martedì 16 giugno 2020

Roma, blitz contro il clan Casamonica: arresti e sequestri per 20 milioni di euro. - Maria Elena Vincenzi

Roma, blitz contro il clan Casamonica: arresti e sequestri per 20 milioni di euro

Scattata all'alba l'operazione denominata "Noi proteggiamo Roma" come diceva uno di loro intercettato. Decisivo il ruolo di due ex mogli di componenti del clan.

Nuovo colpo ai Casamonica. La Polizia di Stato, su richiesta della Dda di Roma, ha eseguito ieri 20 ordinanze (15 in carcere e 5 ai domiciliari) e un sequestro di prevenzione da 20 milioni di euro ai danni del clan Casamonica. Le accuse sono per tutti di mafia. Una settantina di capi di imputazione, tra cui una trentina di episodi di usura ed estorsione e cinquanta di esercizio abusivo dell’autorità finanziaria. Reati che ai Casamonica garantivano un controllo assoluto del territorio, la Romanina, definito il loro “quartier generale”.

Roma, blitz contro Casamonica: arrestati esponenti del clan e sequestrati beni per 20 milioni di euro.

Dei 4 collaboratori che hanno aiutato un’indagine che ricostruisce 20 anni di storia della famiglia, due sono ex mogli di componenti del clan. Un clan che, come hanno spiegato gli inquirenti è autoctono, tanto da autoproclamarsi difensore di Roma (“Noi proteggiamo Roma”, dice in un’intercettazione Guido Casamonica) dalle mafie straniere, e ha una struttura orizzontale: non esiste un capo dei capi, ma singole famiglie, imparentate e legate da un comune senso di appartenenza.

Due, in particolare, le famiglie finite in questo filone di inchiesta, quelle di Ferruccio Casamonica e di Giuseppe Casamonica, cognati. “È un branco, si aiutano sempre”, ha detto una delle collaboratrici. Il tribunale ha disposto anche un contestuale sequestro da 20 milioni di euro, per i magistrati, il loro patrimonio era alla base del loro potere sul territorio.

Le intercettazioni: "Noi proteggemo Roma".

"Je da fastidio perchè noi proteggemo Roma". A dirlo è Guido Casamonica, figlio del boss Ferruccio, che si lamenta dei provvedimenti giudiziari emessi nei confronti di altri membri del clan della Romanina, periferia della Capitale. Secondo lui - spiegano gli investigatori - l'annientamento del sodalizio è finalizzato a consentire alle organizzazioni forti di mettere le mani sulla città. "Devono far entrare... Devono far entrare... Organizzazioni forti a Roma ecco perchè ce vonno distrugge a noi!! La Camorra e la Ndrangheta". Subito dopo sottoline che la presenza dei Casamonica sul territorio consente di proteggere Roma, sottraendo conseguentemente la città al controllo dei clan camorristici e delle cosche calabresi. "Perchè i Casamonica proteggono Roma ..invece hanno stufato...
i napoletani vonne entrà...la camorra vò entrà a Roma e i calabresi vonno entrà a Roma". E ancora: " "Senti... mo scenno lo sai dove te butto io a te?? mo te darei na bastonata in testa.. te spaccherei la testa!!... le mascelle te romperebbi io!!". A dirlo Ferruccio Casamonica ad una delle sue vittime di usura.

Sequestrate case, ville e società del valore di 20 milioni e 140 conti su vari istituti di credito.

Il Tribunale di Roma ha disposto il sequestro di  7 unità immobiliari site in Roma, tra cui le ville di Via Flavia Demetria 90 e Via Roccabernarda 8, il villino di Via Lunano 25 ed altri siti a Monterosi (VT) e San Cesareo (RM); quote di 5 società di capitali; quote di 1 società di persone; 1 ditta individuale; interi complessi aziendali di cui una stazione di servizio, sita in San Cesareo, e un bar tabacchi, ubicato a Montecompatri (RM); 1 contratto di concessione del godimento di un complesso immobiliare, con diritto di acquisto ai sensi del D.L. 12/9/2014 n. 133 (rent to buy); 140 rapporti finanziari con vari Istituti di credito.
 
Tra i beni immobili sequestratati anche  la villa di via Roccabernarda 8, unico immobile nella roccaforte storica della famiglia Casamonica ancora in possesso del clan, situato nella adiacenze delle due ville di via Roccabernarda n. 15 e n.14/16, già confiscate nel 2009 a Giuseppe Casamonica e destinate dalla Regione Lazio a parco pubblico denominato “Il parco della legalità” e a centro polivalente dell’Associazione nazionale Genitori Soggetti Autistici.


https://roma.repubblica.it/cronaca/2020/06/16/news/roma_mafia_casamonica-259325872/

Mafia capitale: Carminati torna libero per decorrenza dei termini. - Virginia Piccolillo e Ilaria Sacchettoni

Mafia capitale:  Carminati torna libero per decorrenza dei termini

I giudici del Tribunale della Libertà hanno accolto l’istanza dei legali perché «il termine complessivo massimo è scaduto». Oggi il protagonista dell’inchiesta sulla corruzione, ha lasciato il carcere di Oristano dopo 5 anni e 7 mesi. Bonafede invia gli ispettori.

