/qualcosadisinistra/?p=4653


Chiesto rinvio a giudizio per Cammarata.





Nel giugno del 2009 il sindaco di Palermo avrebbe chiesto alcuni impiegati della Gesip di ripulire la strada - via Salita del Convento - vicina alla chiesa in cui doveva tenersi il battesimo della figlia. Ora il pm Laura Vaccaro ha chiesto il rinvio a giudizio per abuso d'ufficio.

Secondo gl'inquirenti nel giugno 2009 il sindaco di Palermo avrebbe chiesto ad alcuni impiegati della Gesip di ripulire la strada - via Salita del Convento - vicina alla chiesa in cui doveva tenersi il battesimo della figlia. Adesso il pm Laura Vaccaro ha chiesto il rinvio a giudizio per Diego Cammarata, per l'ex direttore della Gesip e per due funzionari della ex municipalizzata che si occupa del verde pubblico, Stefano Mangano e Antonio Catania. Cammarata, Mangano e Palazzolo sono accusati di abuso d'ufficio, Catania di favoreggiamento.

Per l'accusa la condotta integrerebbe l'abuso in quanto Cammarata avrebbe "distolto" gli operai dal loro lavoro per fini privati. Catania avrebbe tentato di coprire i funzionari, che rispondono di abuso d'ufficio: da qui l'accusa di favoreggiamento. Cammarata a maggio è stato rinviato a giudizio per un'altra vicenda relativa alla Gesip: avrebbe utilizzato come skipper della sua barca un operaio durante l'orario di lavoro.

Le sue vicenduole:

Eletto Sindaco, Cammarata non rinunciò neppure all'indennità da parlamentare, infrangendo una prassi di incompatibilità intesa, tra l'altro, nell'art.122 della Costituzione. In riferimento al caso, nel 2002 la Giunta delle elezioni della Camera dei deputati affermò per la prima volta che non sussistevano motivi che ostassero al cumulo degli incarichi di sindaco di grande città e di parlamentare (cosiddetta "giurisprudenza Cammarata")[1]. Da allora altri sedici parlamentari ricevono una doppia indennità pubblica: una da deputato nazionale e una da amministratore locale [2].

Nelle consultazioni del 2007 è stato rieletto sindaco di Palermo, con il 53,5% dei voti, nonostante la forte opposizione rappresentata da Leoluca Orlando che ha denunciato la presenza di forti brogli elettorali.[3] Il 28 marzo 2008 sono stati arrestati due presidenti di seggio che, nelle elezioni del 2007, avrebbero falsificato 580 schede favorendo una lista che appoggiava Cammarata.[4] Nell'ottobre 2008 vengono arrestati altre tre persone appartenenti alla lista Azzurri per Palermo, che sosteneva il sindaco Cammarata, per aver falsificato 450 schede elettorali[5]: un numero comunque irrilevante di schede false rispetto all'esito del voto amministrativo.

Il 22 luglio 2008 è stato eletto presidente dell'ANCI in Sicilia.[6]. Nel frattempo, il TAR Sicilia bocciava il piano che istituiva la ZTL a Palermo, dando luogo ad una indagine dell'Authority di vigilanza sui contratti pubblici e all'interessamento della Corte dei Conti per accertare i derivanti danni all'erario e gli eventuali reati [7].

Nel 2009, l'Amministrazione comunale guidata da Cammarata è stata investita dagli scandali relativi alla precedente gestione dell'Amia, azienda ex municipalizzata per la raccolta dei rifiuti cittadini passata in breve tempo da un bilancio in attivo ad un buco di centinaia di milioni di euro, e da quello rivelato da Striscia la notizia relativo ad una barca di proprietà del sindaco, che sarebbe stata "custodita" da un dipendente della Gesip, un'altra ex società comunale, ed affittata in nero a terzi.[8] Sulle due vicende la magistratura ha aperto altrettante inchieste.

Il 13 ottobre 2009 il presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo e l'assessore Nino Strano comunicavano che la città di Palermo era candidata ad ospitare le Olimpiadi del 2020. Cammarata dichiarava di non essere a conoscenza della candidatura [9], esprimendo la propria contrarietà alla proposta pochi giorni dopo [10].

