venerdì 12 ottobre 2012

Allarme del Giurista Rodotà: Può un Parlamento di non eletti mettere mani in modo così incisivo sulla Costituzione?



UNA FASE COSTITUENTE PIU’ DEMOCRATICA. - Stefano Rodotà



Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di guardare oltre l’emergenza. È stato modificato l’articolo 81 della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio. Un decreto legge dell’agosto dell’anno scorso e uno del gennaio di quest’anno hanno messo tra parentesi l’articolo 41. E ora il Senato discute una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo, ruolo del Presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona “manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all’emergenza così perentori che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia.
In tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti. Proprio perché s’invocano condivisione e coesione, non si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da chiudere negli spazi ristretti d’una commissione del Senato, senza che i partiti presenti in Parlamento promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata.
Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes. L’orrore del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei principi costituzionali.
La Costituzione contro se stessa? Per mettere qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto rivolte di piazza, ma l’uso accorto degli strumenti della democrazia. Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di esprimere la loro opinione con un referendum. Il saggio invito non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d’occhio invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate oggi le norme costituzionali.
Privati della possibilità di usare il referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere le firme per una legge d’iniziativa popolare che preveda l’obbligo di introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all’istruzione, alla salute, com’è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero almeno ritrovare la parola.
L’altro fatto compiuto riguarda la riforma costituzionale strisciante dell’articolo 41. Nei due decreti citati, il principio costituzionale diviene solo quello dell’iniziativa economica privata, ricostruito unicamente intorno alla concorrenza, degradando a meri limiti quelli che, invece, sono principi davvero fondativi, che in quell’articolo si chiamano sicurezza, libertà, dignità umana. Un rovesciamento inammissibile, che sovverte la logica costituzionale, incide direttamente su principi e diritti fondamentali, sì che sorprende che in Parlamento nessuno si sia preoccupato di chiedere che dai decreti scomparissero norme così pericolose. È con questi spiriti che si vuol giungere a un intervento assai drastico, come quello in discussione al Senato. Ne conosciamo i punti essenziali. Riduzione del numero dei parlamentari, modifiche riguardanti l’età per il voto e per l’elezione al Senato, correttivi al bicameralismo per quanto riguarda l’approvazione delle leggi, rafforzamento del Presidente del Consiglio, poteri del governo nel procedimento legislativo, introduzione della sfiducia costruttiva. Un “pacchetto” che desta molte preoccupazioni politiche e tecniche e che, proprio per questa ragione, esigerebbe discussione aperta e tempi adeguati. Su questo punto sono tornati a richiamare l’attenzione studiosi autorevoli come Valerio Onida, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti, e Gaetano Azzariti, e un documento di Libertà e Giustizia, che hanno pure sollevato alcune ineludibili questioni generali.
Può un Parlamento non di eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sulla Costituzione?
Può l’obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza essere affidato a una operazione frettolosa e ambigua? Può essere riproposta la linea seguita per la modifica dell’articolo 81, arrivando a una votazione con la maggioranza dei due terzi che escluderebbe la possibilità di un intervento dei cittadini? Quest’ultima non è una pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il referendum del 2006, dissero “no” alla riforma berlusconiana. A questi interrogativi non si può sfuggire, anche perché mettono in evidenza il rischio grandissimo di appiattire una modifica costituzionale, che sempre dovrebbe frequentare la dimensione del futuro, su esigenze e convenienze del brevissimo periodo.
Le riforme costituzionali devono unire e non dividere, esigono legittimazione forte di chi le fa e consenso diffuso dei cittadini. Considerando più da vicino il testo in discussione al Senato, si nota subito che esso muove da premesse assai contestabili, come la debolezza del Presidente del Consiglio. Elude la questione vera del bicameralismo, concentrandosi su farraginose procedure di distinzione e condivisione dei poteri delle Camere, invece di differenziare il ruolo del Senato. Propone un intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere che, da una parte, attribuisce a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e, dall’altra, ridimensiona il ruolo del Presidente della Repubblica. Aumenta oltre il giusto il potere del governo nel procedimento legislativo, ignorando del tutto l’ormai ineludibile rafforzamento delle leggi d’iniziativa popolare. Trascura la questione capitale dell’equilibrio tra i poteri.
Tutte questioni di cui bisogna discutere, e che nei contributi degli studiosi prima ricordati trovano ulteriori approfondimenti. Ricordando, però, anche un altro problema. Si continua a dire che le riforme attuate o in corso non toccano la prima parte della Costituzione, quella dei principi. Non è vero. Con la modifica dell’articolo 81, con la “rilettura” dell’articolo 41, con l’indebolimento della garanzia della legge derivante dal ridimensionamento del ruolo del Parlamento, sono proprio quei principi ad essere abbandonati o messi in discussione.

