mercoledì 16 settembre 2020

Il No di sinistra, maledetto imbroglio. - Barbara Spinelli


Bisogna davvero essere ciechi per non vedere che i fautori del No al referendum sul taglio dei parlamentari si agitano molto, in taluni casi fino a sconfinare nel turpiloquio, ma in testa hanno un pensiero unico e fisso: questo Movimento 5 Stelle non ha da esistere, va fatto fuori, e se l’operazione chirurgica comporta la vittoria delle destre e la sconfessione di 40 anni di battaglie del Pd fa niente, sempre meglio del guazzabuglio che abbiamo davanti, i cui contorni sono talmente poco chiari.

A ragionare così è una parte delle sinistre, e man mano che passano i giorni la loro voce si fa al tempo stesso più sgangherata e più inconsistente.

È il caso del No proclamato su «La Stampa» da Roberto Saviano, che non ritiene utile spiegare neanche di soppiatto le ragioni della sua preferenza ma che di una cosa è assolutamente certo: i 5 Stelle, e Di Maio in particolare, sono “intrisi di una cultura profondamente autoritaria e xenofoba” e vanno finalmente liquidati con un sonoro “va ’a cag…” (equivalente sopraffino di vaffa). Quanto a Conte, l’unica prospettiva che offre è morire democristiani, dunque fuori anche lui. Il ragionamento di Montanelli sul voto dato tappandosi il naso per Saviano non vale. Poco importa se Draghi, improbabile profeta della terra promessa, non succederà a Conte sconfitto. Che vengano Salvini e Meloni. Meglio loro che Di Maio, il diavolo in persona, almeno il naso non lo tocchi e il vantaggio non è da poco.

O per meglio dire Saviano offre una ragione, che però non ha nulla a vedere col taglio di parlamentari: questo governo intrallazza con la Libia, accetta che i migranti vengano respinti in un paese dove i richiedenti asilo vengono torturati e uccisi. Obiezione più che giusta e che condivido, se non fosse che a inaugurare gli intrallazzi non sono stati i 5 Stelle ma i governi Pd, la Lega e prima ancora Berlusconi. Non esiste neanche di lontano una maggioranza pronta a ribaltare la politica italiana in Libia ma esiste solo un suo incattivirsi, se Salvini e Meloni vanno al governo.

Non meno inconsistente il No delle Sardine, esperte in frasi fatte e dubbie frequentazioni. Dice Mattia Santori: “Durante il lockdown abbiamo studiato tanto, soprattutto sul percorso e sulle parole che accompagnano un referendum. Per questo votiamo No”. Non è che sia propriamente una spiegazione del voto: in fondo sono stati in tanti a permettersi di passare il lockdown studiando, lasciando che a lavorare restassero Conte e governo, infermieri, medici e scienziati, maestri e “driver”. Se dopo tanto sgobbare Santori annuncia che vota No perché ha studiato farebbe meglio a star lontano dai microfoni.

Poi c’è il no dei giornali mainstream, che i 5 stelle non li hanno mai sopportati. In particolare c’è il No di giornali che vantano una patina ormai slavata di sinistra, tipo «Repubblica». Fa impressione che questo No di sinistra sia sbandierato in nome della Carta costituzionale, che non prescrisse il numero attuale di parlamentari (questi furono portati a oltre 600 con una legge del ’63, per moltiplicare poltrone e clientes ben oltre la proporzione decisa dai costituenti in base alla popolazione). O in nome dell’analogo No che affossò la riforma costituzionale di Renzi. Come se le due riforme fossero paragonabili. Salvatore Settis ha ricordato opportunamente su questo giornale come le due riforme non siano paragonabili: quella odierna prevede il ritocco di due articoli, contro i sostanziosi 45 riscritti da Renzi.

Naturalmente esistono dei No argomentati con più finezza, cioè fornendo qualche dettaglio in più (è il caso di Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Livio Pepino, ecc.). Ma questi ultimi sono sommersi dal chiasso dei No vuoti di senso, che hanno come solo obiettivo quello di indebolire la presidenza Conte (il Recovery Fund da lui ottenuto a Bruxelles è appena qualche bruscolino), bloccare ogni timido tentativo di collaborazione fra Pd e 5 Stelle, staccare definitivamente il primo dai secondi, nell ’astrusa convinzione che fra i due, il partito meno confusionario sia il Pd. Questo fronte dei No, Settis lo ritiene ammaliato dal breve termine e del tutto incoerente (praticamente tutti i partiti, a cominciare dal Pd, hanno difeso e votato tagli simili in passato. Per legittimare il Parlamento e non per delegittimarlo).

