giovedì 7 maggio 2020

Il trucco c’è, ma non si vede. - Marco Travaglio

Mafia, ai domiciliari l’ergastolano carceriere del piccolo Di Matteo
Uno dei danni collaterali della polemica Di Matteo-Bonafede, oltre al festoso banchettare dei peggiori avvoltoi, è che oscura il vero motivo delle scarcerazioni di boss mafiosi e delinquenti comuni col pretesto dell’emergenza Covid. E cioè l’orientamento di un bel gruppo di giudici di sorveglianza che passano per “garantisti”, ma in realtà sono semplici “decarceratori”. In questo Paese a corto di senso dello Stato, è molto diffusa, anche nella magistratura (e non solo nelle correnti di sinistra), l’allergia al carcere. C’è pure chi lo abolirebbe, non ne fa mistero e, alla prima occasione, mette fuori tutti quelli che può. Che le carceri siano sovraffollate, promiscue e spesso terrificanti lo sappiamo. Ma non per i troppi detenuti (che anzi sono sotto la media europea), bensì per la penuria di posti cella (che va colmata costruendo o allestendo nuovi reparti). In ogni caso i giudici devono applicare il Codice penale che prevede la “reclusione” (c’è scritto proprio così) per una serie di reati. Prima si dava per scontato che – a parte reati gravissimi, o lievi ma commessi da poveracci senza tetto né difesa – la reclusione fosse finta, grazie a prescrizioni, amnistie, indulti, condoni, leggi svuotacarceri, pene alternative, liberazioni anticipate, sconti, attenuanti, condizionali, limiti d’età, scappatoie e cavilli vari. Il famoso Codice Spaventapasseri: da lontano fa paura, da vicino fa ridere.
Poi il ministro Bonafede ha ridotto il gap fra pene scritte nel Codice, irrogate nelle sentenze e scontate in carcere. Prima per i tangentari (Spazzacorrotti), poi per evasori e frodatori fiscali (ultima Finanziaria), infine per i mafiosi (il dl Cura Italia li esclude dalle pene alternative che i giudici possono concedere, in base alla svuotacarceri Alfano del 2010, a chi deve scontare meno di 18 mesi durante l’emergenza virus) e in futuro per tutti (blocca-prescrizione per i reati commessi dal 2020). A quel punto il sistema si è ribellato e, con esso, alcuni giudici decarceratori. Hanno messo fuori Formigoni dopo 5 mesi (su 70 da scontare) tradendo la legge Spazzacorrotti con un’interpretazione “non retroattiva” contraria a 30 anni di giurisprudenza costante in materia di esecuzione penale, dopodiché la Corte costituzionale con agile piroetta s’è contraddetta per avallare quell’assurdità. Poi è partita la canea sull’imminente “strage”, anzi “apocalisse” da Covid nelle carceri, con appelli ad amnistie, indulti e scarcerazioni di massa. E molti giudici di sorveglianza han cominciato a liberare centinaia di condannati, anche mafiosi, anche al 41-bis (cioè gl’individui col minor rischio di contagio al mondo).
Il tutto con la scusa che il Dap, sotto il fuoco dei “garantisti” (i radicali avevano persino denunciato in Procura Bonafede e Basentini per “procurata epidemia colposa”), si era cautelato con una circolare che chiedeva ai direttori delle carceri di segnalare i malati gravi, più esposti all’infezione, per “le determinazioni di competenza” (cioè isolarli, o sottoporli a tampone, o a visite mediche, o a trasferimenti in strutture sanitarie, non certo per mandarli a casa). E chi accusava Bonafede e Basentini di non scarcerare nessuno ha cominciato a strillare che scarceravano tutti, con le trombette di Salvini & Meloni e il megafono di Giletti che usa gli errori del Dap nel caso Zagaria per gettare 400 scarcerati addosso a Bonafede anziché a chi li ha messi fuori: i giudici di sorveglianza. Ora si spera che il decreto annunciato ieri consenta di rispedire in cella chi ne era uscito. Ma si deve sapere chi l’aveva fatto uscire. E con quali strabilianti motivazioni.
Il boss dell’Uditore Francesco Bonura è passato dal 41-bis nel carcere di Opera alla sua casa di Palermo grazie a un giudice di Milano che cita il “rischio di contagio, indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere, che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani e affetti da serie patologie”. Una barzelletta, visto che il carcere è isolato per eccellenza, tantopiù per i detenuti al 41-bis, reclusi in celle singole senza contatti con gli altri. Il giudice scrive pure che “deve ragionevolmente escludersi il pericolo di fuga o di reiterazione dei reati” anche per “l’età e il complesso quadro clinico”. Cioè un boss di 78 anni non farà più il boss per raggiunti limiti di età (infatti l’ultimo boss della Cupola catturato nel 2018, Settimo Mineo, di anni ne aveva 81). Dunque, malgrado i domiciliari, potrà uscirne anche per “sedute dentistiche” sue e della moglie, e per “matrimoni, battesimi, eventi luttuosi, 25 e 26 dicembre, Domenica di Pasqua e Lunedì dell’Angelo (sic, ndr)”. E chi legge l’ordinanza che ha scarcerato il fratello del boss Zagaria dal 41-bis a Sassari scopre che sarebbe uscito comunque, anche senza i pasticci del Dap (che in quell’unico caso ci sono stati, come documentato da Giletti), perché la Corte d’Appello di Napoli lo definiva incredibilmente “non pericoloso” e il giudice di sorveglianza riteneva impossibile curarlo sia in carcere sia in ospedale. Quindi l’ha mandato a casa sua a Brescia, cioè nell’epicentro del contagio. Geniale. Ecco: il polverone Di Matteo-Bonafede sta coprendo tutto questo. E tutti gli altri decarceratori seriali pronti a riprovarci.