Jeans e camicia blu sbottonata. Un borsone in spalla e gli occhi a terra. Nessuna risposta e una smorfia di fastidio per i giornalisti. Massimo Carminati è di nuovo libero. Uno dei principali protagonisti dell’inchiesta Mafia capitale ha lasciato il carcere di Oristano per scadenza dei termini di custodia cautelare. Solo dopo il ricalcolo della pena potrà essere riarrestato. Intanto però l’istanza di scarcerazione presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri è stata accolta dal Tribunale della Libertà e, dopo 5 anni e 7 mesi, il “cecato” - come l’ex Nar viene soprannominato da quando perse un occhio in uno scontro a fuoco con la polizia, è uscito alle 13.30 di martedì dal carcere. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha investito della vicenda gli ispettori di via Arenula per valutare se ci siano stati illeciti, ritardi o omissioni. Solo 4 giorni fa erano arrivate le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione che ha modificato la condanna di Carminati da associazione mafiosa ad associazione a delinquere e sulla base della quale la Corte d’Appello dovrà fare il computo definitivo dei giorni di carcere che gli restano da scontare.

Il provvedimento dei giudici.
Secondo i giudici del tribunale di Roma, sezione misure di sorveglianza, i termini di scarcerazione di Massimo Carminati sono già trascorsi. Questo perché nei confronti dell’imputato non sono state applicate sospensioni della pena che ha continuato invece a decorrere: «In definitiva -scrivono i giudici - non può dirsi che nel procedimento in esame siano sospesi i termini di durata della misura cautelare, trattandosi di procedimento rientrante tra quelli per i quali non opera la sospensione». In questo senso aggiungono i giudici «deve ritenersi che in relazione ai due capi di imputazione il termine complessivo massimo di custodia cautelare è scaduto con la conseguenza che va disposta la scarcerazione dell’appellante in relazione e limitatamente a detti capi di imputazione che hanno costituito oggetto del presente esame».

La difesa: «Principio di civiltà».
«Siamo soddisfatti che la questione tecnica che avevamo posto alla Corte d’Appello e che tutela un principio di civiltà sia stata correttamente valutata dal Tribunale della libertà», commenta l’avvocato Placanica. Dopo tre rigetti l’istanza con il meccanismo della contestazione a catena è stata accolta. E il “Nero” del “Mondo di Mezzo” può tornare a Roma.

L’accusa di mafia caduta.
«Esce per decorrenza dei termini, è un automatismo», ha spiegato l’altro difensore Tagliaferri. Aggiungendo che «quando si tratta di Carminati bisogna sempre ingaggiare lotte giudiziarie. Come nel processo di primo grado, dove è stato per 4 anni al 41 bis per poi arrivare in Cassazione dove è stata disintegrata l’accusa di mafia». Nell’ultima sentenza del 22 ottobre 2019, infatti, la Cassazione ha smontato l’inchiesta dell’ex procuratore capo, Giuseppe Pignatone, e ha fatto cadere per Carminati e gli altri l’accusa di mafia. Per i giudici quella dell’ex esponente della Banda della Magliana, e del re delle cooperative rosse Salvatore Buzzi, non era un’associazione di stampo mafioso fondata sulla violenza e l’intimidazione, ma una (anzi due) associazioni a delinquere basate sulla corruzione. Ora Carminati e Buzzi sono in attesa di un altro processo di appello che ridetermini le pene.

patto Sicilia-New York. Lo gestiva un fedelissimo di Messina Denaro: 13 arresti. - Salvo Palazzolo

Mafia, un nuovo patto Sicilia-New York. Lo gestiva un fedelissimo di Messina Denaro: 13 arresti

Blitz dei carabinieri in provincia di Trapani. In manette Francesco Domingo, boss di Castellammare del Golfo, punto di riferimento per il superlatitante. Indagato il sindaco, perquisizione a casa e in ufficio.