Il Movimento 5 stelle è certamente una formazione ingarbugliata, come minimo. Ma non c’è partito che non lo sia, a cominciare dal Pd. Alcuni esponenti di quest’ultimo hanno addirittura cambiato opinione in pochi mesi: ieri sì al taglio e oggi no, contro il parere maggioritario del partito. Zanda e Finocchiaro sognano l’atterraggio di Draghi (per quale politica “di sinistra”?) e chi sogna non è tenuto a spiegare.

Non sono tuttavia la confusione e frammentazione del M5S a indisporre di più. Indispone che una buona parte dell’elettorato classico della sinistra ha da tempo traslocato nel Movimento (oltre che nella Lega), e non aspira a tornare nei vecchi partiti. Questo continua a essere intollerabile per il Pd, che insiste in una visione patrimoniale degli elettori (“questi sono MIEI e me li riprendo”). Difficile presentarsi come partito che ha ambizioni egemoniche sulla sinistra o sulla cultura, quando hai sacrificato quasi tutti i tuoi vecchi programmi al punto di fare affidamento sul neoliberismo di Draghi, e vieni sistematicamente sor – passato da un movimento – un elettorato – non più monopolizzabile. L’unico che ha intuito il dramma è Bersani, il quale voterà Sì e dice chiaramente che non sarebbe Draghi a profittare di una disfatta al referendum – soprattutto se combinata con sconfitte alle regionali – ma Salvini e Meloni.

Una delle più convincenti argomentazioni a favore del Sì mi è parsa quella di Lorenza Carlassare. “Se passasse il No –dice la costituzionalista –nulla verrebbe più cambiato. In particolare non verrebbe più cambiata neppure la legge elettorale […] la scelta di chi sarà eletto è unicamente operata dalle direzioni dei partiti […] prescindendo completamente dal rapporto con gli elettori”. E ancora: “In questa situazione non conta tanto il numero dei parlamentari quanto il loro rapporto con gli elettori. Se verso di noi non sentono alcuna responsabilità, di che democrazia stiamo parlando?” Già: di che democrazia stiamo parlando? Nessuno prova speciali godimenti nel votare turandosi il naso (neanche a Montanelli “piaceva”) ma godere per una vittoria di Salvini che magari chissà, faciliterà l’arrivo di Draghi, è più di un errore. È un maledetto imbroglio.

http://barbara-spinelli.it/2020/09/13/il-no-di-sinistra-maledetto-imbroglio/?fbclid=IwAR00XxLLey6sAdqFRsMGqXAJzJo83RVg3it7mCt9Mc31nvD1zGdobS47aIE

Le ragioni del si.


1 Il Parlamento sarà più efficiente.                                                                                      Durante l’Assemblea Costituente, precisamente il 13 settembre 1946, Luigi Einaudi disse: “Quanto più è grande il numero dei componenti di un’Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all’opera legislativa che le è demandata”. Molti esperti, tra cui il professor Roberto Perotti e diversi costituzionalisti, sostengono che le assemblee pletoriche funzionino molto poco e male e creino troppa confusione: il taglio renderebbe più efficienti i lavori dell’aula e delle commissioni, dando per scontate le obbligatorie modifiche ai regolamenti parlamentari per adeguare Montecitorio e Palazzo Madama ai numeri stabiliti nella riforma.

I parlamentari saranno poi incentivati a lavorare più e meglio, perché la loro attività legislativa – proposte di legge, emendamenti, interventi in aula, interrogazioni – sarà più incisiva. Con meno eletti, ciascuno avrà più peso nel dibattito interno ai partiti e in quello con le altre forze politiche, essendo più difficile delegare le responsabilità sugli altri.