Nel 2010, Cammarata viene indagato per la terza volta in seguito a una inchiesta sulla discarica palermitana di Bellolampo, in base alla quale è stato accusato di truffa, abuso d'ufficio, disastro colposo, inquinamento delle acque e del sottosuolo, gestione abusiva di discarica, gestione non autorizzata di rifiuti speciali e traffico di rifiuti [11].

Spesso fatto oggetto di duri rilievi durante il suo secondo mandato al Comune di Palermo, ha inoltre destato particolare scalpore la notizia del suo viaggio ai Campionati del Mondo di Calcio inSudafrica, criticata anche da esponenti della sua maggioranza [12] e colleghi di partito come Stefania Prestigiacomo [13].

Nel febbraio 2011 è indagato per abuso d'ufficio, dopo che degli operai del Comune di Palermo furono impegnati nella pulizia di una strada privata, che conduceva nel posto in cui si sarebbe tenuto ilbattesimo della figlia del Sindaco[14].

Nel marzo 2011 viene disposta l'imputazione coatta di Diego Cammarata per violenza privata, in merito ad una denuncia dell'estate precedente di Mario Emanuele Alvano, ex segretario dell'ANCI Sicilia[15].

Nel maggio 2011 viene rinviato a giudizio per la vicenda dell'utilizzato a fini personali dell'operaio comunale Franco Alioto, anch'esso mandato sotto processo[16]. (Wikipedia)


Valsusa-La polizia spara sulla folla-03/07/2011




"La casa romana di Tremonti è a carico di Milanese". - di Concita Sannino



I giudici napoletani che indagano sulla P4 hanno firmato un mandato d'arresto per l'ex consigliere politico del ministro del Tesoro. L'abitazione costa 8500 euro al mese, ci sono state costose opere di ristrutturazione.


ROMA - Un'ombra lunga di lussi incontrollati e di ricatti che arriva a lambire persino la casa in cui abita il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. E sullo sfondo di questa inchiesta che adesso porta alla richiesta di arresto 1 per il deputato in assoluto più vicino al ministro, Marco Milanese, il suo storico consigliere nonché ex ufficiale della Guardia di Finanza, uno scenario da brividi: un regolamento di conti tra "cordate" tutte interne alle Fiamme Gialle. Una circostanza, quest'ultima, di cui per la prima volta parla lo stesso Tremonti, in un interrogatorio reso come teste nell'altra inchiesta sulla cosiddetta loggia P4.

La polizia, coordinata dal pubblico ministero Vincenzo Piscitelli, ha scoperto un fatto che desta più di un interrogativo: il ministro abita, nel cuore di Roma, in un prestigioso appartamento il cui canone di affitto è a carico dello stesso Milanese. Il deputato di origini irpine versa 8.500 euro al mese per una residenza in cui non vive, ma dove va ogni tanto a trovare il ministro, com'è normale che sia, avendo Milanese instaurato sin dal 2001 un rapporto di consolidata fiducia con Tremonti. Non solo: nello stesso appartamento, secondo le ricostruzioni della Procura, sarebbero stati eseguiti lavori di ristrutturazione per circa 200mila euro, che però il Milanese non ha mai pagato alla società che se n'è
occupata. Come mai? E per quali altre strade sono stati compensati questi lavori per cui non risulta alcuna documentazione? Emerge qui l'altro dato inquietante: a consolidare quell'appartamento pagato da Milanese e in cui vive il ministro è la Edil Ars, di Angelo Proietti. Proprio la stessa società che in molte occasioni ha ottenuto appalti dalla Sogei, società controllata dal dicastero delle Finanze e in passato finita anche nel mirino di alcuni accertamenti della stessa Guardia di Finanza.

La circostanza dell'appartamento in cui vive il ministro viene citata dal gip Amelia Primavera a margine dell'ordinanza di custodia per Milanese 2 perché al giudice appare come l'ennesima dimostrazione dello stretto e proficuo rapporto tuttora esistente tra Milanese ed il ministro. Dunque non bastano le dimissioni recentissime di Milanese dal ruolo di consigliere politico del ministro, a scalfire le esigenze di custodia cautelare per il deputato accusato di corruzione e rivelazione di segreto. "Emblematica dell'attualità del rapporto fiduciario esistente tra i due uomini politici è la vicenda relativa all'immobile sito in Roma - scrive infatti il gip - alla via (...) , di proprietà del Pio Sodalizio dei Piceni. Detto immobile, infatti, è stato concesso in locazione a Milanese Marco per un canone mensile di 8.500 euro, ma viene di fatto utilizzato dal Ministro Tremonti, il quale, a sua volta, risulta aver emesso, nel febbraio 2008, un assegno di 8.000 euro in favore del Milanese".