Negli ultimi due anni, i viaggi da New York verso Castellammare del Golfo si sono intensificati. Gli emissari della famiglia Bonanno andavano tutti ad ossequiare un padrino della vecchia guardia, Francesco Domingo, 64 anni, in Cosa nostra lo hanno sempre chiamato "Tempesta", un punto di riferimento per l'imprendibile Matteo Messina Denaro. Quei viaggi non sono sfuggiti all'indagine dei carabinieri del nucleo investigativo di Trapani, coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall'aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Francesca Dessì e Gianluca De Leo: stanotte, sono state arrestate 13 persone, fra cui Domingo. E questa volta, le intercettazioni sono entrate ancora più a fondo nei segreti della provincia di Trapani, mettendo in risalto relazioni fra mafiosi e insospettabili.

Stamattina, sono scattate perquisizioni nell'abitazione e nell'ufficio del sindaco di Castellammare del Golfo, Nicola Rizzo, eletto nel 2018 con 2.463 voti, ottenuti con una lista civica di Centrodestra. Al primo cittadino è stato notificato un avviso di garanzia in cui si ipotizza il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. E tornano le ombre del passato: nel 2006, il Comune di Castellammare era stato già sciolto per infiltrazioni mafiose, per le pressioni pesanti di Domingo sull'ufficio tecnico. Eppure, quella sembravava ormai una stagione lontana: negli ultimi anni, il sindaco Rizzo è diventato espressione di un nuovo percorso antimafia in provincia di Trapani. Ma per la procura di Palermo non è proprio così, domani il primo cittadino dovrà presentarsi al palazzo di giustizia per essere interrogato.

Il summit.

Francesco Domingo è stato già condannato due volte per associazione mafiosa. Dopo ogni scarcerazione, è sempre tornato a guidare l'influente mandamento di Castellamare del Golfo. Fra estorsioni e affari sul territorio. E più di recente - racconta l'indagine del comando provinciale di Trapani diretto dal colonnello Gianluca Vitagliano -  i collegamenti sono tornati ancora più stretti con i cugini d'oltreoceano.

È un rapporto antico quello fra Cosa nostra siciliana e americana: le origini del clan Bonanno di New York, all'inizio del secolo scorso, avevano le proprie radici proprio a Castellammare. I mafiosi italo-americani del fronte trapanese hanno segnato una scalata criminale veloce: i Bonanno hanno costituito la seconda famiglia più importante fra le cinque di New York. Fino alla grande repressione giudiziaria degli anni Novanta.
 
Adesso, le microspie piazzate nel ventre della Sicilia hanno registrato un nuovo particolare attivismo. Non solo in provincia di Trapani, ma anche in quella di Agrigento, dove la famiglia mafiosa di Sciacca intrattiene altri contatti con i Bonanno. Il 30 luglio 2018, si tenne un riunione importante a Castellammare del Golfo: da Sciacca arrivarono il capomafia Accursio Dimino e Sergio Gucciardi, proprietario di due bar a New York, dove sono installate slot machine; incontrarono un tale Stefano Turriciano, "originario di Castellammare - hanno scritto gli investigatori - ma dimorante perlopiù negli Stati Uniti e dalle informazioni acquisite dalla polizia giudiziaria, è stato controllato nel 2007 all'aeroporto di Palermo con Franco Salvatore Montagna, originario di Alcamo e fratello di Sal Montagna, affiliato alla famiglia newyorkese dei Bonanno e assassinato il 24 novembre 2011 a Montreal".


A Castellammare si incontrarono al Flower cafè: "Dove li mettiamo questi telefoni?". Erano prudenti. Sembra che i boss siciliani puntavano a nuovi investimenti nel settore del gioco.  "Noi dobbiamo andare là per fare - diceva Antonello Nicosia, il collaboratore parlamentare dell'onorevole Giuseppina Occhionero (arrestato nel novembre dell'anno scorso), a Dimino - in California o in Texas o in un altro posto, non è che per forza dobbiamo farlo a New York. Dobbiamo fare una cosa per fare soldi, anche in un altro paese... in Canada".

 
Qualche tempo dopo, Gucciardi telefonò a Michele Domingo, il fratello di Francesco, anche lui residente negli Stati Uniti. Il fratello del boss disse: "Domani non scendere per venire qua, fino a quando non te lo dico io... perché c'è mbiruglio per ora". Era morta la madre dei Domingo, la questura di Trapani aveva vietato i funerali pubblici e per le strade di Castellammare c'erano diversi controlli della polizia. Così, la trasferta da Sciacca venne rinviata. Il 28 agosto, c'era anche Francesco Domingo all'incontro con Gucciardi, al Flower cafè.

L'indagine.