2 Il taglio è un segnale di giustizia sociale.
Dopo parecchi anni di lacrime e sangue – come si diceva fino a qualche tempo fa – e di sacrifici imposti ai cittadini (tanto più con la crisi provocata dal Covid), il taglio dei parlamentari sarebbe uno dei rari casi in cui è la politica a mettersi a dieta. Un gesto simbolico, oltre che di sostanza. Non solo: da qualche tempo i partiti hanno accettato, talvolta loro malgrado, spesso su pressione o per paura del Movimento 5 Stelle, qualche taglio ai loro sprechi. Si sono tagliati i vitalizi (anche se al Senato tentano di farli rientrare dalla finestra), hanno abolito il finanziamento pubblico e infine hanno approvato la riduzione delle proprie poltrone.
Se vincesse il No, la Casta avrebbe ottimi motivi per tirare un sospiro di sollievo e considerare il risultato del referendum come un alibi per interrompere questo processo virtuoso di autoriforma contro i privilegi e gli sprechi, e magari sentirsi in diritto di riprendersi anche ciò che faticosamente era stato tagliato negli ultimi anni.

3 Abbiamo quasi 2mila “legislatori”: troppi.
Quando la Carta entrò in vigore, nel 1948, si pensò di legare la quantità di seggi in Parlamento al numero degli abitanti, rendendo quindi variabile la composizione di Camera e Senato a seconda della popolazione. Solo nel 1963 si arrivò, attraverso una riforma costituzionale voluta dalla Dc e dai suoi alleati, all’attuale formazione di 630 deputati e 315 senatori. Ma né nel 1963 né tantomeno nel 1948 esistevano i consigli regionali e il Parlamento europeo: istituzioni legislative che garantiscono ulteriore rappresentanza politica, da una parte con un ente intermedio tra Stato e Comune e dall’altra portando i nostri interessi nell’Unione. Ma che han fatto lievitare il numero dei legislatori eletti a 1918: 945 parlamentari, 76 eurodeputati e 897 consiglieri regionali.
Per i primi consigli regionali si votò nel 1970 e per il Parlamento europeo nel 1979. Circostanze che oggi consentono di ridurre quel numero di parlamentari nazionali deciso nel 1963, in un contesto che concentrava l’intera produzione legislativa e la rappresentanza a Roma: ora le leggi si fanno anche a Bruxelles e nelle Regioni.

4 Si apre la strada a una nuova legge elettorale.
Come sostiene la costituzionalista Lorenza Carlassare, il Sì permetterà – anzi imporrà, non foss’altro che per ridisegnare collegi più ampi – di “approvare una legge elettorale” che (si spera, e ci batteremo per questo) restituisca agli elettori il diritto e il potere di scegliersi i parlamentari. Il No invece lascerebbe intatto il numero degli eletti e dei collegi, non obbligherebbe il Parlamento a intervenire sulle regole del voto e sarebbe una pietra tombale su ogni altra riforma.
Il taglio permetterà anche di approvare correttivi già incardinati in Parlamento: il 25 settembre arriva alla Camera il “Brescellum”, un proporzionale sul modello tedesco con soglia di sbarramento al 5% e potrebbe essere l’occasione per reintrodurvi le preferenze; il 28 giungeranno a Montecitorio i due correttivi del deputato di LeU Federico Fornaro (superamento della base regionale del Senato e riduzione dei delegati regionali per eleggere il Capo dello Stato). Il Senato ha già approvato l’equiparazione dell’elettorato attivo delle Camere: i diciottenni potranno votare anche per il Senato.

5 Potremo controllare meglio i parlamentari.
Tagliare il numero dei parlamentari – meglio se con un buon sistema di scelta – sortirà un altro effetto positivo: gli eletti, essendo stati scelti da un maggior numero di elettori, saranno più rappresentativi e autorevoli e si sentiranno anche più autonomi dal controllo dei partiti. Non solo: essendo meno numerosi (da 945 a 600), ciascuno non potrà più nascondersi dietro gli altri 944 e approfittare dell’anonimato di un’assemblea pletorica per non lavorare: gli eletti sapranno cioè di essere più riconoscibili, dunque più controllabili dall’opinione pubblica e dai cittadini.
Quindi ridurre il numero degli eletti sarà un incentivo a lavorare di più e meglio. Molti elettori oggi non conoscono nemmeno il nome dei propri rappresentanti, un po’ per l’alto numero degli eletti, un po’ perché sistemi elettorali fantasiosi hanno reso difficile risalire a quale parlamentare sia stato scelto nel proprio collegio. Se saranno in 600 sarà molto più facile tenerli d’occhio: è il valore, britannico, dell’accountability.