"Oltretutto, i rapporti finanziari tra il Tremonti e il Milanese - prosegue il magistrato - sono assolutamente poco chiari atteso che Milanese paga mensilmente un canone molto alto il cui complessivo ammontare rispetto alle rate già pagate risulta di oltre centomila euro; non esiste un risarcimento per Milanese; l'assegno del febbraio 2008, risalente dunque nel tempo, attiene evidentemente ad altra partita economica tra i due, essendo isolato nel tempo e risultando emesso un anno prima della nascita del rapporto contrattuale con il Pio Sodalizio dei Piceni". E ancora: "La circostanza, dunque, che il Milanese sia ancora oggi un punto di riferimento all'interno della Guardia di Finanza, proprio per la accertata vicinanza al Ministro Tremonti, aggrava, a parere di questo Gip, le evidenziate esigenze cautelari legate al pericolo di inquinamento probatorio".

L'altro scenario su cui il giudice prevede ulteriori accertamenti è offerto proprio dalle parole che lo stesso Tremonti ha affidato, interrogato come persona informata sui fatti, ai pm John Woodcock e Francesco Curcio, titolari dell'inchiesta sulla P4. E' il 17 giugno scorso quando il ministro viene ascoltato a proposito dei rapporti tra Milanese, il faccendiere Luigi Bisignani e il generale della Finanza Michele Adinolfi. Quel verbale, debitamente depositato dai pm, viene poi passato per conoscenza anche all'indagine portata avanti da Piscitelli sul conto di Milanese, e quindi finisce nell'ordinanza per Milanese. Scrive infatti il gip Primavera: "Sotto diverso profilo, ed a conferma di quanto sia ancora poco chiaro il contesto dei rapporti con i vertici della Guardia di Finanza - nel cui ambito è necessario un approfondimento di indagine - va segnalato il contenuto delle dichiarazioni rese, come persona informata sui fatti, dal Ministro Tremonti, il quale ha riferito in merito all'esistenza di 'cordate' esistenti all'interno del Corpo e costituitesi in vista della prossima nomina del Comandante Generale, precisando come alcuni rappresentanti di quel Corpo siano in stretto contatto con il Presidente del Consiglio". Non è tutto: "Soprattutto, per quel che interessa in questa sede - continua il gip - Tremonti ha riferito come il Milanese sia tuttora in stretto contatto con quei vertici, avendo appreso dagli stessi quanto riferito poi al Ministro ed oggetto del colloquio tra lo stesso ed il Presidente del Consiglio Berlusconi".



La cattiva commedia quotidiana. - di Gian Enrico Rusconi


E’ facile fare del sarcasmo sulla cacolalia degli uomini al governo, a cominciare dai massimi vertici. Non c’è più pudore nel lasciare libero sfogo alle battute cattive, alle allusioni maligne, ai veri e propri insulti, scrupolosamente riportati dai giornali. Ma viene il sospetto che lo si faccia proprio per i giornali. Come se si trattasse di «intercettazioni» autorizzate, che non hanno bisogno di spioni telefonici. E’ l’intercettazione di governo. («Maurizio, hai sentito quello che sta dicendo? Ma è scemo» dice Tremonti parlando di Brunetta a Sacconi nel fuori onda. «Io non lo ascolto neanche» replica il ministro del Welfare. Dal tavolo di governo partono commenti pesanti. «Questo è il tipico intervento suicida, è proprio un cretino» sibila ancora Tremonti. Poi un tentativo - non riuscito - di interrompere Brunetta con una battuta. I microfoni rimasti aperti smascherano tutto).

Questa pochade cambia aspetto se con il suo stile comunicativo si fa o si intende fare politica. Quando cioè si pensa di poter modificare i rapporti di potere all’interno della maggioranza, del governo o addirittura nei confronti del premier.