Lombardia, Rosi Mauro: esistono già accordi Pdl-Lega per elezioni.

Lombardia, Rosi Mauro: esistono già accordi Pdl-Lega per elezioni


La senatrice ex dirigente leghista: Maroni non ha mai avuto intenzione di mollare Formigoni.


Milano, 12 ott. (TMNews) - "Maroni non ha mai avuto alcuna intenzione di mollare Formigoni". Lo ha detto, in un'intervista a Radio Popolare, l'ex dirigente leghista e leader del sindacato padano Rosi Mauro, secondo cui "ci sono già accordi tra il Pdl e la Lega per le prossime elezioni, sia a livello nazionale, sia per quanto riguarda le regioni del nord". "La nuova Lega Nord che doveva nascere all'insegna di una grande pulizia, è invece nata sulla sporcizia e rimane ancorata a quella sporcizia", ha detto Rosy Mauro, oggi senatrice del Gruppo Misto, commentando la decisione di Roberto Maroni di non abbandonare la giunta regionale lombarda. Rosi Mauro ha proseguito: "Roberto Maroni più volte si è presentato davanti ai militanti con una ramazza, usata come simbolo della sua volontà di fare pulizia dentro e fuori il partito. E'stata usata per finta, per gettare fumo negli occhi, per mantenere lo sporco dentro e fuori il partito". L'ex braccio destro di Umberto Bossi ha commentato anche la possibile posizione del fondatore della Lega rispetto alle scelte fatte in Lombardia: "Non so se Bossi direbbe apertamente di non condividere quello che sta facendo ora Maroni con la Regione Lombardia". Nell'intervista, Rosi Mauro ha poi detto: "Di quella sera, della sera delle dimissioni di Bossi non dimenticherò mai le immagini e le parole di Roberto Maroni. Le prime, lui con la ramazza in mano, e le seconde, quando prometteva di non volere più fare accordi con Silvio Berlusconi. Purtroppo, io di pulizie in casa Lega non ne ho viste. Io non mi sono piegata a un uomo che non ho mai considerato un capo - ha rincarato Mauro - perché come gli ho detto apertamente in faccia, Roberto Maroni sarà un eterno secondo e non sarà mai in grado di guidare una Lega come era quel partito quando era la vera Lega". 

http://notizie.virgilio.it/generated/topten/2012/10_ottobre/12/lombardia-rosi-mauro-esistono-gia-accordi-pdl-lega-per-elezioni.html

Trattativa, i pm depositano memoria difensiva: “Immunità è solo per il re”.


Trattativa, i pm depositano memoria difensiva: “Immunità è solo per il re”


La procura di Palermo deposita la costituzione in giudizio di fronte alla Consulta per il conflitto di attribuzione sollevato dal presidente della Repubblica. Dagli atti emerge che le telefonate - quattro in tutto su 9295 telefonate di Mancino captate - non sono mai state trascritte nei brogliacci della polizia giudiziaria. "L'immunità assoluta contraddice i principi democratico-costituzionali".