Pure a Palermo sono stati registrati segnali inquietanti sul fronte di un'altra famiglia newyorkese, quella dei Gambino: nel luglio scorso, la squadra mobile ha arrestato 19 esponenti del clan Inzerillo, i "perdenti" della guerra di mafia  dei primi anni Ottanta, dopo la morte di Totò Riina sono tornati dagli Stati Uniti con i loro tesori mai sequestrati. Un altro mistero. Per certo, la Procura ha individuato un flusso di denaro dagli Stati Uniti alla Sicilia attraverso alcune carte ricaricabili portate a Palermo. Sono pagamenti per partite di droga? O capitali per nuovi investimenti? Il quadro è ancora confuso.

Nei mesi scorsi, la commissione parlamentare antimafia ha deciso una trasferta negli Stati Uniti, per comprendere come si sta sviluppando il nuovo asse criminale fra la Sicilia e gli States. L'Antimafia ha incontrato il ministro della giustizia del presidente Trump, i direttori di Dea ed Fbi, i due procuratori distrettuali di New York (Manhattan e Brooklyn) e vari responsabili delle agenzie Onu che si occupano di cooperazione internazionale in materia penale.

"Con procuratori e investigatori - spiegò al ritorno dal viaggio il presidente Nicola Morra - abbiamo fatto il punto su quanto emerge dall'attività delle cinque famiglie di New York per capire i livelli di interazione e integrazione fra la Cosa nostra che un tempo dettava legge nello scenario americano, l'Ndrangheta che arriva dal Canada e altre mafie straniere". La commissione antimafia ha affrontato anche uno dei nodi irrisolti della collaborazione Italia-Usa in tema di lotta alle cosche: dalla fine del 2016 è pendente una richiesta di estradizione per il boss di Carini Freddy Gallina, fermato a New York, quattro anni non sono bastati per farlo ritornare nelle prigioni italiane.

Il superlatitante.
Sullo sfondo, l'imprendibile Matteo Messina Denaro, il capomafia della provincia di Trapani condannato all'ergastolo per le stragi del 1993 di Firenze, Milano e Roma. Nella stagione delle bombe, aveva affidato una missione molto particolare a Francesco Domingo, un'indagine riservata in Sardegna per individuare alcuni agenti della polizia penitenziaria che lavoravano nei bracci del 41 bis. Messina Denaro e gli altri "falchi" di Cosa nostra volevano dare una lezione esemplare ai poliziotti. Domingo portò dei nomi, trovati grazie ad alcuni suoi contatti in Sardegna, ma poi la spedizione punitiva venne rinviata.

Dov'è adesso Messina Denaro? Forse in Sicilia, forse all'estero, si sono perse le sue tracce. Ma i fedelissimi di Trapani, come Francesco Domingo, continuano a presidiare il territorio. E la caccia alla primula rossa continua. 

https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/06/16/news/mafia_un_nuovo_patto_sicilia-new_york_a_gestirlo_un_fedelissimo_di_messina_denaro_13_arresti-259320752/