Lo scambio di battute, di allusioni, di elusioni, di «gnorri» di Tremonti a proposito della manovra «salva Fininvest» e la replica di Berlusconi, seccata e maliziosa nel far passare il ministro per un «furbetto» che fa finta di non sapere, si collocano in questa logica. Ma non meno significative sono state le reticenze degli Alfano, dei Ghedini e dei Calderoli. Insomma la squadra non ha fatto squadra. O per lo meno ha dato questa impressione. Ma in questo clima l’impressione è più importante della realtà.

E’ la nuova fase del berlusconismo. Quello della tentata transizione al dopo-Berlusconi senza traumi, ma per assestamenti continui che lasciano al Cavaliere l’illusione di guidare, come prima, governo e maggioranza. E intanto lo condizionano da vicino. O ci provano. Lo sta facendo da tempo ormai la Lega, con sfacciato opportunismo. Ottiene assai meno di quello che chiede sempre con toni stentorei e ultimativi. Ma nella cacolalia generale ciò che conta è farsi sentire. E la Lega si fa sentire, in previsione di un possibile dopo-Berlusconi. Ma non farà nulla per provocarlo sul serio. E’ un rischio troppo grosso per il partito di Bossi.

In ogni caso per l’operazione della transizione senza traumi, compresi i dovuti onori di rito al Cavaliere, sono indispensabili due condizioni. La prima sembra acquisita: è l’incredibile impotenza politica dell’opposizione. Il ministro della Cultura Giancarlo Galan ha colto la situazione perfettamente, dicendo a questo giornale che «anche quando noi (della maggioranza di governo) perdiamo, la sinistra riesce a compiere il miracolo di non vincere». E’ inspiegabile che in un Paese che dispone di invidiabili potenziali di mobilitazione, che esprimono una forza comunicativa e simbolica immensa - poi non succede niente. Servono solo a far scrivere, per un paio di giorni, esaltanti commenti giornalistici e pubblicistici che lasciano il tempo che trovano. C’è qualcosa di profondamente enigmatico in una politica che lascia isterilire questi potenziali. O li lascia incattivire.

Al sicuro da possibili alternative politiche - siano esse di sinistra o di nuove combinazioni centriste aperte a sinistra - il gioco del logoramento degli equilibri interni del governo ha una seconda condizione. Cioè che Berlusconi stesso non riesca a controllare questa situazione imprevista. L’atteggiamento da lui preferito ancora ieri nelle sue dichiarazioni è quello di reagire sdrammatizzando i conflitti interni, dichiarandosi vittima di campagne diffamatorie e dipingendo catastrofi imminenti nel caso andasse al governo la sinistra («Nonostante il fango che mi viene gettato addosso, nonostante quello che si vorrebbe decidere nei cosiddetti e fantomatici salotti dei poteri forti, non consegnerò l’Italia a Bersani, Vendola e Di Pietro»).

Ma sino a quando funzioneranno questi argomenti? La situazione economica e sociale rimane pessima, mentre non si vedono credibili strategie di rilancio. Nel frattempo l’Italia è letteralmente sparita dalle sedi decisionali europee che contano. Sulle questioni cruciali della presenza militare dell’Italia in Afghanistan e nel delicato e complicato caso della Libia, lo statista Berlusconi è assente, distratto e preoccupato solo di possibili contraccolpi interni. Non a caso proprio in questi ambiti è micidiale l’azione di logoramento all’interno della maggioranza e del governo (Lega, La Russa, Frattini). Ma il guaio è che l’intera classe politica, oltre a essere scarsamente competente su questi temi, è assai meno sensibile che non sui problemi interni. Ma è proprio in questi settori di alto profilo internazionale che la leadership di Berlusconi è finita. La pochade può ricominciare.



Rai, lo scandalo della Struttura Delta così Berlusconi ha ingannato gli italiani. - di Giuseppe D'Avanzo


L'attività di un sodalizio nel sistema pubblico televisivo per condizionare l'opinione pubblica e controllare tutta l'informazione. Al servizio di un solo uomo. Il presidente della Vigilanza Zavoli: fare chiarezza sulle telefonate inquietanti. Lei: nessun giudizio sommario

I DOCUMENTI sonori che le inchieste di Repubblica/l'Espresso vanno pubblicando nella sezione dedicata del sito dimostrano qualche fatto ostinatissimo.