6 Il taglio c’è già: non pagare gli assenteisti.
Secondo i dati Openpolis, nella scorsa legislatura “dei circa mille deputati e senatori, solo un centinaio è riuscito a influire sui lavori di Montecitorio e Palazzo Madama”. Tra il 2013 e il 2018, “il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni”.
Nella nuova legislatura le cose non vanno molto meglio, se si pensa a record clamorosi: alla Camera è eletta la forzista Michela Vittoria Brambilla, che però in aula è stata assente quasi il 99% delle volte: ha concesso al Parlamento cinque o sei apparizioni l’anno. Così ha fatto anche Antonio Angelucci, berlusconiano e dominus della sanità laziale, che supera il 94% di assenze in aula. Al Senato invece Tommaso Cerno ha mancato l’84% dei voti e Niccolò Ghedini il 69%. Casi limite che però non sono così fuori contesto, in un’assemblea che rinuncia già di fatto a centinaia di eletti ogni legislatura. Con la riforma, almeno, smetteremo di pagar loro lo stipendio.

7 Una riforma ampiamente condivisa.
Nonostante qualcuno, nelle ultime settimane, abbia associato la riforma al simbolo dell’anima “populista” e “antipolitica” del Movimento 5 Stelle (oltre che della Lega e di FdI), il taglio dei parlamentari è stato promesso per 40 anni – nella Prima e nella Seconda Repubblica a partire dalla commissione Bozzi del 1983 – da tutti i partiti e ha sempre riscosso il favore della maggioranza degli italiani, stando ai sondaggi. Centrosinistra e centrodestra hanno più volte inserito la riduzione dei parlamentari nei loro programmi elettorali, certi di solleticare i propri simpatizzanti su un tema largamente apprezzato. Nel 2008 il Pd presentò un disegno di legge identico a quello di oggi. Anche quando questa riforma è arrivata in Parlamento il consenso è stato ampio: nelle precedenti legislature e ancor più nell’attuale, quando nell’ultima lettura alla Camera il testo è stato approvato col 98% dei votanti e soltanto 14 contrari. Solo in un secondo momento alcuni ci hanno ripensato, promuovendo il referendum e iniziando la campagna per il No.

8 Così ci allineiamo agli altri paesi europei.
Con il taglio, l’Italia si uniforma agli altri Paesi europei per i costi e i numeri del Parlamento e per le riforme in materia. In primo luogo, secondo i bilanci di previsione della Camera, il Parlamento italiano è il più caro d’Europa se paragonato agli altri Paesi omogenei al nostro: solo la Camera costa 970 milioni l’anno (16,2 euro a cittadino), contro i 970 della Germania (14,1 a cittadino), ai 517 della Francia (7,7), 226 milioni della Gran Bretagna (3,7), 85 della Spagna (1,8). Se nel conteggio aggiungiamo poi anche il Senato, elettivo solo in Italia, il costo annuale del Parlamento sale a 1,5 miliardi, pari a 25 euro per ogni contribuente.
Anche sulle riforme, l’Italia si allineerebbe agli altri Paesi che stanno approvando progetti di legge simili: la Germania vuole modificare i distretti elettorali (e quindi gli eletti del Bundestag) da 298 a 280, la Francia progetta di ridurre i rappresentanti dell’Assemblea Nazionale del 25% (da 577 a 404) e la Gran Bretagna i deputati da 659 a 600.

9 Si risparmia il 7% dei costi del parlamento.
Il taglio di 345 parlamentari su 945 produrrà un risparmio sui conti pubblici. Le stime sono diverse: secondo l’osservatorio dei Conti Pubblici di Carlo Cottarelli, il risparmio ammonta a 57 milioni l’anno, pari a circa 300 milioni di euro per legislatura. Per Roberto Perotti, docente di Macroeconomia alla Bocconi, si risparmia circa il doppio: 100 milioni all’anno, di cui 22 per le indennità, 35 per rimborsi spese, diaria e assistenti, 20 per vitalizi e doppia pensione e altri 20 per i costi variabili, dalla pulizia dei locali alla carta prodotta per leggi, emendamenti e dossier. Con questo calcolo il risparmio arriva a quota mezzo miliardo a legislatura. Ma c’è chi, come il sottosegretario 5Stelle Riccardo Fraccaro, fa notare che le spese scenderanno ancora di più, tenendo conto dei contributi ai gruppi parlamentari.
In ogni caso, prendendo per buono il calcolo di Perotti, gli italiani risparmierebbero circa il 6-7% sui costi del Parlamento. Una cifra che, se eguagliata da tutte le altre Pubbliche amministrazioni, inciderebbe sulla spesa pubblica per svariate decine di miliardi.