Salvini da politico vincente è diventato un pugile suonato. - Andrea Scanzi

Gad Lerner: “Salvini ha la faccia del pugile suonato. PD non deluda”
C’è un momento, più o meno lungo, in cui un politico un tempo vincente si trasforma in pugile suonato. A Matteo Salvini accade da mesi, per l’esattezza da quando si è comicamente sgambettato da solo al Papeete. Roba che gli storici lo prenderanno per il culo nei secoli (ma non c’è bisogno di aspettare gli storici: possiamo già farlo anche noi. Con agio e in atarassia). Dall’8 agosto in poi, il Salvini a cui pareva riuscire tutto si è trasformato in un Fantozzi presbite. Si è messo gli occhiali, forse anche per sembrare un po’ intellettuale, ma la trovata oculistico-strategica non ha portato grandi frutti. Tutte le volte che non si intervista da solo, e quindi non è da Porro (o derivati), è un pianto. Per lui: per tutti gli altri, immagino alleati inclusi, sono invece le matte risate. La figuraccia raccattata una settimana fa da Floris è roba da Guinness dei Primati. Quel suo “Posso mentre parlo con una signora abbassarmi la mascherina?”, pronunciato con aria stralunata di fronte a un attonito (e divertitissimo) Floris, è stato l’ennesimo suicidio mediatico. Lo difendono giusto gli ultrà infoiati, che ovviamente non fanno testo. Con quella frase, Salvini non ha soltanto dimostrato di non avere capito nulla della pandemia (e delle regole base per arginarla) dopo quattro mesi di fase 1, 2 e 3. Quella frase ha ribadito altresì come Salvini sia totalmente fuori fase. E purtroppo (per lui) non ha uno straccio di amico vero in grado di dirgli per il suo bene: “Fermati un po’ oppure qua è un massacro”. O magari gli amici li ha, e glielo auguriamo, ma lui si crede troppo figo per ascoltarli. Durante il Salvimaio teneva una foto di Renzi in salotto (regalatagli da Giorgetti) per “non finire come lui”, ma sta facendo gli stessi errori. Accecato da sondaggi, da vanagloria e da un ego che mangia persino più di lui. Non c’è volta in cui apra bocca e non ne spari un’altra. “È sempre stato così”, direte voi, e certo anche prima non era Churchill. Ma ora è proprio divenuto il clone del Poro Asciugamano. Fa una manifestazione il 2 Giugno e la trasforma colpevolmente in un assembramento pericolosissimo. Non solo non chiede scusa, ma i giorni successivi si ripete in Campania, Abruzzo e Marche. Poi non partecipa agli Stati generali, obbedendo a una Meloni che nel frattempo lo sta sabotando senza pietà, e va in Sicilia. Risultato? Fischi, sfottò e assembramenti.
Nei giorni scorsi ha trasformato la testimonianza di Conte, Lamorgese e Speranza sulla mancata zona rossa in Val Seriana (in qualità di persone informate sui fatti) come prova di inequivocabile colpevolezza (“giustizia è fatta”). C’è o ci fa? Entrambe, si presume. E domenica ha pure trovato il tempo di andare dalla D’Urso e dialogare con un aureo simposio composto da Orietta Berti, Eleonoire Casalegno, Riccardo Fogli, Fausto Leali e un tizio anonimo che voleva ingrassare un chilo per ogni grillino morto. Incapace di chiedere scusa, ogni volta che sbaglia o non sa rispondere parte con la solita lista della spesa: i migranti, la cassa integrazione, i figli, il cuore immacolato di Maria. Il poro Salvini è ormai un Tafazzi così sciagurato – più di 10 punti bruciati in 10 mesi, stando ad alcuni sondaggi – da essere detestato anche da buona parte del suo stesso partito. Che punta, non senza ragione, sul più affidabile Zaia. Salvini ricorda oggi uno di quei pugili divelti dal primo Tyson, maciullati sin dal primo round e ridotti a birilli malfermi prima di franare al tappeto. Loro, persi in quella smisurata mattanza, facevano pena. Salvini, neanche quello: solo scherno. Una prece.

I 2 Matteo & C.: i furbi fottuti dalla “nullità”. - Antonio Padellaro

Coronavirus, Conte annuncia tutte le date e le regole delle ...

Venerdì scorso, a proposito di un suo partito, Giuseppe Conte dichiarava al Corriere della Sera che “sarebbe folle dedicare a questi pensieri anche solo una caloria”. Questo in prima pagina perché all’interno l’autorevole quotidiano riferiva di un incontro riservato tra Luigi Di Maio (M5S) e Dario Franceschini (Pd), preoccupati dal nascente partito di Conte (calorie a parte). Che non ci si possa fidare di questo presidente del Consiglio appariva del tutto evidente sulla prima pagina della Stampa di domenica dove si prendeva in seria considerazione la possibilità che, una volta naufragato il partito personale, il premier potesse assumere al guida dei 5 Stelle. Tanto che poche ore dopo Alessandro Di Battista lanciava in tv un avvertimento al caro Giuseppe: “Se vuole la leadership si candidi”.

Ora chi scrive, pur convinto che sia tutta una polemica di panna montata sul nulla, è anche disposto a prendere in considerazione l’altra faccia della medaglia: che cioè Giuseppi non sia altro che un “avvocaticchio traffichino pugliese che si è montato la testa” (da un articolo a caso di Verità, Libero, Giornale, organo unificato della destra), un signor nessuno abituato a “gonfiarsi i curriculum” (Repubblica), e che il governo guidato da costui sia “il peggiore dai tempi di Nerone” (il forzista Antonio Martino). Disposti a prendere in considerazione ulteriori bassezze e nefandezze dell’inqualificabile individuo, prossimamente svelate da un’informazione sempre così attendibile, poniamo agli illustri colleghi un banale interrogativo: ma come diavolo è stato possibile che un personaggio in tal misura improbabile e farlocco sia costantemente in testa nei sondaggi, e di gran lunga, quanto a popolarità? Per quale bizzarro fenomeno della politica, un simile fallimento “privo di un’anima e di una visione” (obiezioni di opinionisti disgustati) se prendesse le redini del movimento grillino lo riporterebbe minimo al 30% dei voti (Pagnoncelli)? Ma soprattutto, cari Salvini, Meloni, Renzi, Calenda, eccetera: come diavolo avete fatto a farvi fottere da una nullità del genere?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/06/16/i-2-matteo-c-i-furbi-fottuti-dalla-nullita/5836249/