In Rai, nel sistema pubblico televisivo, è stata all'opera - e nessuno può escludere che ancora lo sia, se solo si guarda a quel che combina ogni sera il direttore del Tg1 - un sodalizio che, al servizio di un solo uomo, proprietario di Mediaset e capo del governo, ha manipolato l'informazione. Ha corrotto il linguaggio. Ha falsificato la realtà. Ha concordato l'agenda dell'attenzione pubblica con il network concorrente. Ha schedato, discriminato e danneggiato i discordi, ovunque fossero in quell'azienda: nelle redazioni, sul palcoscenico, tra i funzionari e dirigenti della Rai.

Il manipolo di infedeli (li si può definire così? O come altro li si può definire?) ha tradito i più elementari principi di correttezza aziendale e, quel che più conta, ha ingannato i telespettatori, i cittadini, l'opinione pubblica.

È questo inganno lo scandalo perché - con un'informazione che nasconde i fatti, li manipola e li confonde, li omette o addirittura li sopprime - la libertà d'opinione viene umiliata, la possibilità del cittadino di formarsi in autonomia una convinzione sullo "stato delle cose" diventa una burla.

A fronte di questo scandalo, è uno scandalo doppio l'indifferenza che vuole nascondere quel che è avvenuto e ancora avviene. Sono di palese evidenza le trascuratezze complici della politica, i silenzi colpevoli degli attori istituzionali. A cominciare dalla magistratura. Per dire meglio, dalla procura di Roma sempre all'altezza dell'antica definizione di "porto delle nebbie".

L'inchiesta che consente di raccogliere le conversazioni del drappello di uomini di Berlusconi al lavoro, nel suo interesse, nel corpaccione della Rai nasce a Milano. S'indaga per una bancarotta fraudolenta. Quando i pubblici ministeri ascoltano quelle conversazioni saltano sulla sedia. La notizia di reato è limpida. Ipotizzano l'abuso d'ufficio, per cominciare. Impacchettano ogni cosa - intercettazioni e brogliacci - e spediscono i documenti a Roma, competente per territorio.

Nella Capitale, l'affare è assegnato al dipartimento della pubblica amministrazione della Procura, diretto dall'"aggiunto" Achille Toro. La toga, oggi nei guai per aver violato il segreto istruttorio a vantaggio dei corrotti e corruttori del "sistema Protezione Civile", è sempre prudente quando in ballo ci sono interessi e destini politici. Lo sarà anche in questo caso. Prima di mettersi in movimento - e nonostante le intercettazioni confermino in modo nitido gli abusi - l'inchiesta s'affloscia in una frettolosa archiviazione. È soltanto la prima omissione, il primo nascondimento.

Oggi con sotto gli occhi le interferenze dirette e indirette di Berlusconi e dei suoi uomini sulla programmazione e l'informazione della Rai qualcosa Viale Mazzini doveva muovere. Anche soltanto per dimostrare di essere ancora in vita. È un paradosso fragoroso: se oggi il direttore generale Lorenza Lei e il consiglio d'amministrazione, presieduto da Paolo Garimberti, possono presentarsi davanti alla commissione parlamentare di vigilanza con in mano una mossa, una replica, una qualche reazione allo scandalo, lo devono non alla loro personale volontà di fare chiarezza, ma alla determinazione di un alto dirigente (Gianfranco Comanducci), oggi vicedirettore generale, di uscire pulito dall'"affaire".

È per sua iniziativa che la Rai ha messo in movimento la struttura aziendale dell'internal auditing che condurrà un'indagine interna. "Sia ben chiaro - dice però la Lei - che non mi presterò e non consentirò che l'azienda possa vedere pregiudicata la propria immagine sulla base di processi sommari, prima ancora che siano accertate eventuali responsabilità sulla base di fatti puntualmente dimostrati".

Non si capisce quale dimostrazione puntuale attenda ancora Lorenza Lei. I documenti sonori resi pubblici da Repubblica danno ragionevolmente prova di tre circostanze.

1. I dirigenti piovuti in Rai da Mediaset o addirittura dalla segreteria di Berlusconi (come Deborah Bergamini) concordano con i dirigenti Mediaset (come Mauro Crippa) il palinsesto in modo da non danneggiare gli ascolti del network privato del Cavaliere.

2. I dirigenti della Rai di provenienza Mediaset definiscono con il capo azienda (Flavio Cattaneo) e alcune direzioni giornalistiche la manipolazione dell'informazione come accade con l'occultamento della sconfitta di Berlusconi alle Regionali del 2005.