10 Se vince il sì, possibili altre buone riforme.
Il taglio del numero dei parlamentari può essere l’inizio di un percorso volto a migliorare l’efficienza del Parlamento e la selezione dei nostri rappresentanti. Per questo, in caso di vittoria del Sì, il giorno dopo il referendum Il Fatto avvierà una campagna per promuovere altre due riforme, attraverso la legge ordinaria. La prima affinché, una volta tagliate le poltrone, i parlamentari si riducano gli stipendi, adeguandoli alla media degli altri Paesi europei: oggi, infatti, i parlamentari italiani sono i più pagati al mondo. La seconda, affinchè si approfitti dei necessari correttivi imposti dal taglio alla legge elettorale (andranno anzitutto rivisti i confini di collegi e circoscrizioni, ma non solo), scrivendo una nuova legge elettorale che cancelli il peccato mortale delle ultime tre approvate da destra e sinistra (Porcellum, Italicum e Rosatellum): le liste bloccate che dal 2005 in poi hanno espropriato noi cittadini del potere di scegliere i nostri rappresentanti, consegnandolo a capipartito e capibastone.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/15/le-ragioni-del-si/5931699/

‘Mi è scappato un no’: Giorgia Meloni imita bene Totò. - Antonio Padellaro


Titolone del Giornale: “Svolta della Meloni: con il No vanno a casa”. Oibò, leggiamo meglio cosa dice la leader di Fratelli d’Italia: “Io sono per il Sì al taglio dei parlamentari, ma l’idea che la vittoria del No possa creare un sommovimento nel governo rischia di avere la meglio”.

A questo punto, assai poco originale chiedo scusa ai lettori, ma la citatissima scena dei Tartassati cade a pennello. Totò che cerca di ingraziarsi il maresciallo della tributaria, Aldo Fabrizi, giocando sulle comuni simpatie politiche, ma quando comprende di aver preso un abbaglio pensando che Fabrizi sia un nostalgico del fascismo, si allinea in un baleno, derubricando la sua precedente adesione a un “mi sarà scappato un pro, ma io sono anti”.

Ora, lungi da me qualunque accostamento tra Giorgia Meloni e determinate nostalgie (argomento di chi non possiede altri argomenti) però trovo irresistibile l’analogia tra il “mi sarà scappato un pro” del film con il “mi sarà scappato un No” che in queste ore agita assai le acque della destra. Come dimostra l’endorsement per il No di Giancarlo Giorgetti, ex (?) braccio destro di Matteo Salvini che pur avendo votato Sì, Sì, Sì e ancora Sì, nei successivi voti parlamentari sul taglio, e pur avendo schierato il suo partito sul Sì al referendum, adesso ingolosito dal No, per le stesse ragioni della Meloni, se la cava con uno scontatissimo: “La Lega non è una caserma”.

Eppure, la vera parola chiave dei partiti sovranisti dovrebbe essere: “anti”. Infatti, come ha ripetuto ieri alla Verità, la Meloni sostiene di “avere molte proposte da fare per dare una mano all’Italia”, ma che “se il buongiorno si vede dal mattino non credo al governo interesseranno”. Fatto sta che l’opposizione di destra-destra è convintamente e incessantemente “anti” tutto ciò che fa il governo, a prescindere (come direbbe Totò). Il quale Totò, autore della immortale massima (“la serva serve”) potrebbe facilmente eccepire che l’opposizione si oppone, altrimenti che razza d’opposizione sarebbe.

E dunque chissenefrega del Sì se con la vittoria del No si manda a casa Conte. Anche perché con il giochino io sono per il Sì ma i miei sono per il No, la sera dei risultati Salvini e Meloni potranno dire di avere vinto comunque (carta perde, carta vince).

Ci resta un dubbio visto che la Meloni chiede a Mattarella di sciogliere le Camere se lunedì prossimo la maggioranza di governo risultasse definitivamente minoranza nel Paese. Ma visto che Salvini sostiene che i risultati delle Regionali “non avranno effetti sul governo”, sappiamo già cosa dirà se cambiasse idea: mi sarà scappato un pro ma io sono anti. O viceversa.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/15/mi-e-scappato-un-no-giorgia-imita-bene-toto/5931731/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-09-15

I Gattopardi con Bonaccini per far fuori Zinga (e Conte). - Wanda Marra

 


Se il Pd perde le elezioni il governatore può aprire la crisi nel partito, aiutato da “Repubblica” di Elkann.