Di Matteo contro Bonafede, lo show che fa felice Giletti e Cosa nostra. - Gaetano Pedullà

NINO DI MATTEO

E anche ieri ci siamo presi una vagonata d’insulti sui social, questa volta per aver detto a La7 che il processo di Sua eccellenza Giletti al ministro Bonafede ha fatto un bel regalo alla mafia, con l’effetto collaterale di affondare la credibilità del consigliere al Csm Nino Di Matteo. Per chi si fosse perso i fatti ecco un rapido riassunto. Con una premessa: conosco la vicenda per averla vista sul web, in quanto non guardo mai la sedicente Arena dove qualunquismo e vanità del conduttore lasciano poco spazio al resto. Ma veniamo alla trasmissione. Giletti indignatissimo protesta perché il Dap (cioè il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha permesso la scarcerazione temporanea per gravi motivi di salute di alcuni boss. Per questo motivo il ministro Bonafede – che nel suo ruolo di governo non può scarcerare o arrestare nessuno – ha fatto approvare nell’ultimo Consiglio dei ministri una norma che impedisce qualsiasi scarcerazione dei detenuti più pericolosi senza l’assenso della Direzione nazionale antimafia e delle Procure distrettuali. In più, sempre Bonafede si è chiamato il direttore del Dap, che aveva scelto, cioè il dott. Francesco Basentini, e ne ha accettato le dimissioni. Tutto questo però per Giletti non conta, e in una puntata che sarebbe passata per direttissima nel dimenticatoio ecco arrivare una telefonata del dott. Di Matteo. Si tratta, diciamolo subito, di una bandiera della lotta alle criminalità organizzata.
Un pm che cosa nostra voleva far saltare in aria, che ha sostenuto con capacità e coraggio la pubblica accusa nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia, e anche per questo vive da anni sotto scorta. Di Matteo è una persona alla quale tutti gli italiani dobbiamo dire grazie. Questa volta però il magistrato vuole intervenire, e nel farlo racconta per tre volte, praticamente senza interruzione, di essere stato chiamato due anni fa da Bonafede e di aver ricevuto la proposta di fare il direttore del Dap. Nel loro stesso colloquio si fa riferimento alle intercettazioni su quanto i boss mal sopportassero una tale nomina. Passano pochi giorni e Bonafede ci ripensa, e invece di un’Audi offre a Di Matteo una Mercedes, cioè la Direzione degli Affari penali, cioè l’avamposto della lotta alla mafia e, per inciso, il ruolo che fu di Giovanni Falcone. Questo a Di Matteo, chissà perché, non sta bene e la cosa finisce li, fin quando due anni dopo la sentiamo da Giletti, raccontata in modo tale da far giungere gli spettatori a una lapidaria sentenza: il ministro Bonafede si fa dettare le nomine dai capi della mafia. Naturale che il diretto interessato chiami subito in diretta per smentire la percezione di Di Matteo, finendo però più volte interrotto da Giletti, che liquida una questione così grave in pochi minuti, perché “la tv ha i suoi tempi” e deve passare ad altro argomento: far gettare una carrettata di fango sul Governo dal signor Flavio Briatore, noto maître à penser dell’Italia del fare, con qualche amnesia quando si tratta di fare i conti col Fisco.
Fatta la cronaca, veniamo al succo della faccenda, che ho sintetizzato nella trasmissione di Andrea Pancani, unico tra tutti i programmi de La7 dove resiste un clima non totalmente fazioso verso il Governo e soprattutto i Cinque Stelle. Per questo spero vivamente di non averlo messo nei guai, vista l’aria che tira su questa rete, dove per inciso l’highlight del mio intervento (disponibile sul sito de La Notizia) è stato rapidamente cancellato dal sito della trasmissione. Se argomenti tanto delicati sono utilizzati per fare informazione e non propaganda o avanspettacolo, di fronte alla telefonata del dott. Di Matteo Giletti avrebbe dovuto chiedere immediatamente al pm come mai faceva tali dichiarazioni solo due anni dopo i fatti. Non un gigante del giornalismo, ma un praticante alle prime armi in redazione avrebbe chiesto a Di Matteo se sia accettabile un tale reiterato silenzio nella sua posizione di Consigliere del Csm, dove è arrivato per sostituire altri consiglieri che con altrettanto silenzio provavano a spartirsi nomine e Procure (il caso Palamara). Un giornalista che vuole fare emergere la verità dei fatti, e non utilizzare ministri e magistrati per fare show, avrebbe chiesto a Di Matteo perché ha rinunciato alla poltrona che fu di Falcone. E si domanderebbe come può ora il Csm far finta di niente di fronte a un Consigliere che ha messo in croce i colleghi del tribunale di sorveglianza di Sassari, che hanno disposto la scarcerazione di Pasquale Zagaria, recluso in regime di 41 bis, e fratello del capo dei casalesi Michele, detto Bin Laden.
Di queste domande ovviamente non c’è stata traccia e quello che rimane è un bravissimo magistrato che accusa il ministro di una forza politica arci nemica della mafia. Uno scontro tra bandiere della guerra ai clan, che in questo modo fanno il gioco dei criminali e di chi ha da guadagnare da uno Stato debole e in conflitto tra le sue istituzioni.  Da siciliano, da semplice cittadino che odia la mafia, ma anche da giornalista che tra i rottami fumanti di Capaci ha giurato di fare con la schiena dritta questo mestiere, penso che Bonafede e Di Matteo debbano incontrarsi, e chiarirsi, perché figure di questo spessore non possono giocare in squadre diverse quando c’è da battere un nemico comune. Su Giletti e una certa tv alla carlona stendo invece un velo non pietoso, ma penoso. E mi tengo come medaglie le centinaia di insulti e di minacce che ho subito ieri da persone che hanno portato il cervello all’ammasso della destra peggiore, anche grazie a trasmissioni spazzatura, dove il fatto di essere quasi sempre solo contro tutti mi rafforza nell’idea che sull’informazione questo Paese è definitivamente fottuto.