3. Quel sodalizio politico-professionale, che chiamiamo per semplificazione giornalistica "Struttura Delta", è organizzato e guidato direttamente da Silvio Berlusconi (è con "il Dottore" che definisce le linee strategiche del lavoro) e ha, tra l'altro, la missione di fare della Rai un'articolazione del partito di Forza Italia.

Ora non interessano i "processi sommari". Né importa il destino personale della squadriglia di infedeli, sempre che facciano un passo indietro e non coltivino l'ambizione di restare ai vertici dell'azienda pubblica. Quel che conta è comprendere e neutralizzare il sistema di comando che il tycoon di Mediaset e capo del governo ha imposto al servizio pubblico radiotelevisivo e chiedersi se le tossine di quegli anni avvelenano ancora la governance della Rai.

Per venirne a capo è necessario sapere che cos'è la "Struttura Delta". Prima che un sodalizio, la "Struttura Delta" è un dispositivo, un metodo di lavoro che consente di disegnare la trama stessa della realtà, di eliminare ogni differenza tra ciò che accade e ciò che la politica vuole raccontare. E' questo il lavoro della "Struttura Delta". Per dirla con uno slogan, la sua missione è rendere impossibile separare i fatti dalle costruzioni ideologiche o dalla pubblicità politica. Chi ricorda, per fare solo un esempio, il 2001 elettorale quando i telegiornali raccontavano le città italiane attraversate da bande assassine di malavitosi mentre Berlusconi, con il sostegno della Lega, incardinava la sua offerta politica nella sicurezza in pericolo?

Il lavoro della "Struttura Delta" non è altro che l'estensione all'informazione Rai e quindi al discorso pubblico dei vecchi comitati editoriali della Fininvest. E' noto. Una volta al mese, "i principali responsabili e attori della comunicazione del gruppo" si incontravano ad Arcore con il Cavaliere per "un franco e approfondito scambio di informazioni e di idee e tra gli opinion makers".

Vediamo quali sono i presenti in una riunione per molti versi storica (le notizie sono tratte da Passionaccia di Enrico Mentana). È il 20 marzo del 1993 e per la prima volta Berlusconi sostiene che "l'attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica". È l'annuncio che il Cavaliere vuole farsi leader politico. Quel giorno lo ascoltano, nella rituale riunione mensile, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell'Utri e Del Debbio (allora in Publitalia), i mondadoriani (Tatò, amministratore delegato; Mauri, direttore dei periodici; Monti, Panorama; Briglia e Donelli, Epoca; Bernasconi e Vanni dei femminili; Orlando, il Giornale; Vesigna, Sorrisi e Canzoni), i televisivi (il capo delle produzioni di Roma Vasile, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana). Con il tempo si aggiungeranno Paolo Liguori, direttore di Studio Aperto, Paolo Guzzanti che avrebbe condotto un talk show televisivo, Vittorio Sgarbi e Giuseppe Dotter, il direttore de La Notte.

Nel tempo sono cambiati i nomi e gli incarichi, non il metodo. Ora immaginiamo la squadra di Berlusconi, che già controlla buona parte dell'informazione e dell'intrattenimento, allargata al direttore generale della Rai, ai direttori di Rai 1 e Rai 2, ai direttori del Tg1 e del Tg2, come a dire quasi del tutto all'altra metà dell'informazione e dell'intrattenimento. Questa "squadra", questa "Struttura" consente a Berlusconi, presidente del Consiglio, di decidere buona parte dell'attenzione pubblica perché il 40 per cento non legge un giornale mentre tutti gli italiani (98.5 per cento) guardano la televisione e per il 70 per cento il telegiornale è la sola e unica finestra sul mondo.

Il Cavaliere si ritrova così tra le mani il controllo pieno dell'agenda dell'informazione. Decide quel che avrà la posizione principale nelle news televisive e sulle prime pagine dei giornali e, quel che più conta, stabilisce ciò che il Paese saprà di se stesso e che cosa gli sta accadendo. Ordina quel di cui discuterà o di che cosa non si discuterà.

È di questo dominio incondizionato sull'attenzione pubblica e sulla realtà che parlano i documenti sonori resi pubblici da Repubblica. Sollevano una questione politica decisiva perché, come scrisse Carlo Azeglio Ciampi nel messaggio alle Camere del 23 luglio 2002, "la garanzia del pluralismo e dell'imparzialità dell'informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta".