Se immune da ogni responsabilità il Capo dello Stato diventa un sovrano. E’ questa la tesi sostenuta dalla procura di Palermo nel costituzione in giudizio presentata questa mattina di fronte ai giudici della Consulta nel conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato. “Un’immunità assoluta” – si legge nel testo – può essere ipotizzata per il Capo dello Stato “solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irreponsabilità giuridica anche per i reati extrafunzionali”. E una tale “irresponsabilità finirebbe per coincidere con la qualifica di ‘inviolabile’ che caratterizza il Sovrano nelle monarchie ancorché limitate”. 
Come effetto, scrivono i magistrati di Palermo, una “vistosa serie di gravi conseguenze” potrebbe derivare da una “eventuale decisione di accoglimento” del ricorso del Quirinale. “Ci si deve chiedere – prosegue il testo – se una garanzia dell’immunità presidenziale – si legge nel documento firmato dai professori Pace, Serges e Serio – così irrazionalmente dilatata al di là dei limiti segnati per le intercettazioni legittime” da altre sentenze della Corte (n.390/2007; n.113 e n.114 del 2010) “non finisca per costituire una violazione dell’obbligatorietà dell’azione penale” (articolo 112 Costituzione) e “ciò per motivi privi di fondamento in Costituzione ed anzi contrari alla giurisprudenza di codesta Corte e tutt’affatto irrazionali”. 
Intanto, sempre leggendo la memoria della procura di Palermo – un documento di 32 pagine - si scopre che sono quattro le telefonate intercettate tra Nicola Mancino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quattro su un totale di 9.295 conversazioni captate sulle utenze dell’ex ministro dell’Interno. 
E’ stata la stessa Corte Costituzionale, nell’ordinanza con cui ha ammesso il ricorso di Napolitano, a richiedere alla Procura di Palermo quante siano state le conversazioni di Napolitano indirettamente captate e in che date sono avvenute. Gli atti depositati dalla Procura di Palermo riferiscono che le telefonate effettuate da Mancino sono state registrate in un arco di tempo che complessivamente va dal 7 novembre 2011 al 9 maggio 2012: sei le utenze messe sotto controllo. Le quattro telefonate al Capo dello Stato, indirettamente intercettate, sono state effettuate da Mancino nelle seguenti date: il 24 dicembre 2011 alle ore 9.40 (durata 3 minuti): il 31 dicembre 2011 alle ore 8.48 (durata 6 minuti); il 13 gennaio 2012 alle ore 12.52 (durata 4 minuti); il 6 febbraio 2012 alle ore 11.12 (durata 5 minuti).
Scrivono i pm nella costituzione in giudizio che “l’intercettazione della conversazione del Presidente della Repubblica che sia occasionale, del tutto involontaria, non evitabile e non prevenibile, non può per la ragione di tali caratteristiche, integrare in sè alcuna lesione di prerogative previdenziali quali che sia il contenuto della conversazione”.
Aggiungono inoltre i magistrati che Il verbale della polizia giudiziaria relativo alle intercettazioni indirette del Capo dello Stato è stato redatto “senza l’indicazione del contenuto della conversazione”. Era stata la stessa Corte Costituzionale a chiedere il verbale, il cosiddetto “brogliaccio”, delle intercettazioni. Si legge nella memoria che non è stato effettuato, “anche su disposizione della Procura della Repubblica di Palermo, alcuna trascrizione delle conversazioni tra il sen. Mancino e il Presidente della Repubblica le cui registrazioni sono tuttora custodite dalla Procura della Repubblica nell’ambito del procedimento 11609/08 nel quale sono state disposte ed eseguite. Deve quindi essere sottolineato – si legge ancora negli atti depositati oggi in Corte Costituzionale – che le conversazioni con il Presidente della Repubblica non hanno mai formato oggetto di deposito che determinasse la possibilità della conoscenza ad opera di qualsivoglia parte processuale”.

Campania, indagine su 38 assunti all’Astir “a loro insaputa”. - Vincenzo Iurillo


'Sono stato assunto a mia insaputa' Napoli, inchiesta su lavoro e politica

L’inchiesta della Procura di Napoli sulle assunzioni compiute dalla spa pubblica che si occupa di bonifiche due giorni prima delle elezioni regionali del 2010. Contratti biennali, rescissi in anticipo dalla giunta Caldoro. Dai verbali storie di colloqui mai avvenuti. Indagato ex assessore della giunta Bassolino.