Sostituire Giuseppe Conte alla guida del governo. L’obiettivo non è di pochi. Convergenze parallele di intenti, con interessi che si incontrano, anche se magari non si sovrappongono. L’operazione si svolge su più livelli: Stefano Bonaccini punta alla segreteria del Pd. Aprire un congresso per far fuori Nicola Zingaretti cambierebbe la strategia del Pd e l’indebolimento del governo sarebbe la prima conseguenza. Matteo Renzi vuol trovare un modo per rimettersi in gioco, dopo l’operazione fallimentare di Iv: rientrare nel Pd, oppure stabilire un’alleanza forte con il nuovo segretario sarebbe una strada da percorrere di pari passo alla creazione di un fronte moderato, ricongiungendosi con Carlo Calenda e Matteo Richetti di Azione e coagulando una parte di FI. E poi c’è Repubblica, che con la nuova proprietà degli Elkann e la nuova direzione di Maurizio Molinari, guarda più alle lobby che al tradizionale mondo di sinistra moderata.

L’occasione per un rovesciamento del quadro politico, che si porterebbe incorporata la gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund, potrebbe arrivare da una sconfitta elettorale domenica e lunedì alle Regionali. Rafforzata, magari, dalla vittoria del No al referendum sul taglio dei parlamentari.

Ad anticipare la problematica è stato il vicesegretario, Andrea Orlando, lo scorso maggio. “Con questo governo mettiamo in circolo denaro come mai accaduto negli anni scorsi. E fa gola. Anche gli editori, diciamo non puri, sono interessati a gestire, o almeno a sfruttare, questo momento straordinario. Qualcuno potrebbe promuovere stravolgimenti nella maggioranza”, diceva Orlando. E si riferiva esplicitamente agli assetti azionari mutati nei grandi gruppi editoriali italiani, ovvero alla famiglia Agnelli/Elkann nella proprietà del gruppo Gedi, cioè dell’ex gruppo Espresso e di Repubblica. In chiusura della Festa dell’Unità di Modena, domenica, Zingaretti ha citato “i Gattopardi” pronti a mettere le mani sul Recovery Fund. Non è sfuggita nel frattempo qualche presa di posizione di Repubblica: nel bel mezzo del negoziato per ottenere i soldi europei, a luglio, il giornale titolava “Italia all’angolo”, in un momento in cui nell’angolo ci stava più l’Olanda. Poi, ha scelto di sposare il No al taglio dei seggi.

Quali sono i “Gattopardi” a cui si riferisce il segretario dem? Nel Pd si tende a identificarli con il fronte confindustriale, guidato da Bonomi. Lo stesso che in passato ha appoggiato il governo Conte e che adesso vorrebbe rovesciarlo. Si indica anche una stagione di licenziamenti che arriveranno, a cominciare dal gruppo Fiat, e che sia Repubblica, sia La Stampa (l’altro quotidiano del gruppo) dovranno avallare. Questa operazione potrebbe sfruttare la voglia di Bonaccini di partire alla conquista del Pd. L’uscita sul possibile ritorno di Renzi e di Bersani (lui la spiega per un Pd oltre il 20%) non è piaciuta a molti. In compenso ha ricevuto il plauso di Andrea Marcucci. In realtà, non ha convinto neanche i bersaniani, che non ci stanno a essere messi sullo stesso piano dei renziani. Tanto è vero che il presidente dell’Emilia-Romagna è apparso molto nervoso in questi giorni. Però, le tracce non sono così semplici e lineari: quello che viene definito l’“immobilismo” di Zingaretti non piace né dentro, né fuori il partito.

La partita è aperta. Per chi ci vede lo zampino di Confindustria, il progetto sarebbe più ampio, per una modifica totale del quadro: puntare da una parte su Bonaccini, dall’altra su Luca Zaia, governatore del Veneto, ben più moderato e convincente per alcuni mondi di Salvini. E Calenda in certi ambienti ci sta di diritto. Il disegno non è perfetto: anche i poteri forti sono ormai tutto tranne che un blocco unico. Resta poi da capire quando e con quali voti queste operazioni potrebbero portare a una nuova maggioranza. Di andare a votare senza legge elettorale non se ne parla. Torna l’idea di Mario Draghi. La maggioranza del Pd guarda a un Conte ter. Ma in politica, i cambi di scenario sono la regola.