Quel che il dispositivo della "Struttura Delta" mette in gioco è quella garanzia e dunque la qualità della nostra democrazia, la sua compiutezza, il diritto di informazione garantito dall'articolo 21 della Costituzione. E' un diritto che può dirsi soddisfatto, si legge in una sentenza della Corte Costituzionale (155/2002), "dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie - così da porre il cittadino in condizione di compiere le proprie valutazioni avendo presente punti di vista e orientamenti culturali e politici differenti - e dall'obiettività e dall'imparzialità delle dati forniti, e infine dalla completezza e dalla correttezza dell'informazione".

È impossibile anche per un mago conciliare queste parole con l'inganno imposto ai cittadini dalla posizione dominante della "Struttura Delta". Lo scandalo è qui. Interpella la Rai, certo, ma anche la politica e chi ha a cuore le parole della Costituzione.


La barca, le auto, gli orologi «Ci penso io, ricompensami». - di Giovanni Biancone.


L'imprenditore Viscione: era esoso, ma mi portava le intercettazioni

ROMA - «E quindi, se lei dovesse fare un conto delle somme che ha dato?», domanda il magistrato. «In tutto una milionata, non sono preciso... sulle novecentocinquanta, un milione e cinquanta. Con esclusione della barca e dei regali che tra l'altro, soprattutto nella prima ondata, sono stati numerosi e molto costosi. Tipo un paio di gioielli, un paio di orecchini da sette carati di brillanti, che io sono stato costretto a regalargli, perché erano stati prenotati da lui in un negozio di Capri».

Uno «scapocchione fortunato»
Il 19 dicembre scorso l'imprenditore Paolo Viscione, arrestato per truffa e altri reati, decide di denunciare pagamenti e regalie al deputato del Pdl ed ex ufficiale della Finanza Marco Milanese, strettissimo collaboratore del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Gioielli, orologi, macchine e soldi per essere protetto dalle indagini delle Procure e delle Fiamme gialle, spiega. E il giudice, che vuole arrestare Milanese anche per il reato di associazione a delinquere commesso proprio insieme a Viscione, ritiene il suo racconto «intrinsecamente credibile, non essendovi motivi per dubitare della scelta collaborativa». Vengono dallo stesso paese, Viscione e Milanese, Cervinara in provincia di Avellino: «Siamo compaesani, ma lui è un ragazzo di cinquant'anni, io ne ho circa settanta, quindi le lascio immaginare in che considerazione veniva preso questo ragazzo, che in effetti sapeva di essere uno "scapocchione" per il padre che io conoscevo, e che a tutti i costi l'ha voluto inserire. Ha avuto un bel successo, perché la fortuna l'ha accompagnato...». Un «ragazzo» che dalla posizione raggiunta, fianco a fianco con il ministro dell'Economia, intorno al 2004 si è ripresentato a Viscione: «Ha cominciato a portarmi notizie e a intimorirmi sulle posizioni mie che sembravano preoccupanti rispetto a indagini da parte della magistratura... Mi venne a dire che ci stava un problema su Napoli... Chiaramente la cosa mi ha impressionato molto, perché già si parlava di associazione a delinquere finalizzata a reati finanziari». Insieme al problema, Milanese offriva la soluzione. Non gratuitamente, però: «Dice "qua ci penso io, ci penso io, ci penso io"... Insomma, c'è stata una richiesta di danaro a cui ho dato soddisfazione... Poi abbiamo cominciato a parlare del leasing di un'automobile, una Aston Martin che gli abbiamo preso usata; si è arrabbiato perché era usata e abbiamo cambiato la macchina».