Caro Nino Di Matteo, caro ministro basta guerre tra persone perbene. - Gian Carlo Caselli

Sentenza Cedu su Provenzano, l'opinione di Caselli e Di Matteo
Di Matteo e Caselli
Difficile non intervenire, anche se avrei preferito starne fuori. Perché – lo confesso – sono molto tormentato e diviso. Da una parte Nino Di Matteo, magistrato che stimo da sempre per il coraggio e la capacità professionale dimostrati in processi complessi, spesso di importanza che va ben oltre il perimetro del fascicolo per investire la tenuta stessa della nostra democrazia. Dall’altra, Alfonso Bonafede, del quale – come ministro della Giustizia – apprezzo varie iniziative (fra tante: la “spazzacorrotti”; la prescrizione finalmente interrotta; gli interventi sul versante antimafia, ultimo il coinvolgimento del Procuratore nazionale nelle decisioni riguardanti la scarcerazione di mafiosi, cosicché anche il profilo della pericolosità sia valutato bilanciandolo con gli altri). Ovviamente, stima e apprezzamento non escludono che su specifici punti possano esserci nel reciproco rispetto opinioni divergenti. Per esempio, il proclama del ministro che ieri alcuni media hanno sintetizzato con lo slogan “rimando dentro tutti i boss finito il rischio Covid”, potrebbe impallarsi sull’autonomia della magistratura.
Tanto premesso, confesso che le reazioni scatenatesi dopo la trasmissione tv di Massimo Giletti di domenica scorsa, presto degenerate in una tremenda bagarre, appaiono per svariati profili anomale. Andiamo con ordine. Giletti raccoglie alcune opinioni che accennano a “trattative” (termine usato da alcuni ospiti in studio) per la nomina nel 2018 del capo del Dap. Giletti chiede al parlamentare europeo dei 5 Stelle Dino Giarrusso perché non fu scelto Di Matteo che sembrava quello più giusto. Giarrusso risponde di non sapere nulla nel merito e aggiunge che “quelle erano trattative, contatti tra ministro e Di Matteo in cui io non c’entro”. Telefona Di Matteo e subito rivendica energicamente: “Non ho mai fatto trattative con nessun politico né ho mai chiesto nulla”. Segue la ricostruzione dei colloqui avuti con Bonafede nel 2018 circa la sua eventuale nomina a capo del Dap o dell’ufficio Affari penali. All’irruzione di Di Matteo segue a ruota quella del ministro Bonafede e si innesca – in una sede comunque impropria – un cortocircuito istituzionale (Di Matteo è attualmente componente del Csm).
La mia potrà sembrare una lettura minimizzante, ispirata a uno psicologismo d’accatto, ma penso che la molla, il fattore scatenante dell’intervento di Nino Di Matteo sia stata la parola “trattativa”. Non solo perché la sua esperienza professionale è legata al processo definito proprio come “trattativa”, ma soprattutto perché un magistrato come lui non può assolutamente tollerare che il suo nome sia accostato all’ipotesi di trattative con chicchessia, men che mai per attività d’ufficio. Lo confermano alcuni passaggi delle due interviste che Di Matteo ha rilasciato ieri a Repubblica e a La Stampa, che al riguardo contengono alcuni passaggi piuttosto illuminanti. Cito alla rinfusa: domenica sera ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa; sapevo e so che non devo chiedere niente; non sono uno che fa calcoli; i colloqui col ministro si sono svolti su suo invito e per sua iniziativa; non sono stato io a chiamarlo; non è mio costume chiedere niente ai politici; sono un soldato della Repubblica. E non è un caso che Bonafede – con la stringata risposta nel “question time” di ieri – abbia precisato che quelle con Di Matteo furono “normali interlocuzioni per formare una squadra”.