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La paura fa 90: tutti i nominati sperano nel “No”. - Giacomo Salvini

 


Trasversali I capponi a Natale.

Salvaguardare la rappresentanza, tutelare il Parlamento rispetto al governo ma soprattutto difendere la Costituzione contro un’ipotetica “deriva autoritaria”. Ma dietro alle ragioni nobilissime del No di molti costituzionalisti al referendum sul taglio di 345 eletti – per la maggior parte dei casi infondate – c’è un altro motivo, molto più concreto, che spinge un folto gruppo dei parlamentari, da destra a sinistra, a fare campagna contro la riforma: salvare la propria poltrona. La maggior parte di loro, infatti, nel 2018 è stata eletta grazie ai listini bloccati dei collegi plurinominali previsti dal Rosatellum e quindi la loro elezione non è il frutto di preferenze personali o della vittoria in un collegio uninominale ma dai voti raccolti dal proprio partito: per questo, in caso di vittoria del Sì e di riduzione dei parlamentari, alle prossime elezioni rischiano di non essere rieletti. Per non fare la stessa fine del cappone a natale quindi si schierano per il No al taglio di un terzo dei parlamentari.

Prima di tutto ci sono quelli che sono stati candidati direttamente nei listini bloccati senza farli correre nei collegi uninominali. A sinistra c’è l’ex dalemiano Matteo Orfini e Luigi Zanda eletti nel collegio Lazio 1, il renziano tra i promotori del referendum Tommaso Nanncini candidato al Senato nel collegio Lombardia 3, mentre nel centrodestra tra i fautori più agguerriti del No c’è il senatore Lucio Malan eletto nel listino bloccato Piemonte 1 e molti leghisti: Claudio Borghi nel collegio Toscana 2, Guglielmo Picchi nel Toscana 1 e Paolo Grimoldi e Massimiliano Capitanio in Lombardia. Qualche fautore del No emerge anche tra i 5 Stelle: Andra Vallascas è stato eletto deputato nel 2018 nel collegio Sardegna 3 e Marinella Pacifico nel Lazio 3. Poi ci sono i deputati e i senatori che hanno ottenuto lo stesso la poltrona nonostante siano stati trombati dagli elettori nei rispettivi collegi uninominali perché recuperati nelle liste bloccate. Tra questi ci sono anche molti volti noti come il deputato di Forza Italia Vittorio Sgarbi che nel 2018 perse nel confronto con Luigi Di Maio nel collegio uninominale Campania 1 ed eletto lo stesso grazie al listino dell’Emilia Romagna. Poi l’attuale ministra dell’Agricoltura di Italia Viva Teresa Bellanova, arrivata addirittura terza dopo Barbara Lezzi (M5S) e Luciano Cariddi (Lega) nel collegio uninominale in Puglia e ripescata al Senato anche lei grazie alla generosa Emilia. Stesso discorso per il leghista Alberto Bagnai, sconfitto da Matteo Renzi in Toscana, Pietro Grasso e Gianluigi Paragone.

Ma al comitato del No non bastavano i dinosauri della politica – da Paolo Cirino Pomicino a Pierferdinando Casini – ai pregiudicati come Roberto Formigoni o Silvio Berlusconi. Nelle ultime ore si sono aggiunti due sostenitori di peso: il finanziere renziano Davide Serra e il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana. Il primo lo ha annunciato al Foglio dopo essere tornato in Italia dopo anni a Londra in cui gestiva la sua holding Algebris con sede alle Cayman: questa riforma, ha detto, “toglie spazio alla società civile” per mettere “schiavi di partito” rendendoli “dipendenti più che dei parlamentari (di fatto violando la Costituzione)”. Il governatore Fontana invece è andato dietro a Giancarlo Giorgetti sul No: “Non si può fare un taglio senza altre riforme – ha detto sabato – è improponibile”.

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Al referendum sul taglio dei parlamentari io voto si.