“Da Chávez soldi ai 5S”. I tre buchi del dossier. - Valeria Pacelli

“Da Chávez soldi ai 5S”. I tre buchi del dossier

Il caso - Il giornale spagnolo Abc: nel 2010 una valigia con 3,5 milioni a Casaleggio sr. La replica : “Falso”. L’Ambasciata: “La perizia sul documento: ecco cosa non torna”.
C’è l’intestazione, il timbro e poi qualche dubbio riguarda anche la data. Stando ad alcune indiscrezioni raccolte dal Fatto, sono i primi risultati di una perizia disposta dal ministero degli Esteri del Venezuela sul documento che ieri è diventato un caso politico, specie alla luce delle posizioni tenute dai 5Stelle, che non hanno mai appoggiato il tentativo di Juan Guaidò di rovesciare il governo di Maduro.
Stiamo parlando della notizia pubblicata dal giornale di destra spagnolo Abc che ha annunciato di aver visionato documenti secretati dei servizi di Caracas dai quali si evince che nel 2010 il governo dell’allora presidente Hugo Chavez avrebbe finanziato il Movimento 5 Stelle con una valigetta contenente 3,5 milioni di euro. Il denaro sarebbe stato spedito da Nicolas Maduro, oggi alla guida del Paese e al tempo ministro degli Esteri, al console venezuelano di Milano, Giancarlo di Martino. Quest’ultimo a sua volta avrebbe fatto da intermediario con Gianroberto Casaleggio (deceduto nell’aprile del 2016). È la ricostruzione fornita dal giornale spagnolo, che ieri ha ricevuto una raffica di smentite. A cominciare da Davide Casaleggio: “Tutto totalmente falso – ha detto il figlio di Gianroberto –. È una fake news uscita più volte, l’ultima nel 2016. Dalle smentite ora passeremo alle querele”. Anche fonti dell’ambasciata venezuelana a Roma parlano di “un documento falso”. “Ci sono tanti punti incongruenti in una nota che è falsa e contraffatta”, aggiungono. E infatti il ministero degli Esteri ha già disposto una perizia su quel documento.
L’atto segreto, lo “scoop” di Abc
L’atto riporta la data del 5 giugno 2010 ed è classificato come “segreto” dalla direzione generale dell’intelligence militare del Venezuela. Qui si parla dei 3,5 milioni di euro destinati al Movimento 5 Stelle, somma che – spiega il giornale spagnolo – sarebbe stata attinta da fondi riservati amministrati dall’allora ministro dell’Interno (oggi al dicastero dell’Economia), Tareck el Aissami, “che era ed è una delle persone nella cerchia di fiducia di Maduro”, il quale a sua volta avrebbe autorizzato il trasferimento di denaro. Secondo Abc, destinatario di quei presunti fondi neri sarebbe stato Gianroberto Casaleggio, che nel documento viene definito come promotore di un movimento “rivoluzionario di sinistra e anticapitalista nella repubblica italiana”.
I dubbi su intestazione, data e simbolo
Sulla validità di questo documento è in corso una perizia “di parte”. È stata infatti disposta dal ministero degli Esteri venezuelano. Non è ancora conclusa. “Stiamo aspettando l’informazione più approfondita da parte del ministero degli Esteri – spiegano fonti dell’ambasciata venezuelana a Roma –, ma ci hanno già spiegato i risultati di una prima parte della perizia della nota”. Sarebbero dunque quattro i punti “incongruenti” evidenziati da una prima analisi dei periti. A cominciare dall’intestazione.
Il documento pubblicato dal quotidiano spagnolo riporta in alto: “Ministerio de la Defensa”. Secondo fonti dell’ambasciata venezuelana a Roma, questo basta per dimostrare che non si tratta di un atto “interno”: “Abbiamo cambiato i nominativi dei nostri ministeri nel 2007 – spiegano dall’Ambasciata –. Da allora tutti si chiamano ‘ministerio del poder popular’ e così via. In quella nota del 2010, fatta tre anni dopo questa modifica, non c’è il cambio del nominativo del ministero”. Insomma l’intestazione sarebbe dovuta essere “Ministerio del Poder Popular para la Defensa”.
Un altro dubbio riguarda il simbolo dello Stato riportato sul documento. “Il simbolo è stato modificato nel 2006: da allora la testa del cavallo è rivolta verso sinistra. Non corrisponde neanche il timbro, quindi”. Altro aspetto, ma meno rilevante rispetto ai precedenti, spiegano dall’ambasciata, riguarda la dicitura “director general inteligencia militar”: “Anche questa non è esatta”. E poi dei dubbi riguardano la data riportata. “Nelle prossime ore – aggiungono – sapremo di più. Stiamo aspettando l’informazione più approfondita da parte del ministero degli Esteri”. Che nel frattempo, via Twitter, annuncia azioni legali.
Il giornalista: “Tutto vero, ho altre prove”
Ieri ha smentito la ricostruzione riportata da Abc anche il console venezuelano a Milano, Giancarlo Di Martino: “Smentisco totalmente” di aver agito da intermediario per fare arrivare i soldi al M5S, ha detto. “A Madrid c’è la cupola dell’ultradestra fascista venezuelana e credo che il documento sia stato prodotto proprio lì”, ha aggiunto.
Mentre i giornalisti autori del presunto scoop non arretrano. Marcos Garcia Rey, firma dell’articolo, in un’intervista al sito Open ha ribadito: “Non ho dubbi che questa valigetta in contanti sia arrivata in Italia (…) e che Di Martino abbia fatto da intermediario tra il governo di Hugo Chavez e il Movimento 5 Stelle. Ho pubblicato il documento, ma ho altre prove che ciò che vi è scritto sia la verità”.
Adesso, con tutte le querele annunciate, la questione dai giornali potrebbe trasferirsi in tribunale.