Dato atto a Di Matteo che l’idiosincrasia per ogni indebito intreccio fra la sua figura e la parola “trattativa” è comprensibile e giustificata; preso atto altresì (intervista a La Stampa) della sua esplicita dichiarazione: “Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia”; è troppo sperare che la violentissima querelle possa placarsi e concludersi?
Senza dubbio gioverebbe una chiara ammissione del ministro: vale a dire che, ferma restando la sua autonomia in scelte di quel livello, era e rimane criticabile la nomina a capo del Dap non di Di Matteo, ma di un magistrato con ben altre caratteristiche. Mentre Di Matteo dovrebbe convincersi che abbandonare il proprio cuore alla tristezza e alle recriminazioni non aiuta. Rischia anzi di lasciare macerie sul terreno dell’antimafia quando finiranno i rantoli di questa guerra. Una guerra fra persone perbene (Di Matteo e Bonafede), ambedue ben consapevoli che ci si può dividere su tutto ma non nella lotta alla mafia. Che invece rischia proprio lacerazioni profonde nel surreale clima creato ad arte da chi fino a ieri considerava Di Matteo un laido giustizialista incompatibile con lo Stato di diritto: e oggi invece lo usa strumentalmente come uno splendente totem in funzione anti- Bonafede.

Azienda siciliana crea iMask, la mascherina con filtro FFP3 eterna e riciclabile.



La mascherina del futuro è un’idea della startup siciliana iMask. Si tratta di una mascherina 100% Made in Italy, l’unica senza valvola in grado di proteggere sia chi la indossa sia chi gli sta vicino. Il filtro utilizza un innovativo tessuto a base di polipropilene certificato nella classe di protezione FFP3, lo standard più elevato disponibile sul mercato per le mascherine semipermanenti di protezione individuale e chirurgiche.
Il filtro è lavabile e sterilizzabile e dai test effettuati nei laboratori della tedesca Fiatec Filter & Aerosol Technologie GmbH assicura una protezione di livello FFP3 fino a un mese dopo il suo primo utilizzo. Può essere utilizzata infinite volte grazie al filtro FFP3 sostituibile, che può durare fino ad un mese. Lavabile e sterilizzabile non è un dispositivo usa e getta. iMask è riciclabile, riduce il consumo delle mascherine usa e getta e limita il problema dello smaltimento dei prodotti monouso. È realizzata con una gomma termoplastica anallergica certificata per uso medicale è leggera e ha una vestibilità unica grazie al suo “comportamento elastico”.
Il prezzo di una mascherina, che contiene il filtro e che dai test effettuati assicura una copertura fino a ad un mese di effettivo utilizzo, è pari a 15 euro, mentre un blister con cinque filtri, che garantiscono una copertura fino a cinque mesi di effettivo utilizzo, costa 10 euro, solo 2 euro a filtro.

iMask, le certificazioni.

iMask è un dispositivo di protezione individuale con certificazione in deroga ed è in corso l’iter di certificazione come dispositivo medico, che richiede 20 giorni lavorativi dall’avvio della procedura, nel rispetto della norma europea Uni En 149:2001+A1:2009 sui “Dispositivi di protezione delle vie respiratorie – Semimaschere filtranti antipolvere – Requisiti, prove, marcatura”. Ideata, progettata e realizzata interamente in Italia, iMask è protetta da tre brevetti internazionali (depositati nell’aprile del 2020).