Negli Usa con la Ferilli e De Sica
Intorno al 2009 c'è quella che Viscione chiama «la seconda ondata», quando Milanese gli si ripresenta in un ristorante della capitale: «Mi incontra... "guarda che hai due indagini in corso, una del dottor Piscitelli di Napoli, l'altra ce l'ha la dottoressa non so chi di Roma"». Le promesse sono sempre le stesse: «Non ti preoccupare, ci penso io... E siamo arrivati al febbraio che lui mi dice "sei intercettato, non si può parlare più"». Anche stavolta, in cambio dell'avviso il deputato pretende un corrispettivo. «Fa delle richieste esosissime, io le adempio gradualmente», confessa Viscione che poi fa qualche conto: «Come soldi gli ho dato quattro e cinquanta (450.000 euro, ndr), che avrei dovuto dargliene seicento... Tutti in cash, prelevati dalle banche». A prenderli e portarli andava un uomo di fiducia dell'imprenditore, «cento, cento, cento alla volta». In un'occasione Milanese gli avrebbe portato le trascrizioni delle conversazioni registrate, «mi ha fatto leggere proprio i testi delle intercettazioni», ma già prima - a sentire l'imprenditore - il deputato aveva aumentato le sue pretese. Per esempio un viaggio negli Stati Uniti per le vacanze natalizie del 2009: «Questo è volgarissimo, perché si è fatto disdire dieci volte il viaggio, perché doveva partire con la Ferilli, con De Sica... dovevano stare tutti allo stesso piano e si doveva trovare lo stesso albergo...». Il particolare è riscontrato, secondo il giudice, dalle dichiarazioni di Flavio Cattaneo, fidanzato dell'attrice Sabrina Ferilli, e della fidanzata di Milanese, Manuela Bravi, portavoce del ministro Tremonti. E il viaggio negli Stati Uniti risulta saldato da una delle società di Viscione.

La barca, la Ferrari, gli orologi
L'imprenditore pagava e trovava altri che pagavano, riferisce ai magistrati. Come quando Milanese voleva vendere una barca, e lui gli trovò l'acquirente: Fabrizio Testa, poi nominato nel Consiglio di amministrazione dell'Enav e al vertice di una società controllata dall'ente. È Viscione a convincerlo: «Lo faccio portare da me e gli dico... ti compri la barca, la fai comprare da qualcuno e quello ti farà il piacere sicuramente... Cosi è stato... Fabrizio Testa, inquisito nello scandalo famoso delle fatture false Enav... Non lo voleva Matteoli, non lo voleva Alemanno, Tremonti l'ha fatto nominare...». Le indagini hanno accertato che «la barca è stata pagata a un prezzo molto superiore a quello effettivo di mercato» da una società che poi «ha quasi contestualmente versato somme alla Fondazione Casa della Libertà, chiara articolazione di natura politica». Tra le regalie a cui Viscione si sentiva costretto e alle quali ha deciso di ribellarsi, c'è pure una Ferrari Scaglietti, presa e data a Milanese usando la Aston Martin in permuta «più assegni miei, di portafoglio»: E ci sono «gli orologi, adesso ma anche prima, ci stanno gli orecchini alla moglie...». Gli investigatori hanno rintracciato il venditore di orologi, che conosce anche Milanese, il quale ha ricordato gli acquisti di Viscione per il Natale 2009: «Comprò tre orologi di prestigio, un "Frank Muller" da donna con brillantini e forma a cuoricino e due "Patek Philippe", mod. 5055 con cinturino in pelle e mod. 5035, entrambi da uomo, dal valore complessivo di mercato di circa 50.000 euro... Gli orologi erano destinati a un nostro cliente, il dottor Marco Milanese, che venne personalmente a sceglierli e a ritirarli». Disse che uno era per Tremonti, ma il ministro ha detto ai magistrati di non averlo mai ricevuto.

Le nomine pagate
In cambio di denaro e altre utilità, l'accusa ritiene che Milanese abbia «promesso prima e assicurato poi l'attribuzione di nomine ed incarichi in diverse società controllate dal ministero, ricevendo come corrispettivo somme di denaro e altre utilità». È successo con le due persone messe ieri agli arresti domiciliari: Guido Marchese, «ricevendo dallo stesso la somma di 100.000 euro», con Barbieri Carlo, attraverso «lo stesso modus operandi». A queste conclusioni il giudice è arrivato attraverso conferme autorevoli: il direttore centrale delle relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, e l'amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti. Il primo «confermava quanto già reso evidente dagli atti acquisiti, e cioè che il nominativo del Marchese gli era stato fornito da Marco Milanese»; il secondo, «pur dichiarando di non ricordare chi gli avesse sottoposto, per raccomandarlo, il nominativo di Barbieri Carlo, confermava però che la sua nomina era stata certamente a lui proposta dall'esterno della società. Precisava, inoltre, che delle nomine per conto del ministero dell'Economia si era sempre occupato il Milanese».