Movimento 5Stallo. - Marco Travaglio

non dite a di battista che grillo vuole l'alleanza con il pd in ...
Capire che succede e succederà nei 5Stelle è più difficile che capire cosa vuole il Pd e a cosa serve Salvini. Perché il M5S non è più un movimento e non è ancora un partito. Ha un capo provvisorio poco carismatico e un fondatore carismatico che ogni tanto si ricorda di esserlo e molti aspiranti leader che si ritrovano a essere molto meno popolari del premier che hanno indicato due volte in due anni, ma che non è neppure iscritto. Comunque, quando una forza politica litiga sulle idee e non sulle poltrone, è sempre un buon segno: di vita. E, checché se ne dica, la rissa innescata da Di Battista con la proposta di “congresso o assemblea costituente” non riguarda le poltrone. Il pasionario pentastellato ha tanti difetti, ma non quello di inseguire cadreghe, avendo passato gli ultimi tre anni a scansarle: no alla ricandidatura, no a un ministero nel governo gialloverde e in quello giallorosa. E ora, diversamente da altri (e altre) big che tramano contro il Conte-2 per agguantare o riagguantare un ministero, è diventato più contiano di tanti finti contiani, ben conscio del valore aggiunto che Conte rappresenta per il M5S (vedi sondaggi) e soprattutto dell’orrore di ciò che verrebbe dopo: un governissimo di larghe intese&imprese per arraffare la cascata di miliardi che sta per piovere dall’Ue.
Di Battista però sconta la fama che lo precede: quella di movimentista sfasciacarrozze, creata dai retroscenisti esterni e dai rivali interni, che però lui negli ultimi anni ha fatto troppo poco per smentire. Domenica poi, rispondendo all’Annunziata sull’ipotesi di Conte leader 5Stelle, ha detto un’ovvietà (“Conte prima dovrebbe iscriversi”), ma ha aggiunto: “Si vota e vediamo chi vince”. E questa frase ha mandato su tutte le furie Grillo, che l’ha vista come una sfida a Conte e come la negazione di ciò che il fondatore ripete ai suoi da settimane: la fase del capo politico con pieni poteri è superata, dunque niente conta all’O.k. Corral che destabilizzerebbe il governo e dilanierebbe i 5Stelle; molto meglio una segreteria allargata a tutte le anime, come il direttorio che l’estate scorsa decise con lui la svolta giallorosa. Soluzione a cui lavorano Di Maio, Fico, Taverna e altri. Questa è la posta in gioco, non certo il partito di Conte o la corsa di Di Battista verso la scissione o altre ipotesi fantascientifiche evocate (anzi auspicate) dai media nel fumettone quotidiano su un movimento mai capito né accettato (vedi la bufala dei soldi da Maduro). Grillo ha ragione da vendere col sostegno a Conte e l’allergia al capo politico unico. Ma Dibba non sbaglia quando denuncia l’afasia programmatica e identitaria del M5S, che non è più quello di prima, ma non è mai diventato qualcos’altro.
Ma, per rendersi credibile, il pasionario dovrebbe chiarire di non voler fare il capo politico con corse solitarie e conte fratricide e di essere disponibile a entrare in una segreteria collegiale che progetti il M5S del futuro. L’identità nebulosa non è un problema solo dei 5Stelle. Che cos’è il Pd? Boh. Cosa vuole la Lega, a parte le sparate contro gli immigrati, le tasse, l’Europa e a favore degli evasori? Boh. E FI? Boh. Il Covid ha cambiato il mondo e i partiti balbettano. Tant’è che il premier, stufo di chiedere proposte e di ricevere risme di fogli bianchi, mette su comitati, task force e Stati generali per riempire il vuoto della politica e sfuggire all’accusa di far tutto da solo. I 5Stelle, ambientalisti e legalitari della prima ora, cultori dei “beni comuni” e del “pubblico” contro la privatizzazione del welfare, partono avvantaggiati nella nuova fase. Ma, assorbiti dalla routine di governo e dalle beghe intestine e incapaci di formare una classe dirigente, non se ne accorgono.
La battaglia sul rinnovamento della Rai l’hanno persa perché (a parte rare eccezioni come Salini e Freccero) non avevano nessun soldato autorevole per combatterla, e si sono ridotti a riciclare vecchie banderuole. E la bandiera della discontinuità all’Eni l’hanno ammainata perché, al momento di indicare un successore credibile dell’eterno Descalzi che passasse al vaglio della diplomazia e del Quirinale, non avevano un manager adeguato nel settore energia. Ora altre sfide cruciali arriveranno al dunque e nessuno sa come la pensino su Mes, decreti Sicurezza e nuove grandi opere (alcune utilissime, altre demenziali e criminogene). E alle Regionali di settembre andranno in ordine sparso: ora col Pd (in Liguria e forse nelle Marche), ora contro il Pd (in Campania, e ci mancherebbe: il Pd riciccia De Luca), ma senza una strategia. Che dovrebbe includere le Comunali del 2021: se il centrosinistra vuole davvero un’intesa organica col M5S,dovrebbe piantarla di far la guerra a Raggi e Appendino (peraltro senza uno straccio di candidato spendibile), magari in cambio del sostegno a figure tutt’altro che impresentabili come Emiliano in Puglia e altri buoni amministratori. Tanto alle elezioni politiche, speriamo nel 2023 o comunque il più tardi possibile, l’unico nome utile per battere i cazzari sarà quello di Conte candidato premier della coalizione giallorosa, non quelli dei leader dei partiti. Ce n’è abbastanza perché chi ha la testa sul collo si metta subito intorno a un tavolo, lasci a casa i soliti sospetti, le nostalgie del tempo che fu e i vecchi rancori, sgombri il campo dalle corse solitarie, formi un vertice di 4-5 persone e metta nero su bianco ciò che solo interessa ai cittadini: le nuove cose da fare.