Assunti a loro insaputa. Senza aver sostenuto un colloquio. Senza ricordare di aver presentato domanda. Un paio di indagati hanno farfugliato risposte di questo tenore alle domande degli inquirenti. Il posto di lavoro come la vincita di una lotteria senza nemmeno procurarsi il biglietto. Inverosimile? E’ agli atti di un’inchiesta sulle assunzioni a chiamata diretta in un carrozzone nato con la giunta di Antonio Bassolino, l’Astir spa, società a capitale interamente pubblico della Regione Campania che si occupa di bonifiche ambientali. La segue il pm di Napoli Giancarlo Novelli, il magistrato che sta facendo le pulci alle spese senza rendiconto del consiglio regionale della Campania.
Le indagini si focalizzano su 38 contratti a tempo determinato biennale (la giunta Caldoro li interromperà nel luglio 2011, con un anno di anticipo). Contratti deliberati violando il patto di stabilità della Regione e avviati due giorni prima delle elezioni del 2010. Circostanza che non appare una coincidenza, se associata al fatto che l’assessore regionale che coprì politicamente l’operazione, Corrado Gabriele, è risultato tra i primi eletti in consiglio nel Pd, partito in cui era appena confluito dopo una decennale militanza in Rifondazione Comunista. Non sono formalizzate accuse di voto di scambio, ma Gabriele è indagato per abuso d’ufficio insieme ai beneficiari delle assunzioni e all’ex amministratore unico della spa, Domenico Semplice, per cinque anni sindaco Ds di Caivano (Napoli), per una vicenda che è uno spaccato illuminante di come si dispensano posti di lavoro nelle aziende controllate dalla politica e foraggiate coi soldi nostri.
Appunto. Come si arrivava a lavorare per l’Astir? Concorso? Procedura ad evidenza pubblica? Nulla di tutto questo, secondo le indagini della Procura che ha contestato un reato grave, la violazione del principio costituzionale di imparzialità e trasparenza dell’attività della Pubblica amministrazione. Indovinare il momento in cui l’Astir aveva bisogno di personale era un segreto accessibile – pare – solo agli smanettoni del computer o a qualche fortunato di cui parleremo in seguito. Convocati nel settembre 2011 davanti a un ufficiale dei carabinieri per spiegare in che modo avevano appreso che l’azienda pubblica assumeva, gli assunti dell’infornata pre-elettorale hanno detto quasi tutti la stessa cosa: avrebbero letto un annuncio sul sito Internet dell’Astir (cosa ben diversa da un bando pubblico) e inviato un curriculum. Poi hanno ricevuto il telegramma di convocazione, hanno fatto un corso di formazione in un palazzone del quartiere di Poggioreale, e alla fine si sono infilati una tuta blu e sono andati in giro per cantieri e strade statali per effettuare lavori di ripulitura e di bonifica. Qualcuno ha fatto un colloquio, qualcun altro no. Sono persone dalle storie più disparate: operai edili, cuochi, idraulici, un geometra che ha appena chiuso lo studio “perché le cose non andavano bene”, bidelli, segretari di scuole private in difficoltà. Quasi tutti senza competenze specifiche nel settore ambientale, ma che hanno bisogno di uno stipendio e si industriano per ottenere un posto qualsiasi per arrivare a fine mese. Uno di loro dice di aver saputo che l’Astir cercava personale perché glielo avevano detto alcuni dipendenti che si erano fermati a bere un caffè al bar che frequentava. Un altro ha sul groppone una condanna di quattro mesi: faceva parte di una lista di disoccupati organizzati che per protesta aveva occupato gli uffici dell’assessore Gabriele, titolare della delega al Lavoro. Viene assunto anche lui nonostante l’Astir richiedesse tra la documentazione necessaria il certificato penale e dei carichi pendenti.
La musica cambia negli interrogatori dell’ottobre successivo. Per i quali si fanno vivi i pm titolari di alcune inchieste parallele confluite poi nel fascicolo di Novelli. Viene sentito il figlio di un ex consigliere provinciale. Dice di non ricordarsi in che modo ha saputo che l’Astir assumeva. Ha dimenticato di aver sottoscritto la scheda-colloquio, rinvenuta dagli inquirenti in una precedente perquisizione degli uffici della società, che dovrebbe essere l’unica traccia di una presunta ‘selezione’. In sostanza l’uomo non sa spiegare il percorso tramite il quale si è ritrovato a lavorare con una busta paga di circa 1500 euro al mese. Una canzone simile a quella cantata dal cugino di un importante sindacalista. Tutto il contrario dell’intraprendenza rivelata a verbale da una signora abbastanza famosa negli ambienti politici napoletani per avere sconfitto in una tornata elettorale interna al Pd Bassolino in persona.
La signora dice subito di essere una militante democratica e di aver chiesto in giro ad amici e compagni di partito di segnalarle opportunità di impiego. Quando ha saputo che l’Astir stava avviando procedure di stabilizzazione degli ex lsu, si è fatta avanti: “In questi casi c’è bisogno anche di personale amministrativo, ho pensato”. Ma mette le mani avanti, giura che nessuno l’ha raccomandata, e che anzi Semplice, pur conoscendola da anni e presenziando al colloquio, l’aveva invitata a cercare un posto altrove. In ogni caso, viene assunta anche lei. Per modo di dire, perché i contratti dovevano durare due anni e invece verranno interrotti a metà per iniziativa del Governatore Caldoro, preoccupato per lo sforamento dei conti, stroncando sul nascere le speranze dei 38 dipendenti che speravano di entrare nel circuito dei rinnovi che è il preludio della stabilizzazione a tempo indeterminato.
Era accaduto in passato e poteva accadere in futuro. La delibera di Caldoro fu accompagnata da numerose polemiche e spaccò il Pd tra favorevoli e contrari. Il capogruppo Peppe Russo, schierato coi primi, ha denunciato di aver ricevuto minacce. E’ stato sentito come testimone nell’ambito dell’inchiesta di Novelli. Nel fascicolo c’è una sua intervista a Il Mattino in cui reputa giusti i tagli. C’è pure un comunicato del maggio 2010 di un assessore regionale del nuovo corso, Marcello Taglialatela. L’esponente del Pdl parla espressamente di “clientele”: “Tali assunzioni, perfezionate nei giorni immediatamente successivi alle elezioni regionali alle quali concorreva lo stesso assessore Gabriele, ma il cui iter era stato certamente avviato in data antecedente alla tornata elettorale, appaiono potenzialmente ispirate dalla volontà dello stesso assessore di conseguire un vantaggio in termini elettorali”. Gabriele lo ha querelato. Ma sotto inchiesta è finito lui.