 


Al referendum per il taglio dei parlamentari io voto si per:
- mandare a casa gli assenteisti seriali;
- chi fa leggi pro domo sua;
- chi, irresponsabilmente, fa favori per restare seduto alla poltrona; 
- chi ha distrutto la meritocrazia dando vita all'esercito dei raccomandati che stanno distruggendo l'etica professionale;
- chi approfitta della sua posizione per ottenere soldi illeciti;
- gli yesman succubi volontari di chi detiene il potere economico;
- per dimezzare il numero di chi va in Parlamento senza idee, ma solo per creare caos;
- io voto si perchè sono stufa di essere governata da gente che se ne frega altamente di me e che mi ha privato dei diritti conquistati nel tempo e aumentando il divario economico e sociale esistente tra me e loro.
E non venitemi a dire che verrebbe a mancare la rappresentanza nel territorio, perchè in 73 anni io non ho mai visto nessuno che mi venisse a chiedere di che cosa avevo bisogno e che, al contrario, mi ha tartassato a dismisura! Solo negli ultimi anni un esponente dei 5stelle si è messo a disposizione per rispondere ai tanti quesiti provocati dai suoi colleghi fancazzisti, anche telefonicamente e mai per raccomandazioni! Questo è un altro dei motivi per cui voterò sempre 5s...
Io voglio che a governarmi ci sia gente che abbia voglia di sacrificare parte della sua vita per migliorare la mia, come dovrebbe essere.
In altri termini sono convinta che meno parlamentari sarebbero in grado di lavorare meglio e più responsabilmente! 
by Cetta

Arresti referendari. - Marco Travaglio


Tetragono sul Sì fino all’altroieri, confesso che inizio a titubare. Più passano i giorni e più il fronte del No si popola di personaggi di preclara moralità che mi inducono a ripensarci. Come si fa a votare Sì quando Silvio B. (4 anni definitivi per frode fiscale, senza contare il resto), Roberto Formigoni (5 anni e 10 mesi per associazione a delinquere, corruzione e finanziamento illecito), Paolo Cirino Pomicino (1 anno e 10 mesi per finanziamento illecito e corruzione) e Vittorio Sgarbi (6 mesi e 10 giorni per truffa allo Stato e falso) tifano No? Vabbè, faccio finta di niente. Poi però mi imbatto, sul “Riformatorio”, in uno straziante appello dei “socialisti per il No” contro “questo taglio reazionario” e “illiberale che ha in sé l’indebolimento dello Stato di diritto”. Tra i firmatari, i migliori ragazzi dello Zoo di Bettino. Nel ramo incensurati, spiccano Acquaviva, Boniver, Cazzola, Cicchitto (la tessera P2 numero 2232 che combatte i “tagli reazionari” è sempre uno spasso), Covatta, Bobo Craxi & C. Segue la sezione pregiudicati (per tacere dei prescritti e dei miracolati): Carlo Tognoli (3 anni e 3 mesi per ricettazione), Paolo Pillitteri (4 anni per corruzione), Stefania Tucci vedova De Michelis (3 anni definitivi per la maxitangente Enimont), Beppe Garesio (8 mesi per corruzione e finanziamento illecito), Luigi Crespi (6 anni 9 mesi in appello per bancarotta fraudolenta e falso in bilancio, annullati dalla Cassazione per ridurre la pena dopo la controriforma Renzi), a cui Bobo ha voluto aggiungere la buonanima di papà Bettino che “se fosse vivo voterebbe No” (10 anni definitivi per corruzione e finanziamento illecito). Più che un appello, un’ora d’aria.

Sempre sul Riformatorio, un altro giovane virgulto garofanato, Claudio Martelli (8 mesi per finanziamento illecito, più una condanna prescritta per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano), annuncia coram populo il suo No e subito i Circoli de l’Avanti! (da lui stesso diretto) lo candidano a presidente della Repubblica. Totale: 52 anni e 10 mesi di reclusione. Come non essere della partita? Mentre pencolo fra il Sì e il No, un altro giureconsulto di chiara fame s’aggiunge a nobilitare il fronte del No: Attilio Fontana, sgovernatore di Lombardia, per ora solo indagato e dunque incompatibile con gli appelli di cui sopra: “La nostra Costituzione è equilibrata e ha una serie di pesi e contrappesi” (purtroppo insufficienti a metterci al riparo da lui), “per cambiarla è necessario farlo in maniera assolutamente serio (sic, ndr)”. Quindi mi sa che è meglio rinviare il referendum in attesa che la Costituzione la riformi lui in maniera assolutamente serio: a quattro mani con Gallera. O con suo cognato, alle Bahamas.

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