La destra che campa di bugie. - Gaetano Pedullà

MATTEO SALVINI

Se la destra italiana non fosse ridotta alla macchietta di se stessa, incapace di fare altro che non sia propaganda, avrebbe evitato di allungare il palmarès delle sue brutte figure cavalcando la storiella dei soldi gentilmente recapitati ai Cinque Stelle da Maduro. Una balla talmente esagerata da essere stata completamente rimossa dalla memoria generale, visto che era già uscita – senza farci cascare nessuno – diversi anni fa. Fin troppo facile capirne l’assoluta falsità.
Nel 2010 il regime di un Paese già all’epoca alla fame avrebbe regalato milioni a forze politiche appena nate e prive di alcun potere, come il Movimento di un ex comico che strillava nelle piazze, o lo spagnolo Podemos. Una vicenda che nel caso italiano diventa ancora più illogica, a meno che qualcuno sappia spiegare per quale motivo accettare 3,5 milioni in nero e poi rinunciarne a decine attraverso le restituzioni dei contributi pubblici. Più che sospetta anche la fonte che rilancia la fake news, cioè un giornale di destra simile ai gemelli italiani pieni di fesserie, e il momento in cui il presunto documento dei servizi segreti di Caracas – tra l’altro visibilmente contraffatto – viene tirato fuori, proprio mentre la discussione sulla leadership dei pentastellati rischia di frantumare il principale sostegno del Governo.
Nonostante tutto questo, ieri autorevoli esponenti di Lega e Fratelli d’Italia hanno parlato di ombra pesantissima (ma da quando le ombre pesano?) sui 5S, chiamandoli a giustificarsi di una fandonia su cui dal reggente Crimi a Casaleggio Jr hanno immediatamente annunciato querele. Strana mossa da parte di chi non ha voluto rispondere nemmeno al Parlamento sull’oro di Mosca alla Lega, con le registrazioni vocali – quindi qualcosina in più di un documento realizzato col photoshop – di quella che sembra una trattativa segreta per finanziare il Carroccio attraverso una fornitura petrolifera.
Ora però l’ufficio pubblicità di Salvini & C. ha un argomento per insinuare il sospetto e accostare i Cinque Stelle ai partiti tradizionali, di destra come di sinistra, che le mazzette – quelle vere, mica quelle inventate in Venezuela – non hanno mai smesso di prenderle. Per i loro elettori di bocca buona basta e avanza.