Culture in Decline | Episodio #1 (Doppiato in italiano)



In questo primo episodio della serie "Culture in decline" si affronta il tema della percezione della democrazia nel mondo d'oggi, in occasione delle elezioni presidenziali 2012 negli Stati Uniti.


Versione italiana realizzata dal Movimento Zeitgeist Italia.
Traduzione: Nino Aloi

‘Ndrangheta a Reggio Calabria, Alfano: “Sbagliato sciogliere il Comune”


‘Ndrangheta a Reggio Calabria, Alfano: “Sbagliato sciogliere il Comune”


Mentre il sindaco Arena difende in conferenza stampa il suo operato, scoppia la polemica tra Pdl, Pd e governo sullo scioglimento del capoluogo calabro.Gasparri e La Russa: "Decisione penalizzante". Garavini: "Sconcertanti affermazioni". Napolitano intanto firma il decreto.

Mentre a Reggio Calabria il sindaco Demetrio Arenacommissariato dal ministro Anna Maria Cancellieri due giorni fa, difendeva le ragioni della sua amministrazione in una fluviale conferenza stampa di quasi tre ore, sul caso Reggio è scoppiata una polemica a livello nazionale tra Pdl, governo e Pd.
Ad aprire le danze è il segretario del Pdl Angelino Alfano che senza mezzi termini parla dello scioglimento come di un atto che “penalizza e condanna un’intera comunità e non rafforza la presenza dello Stato”. Concetti ripresi dal presidente dei senatori Pdl, Maurizio Gasparri, che dice di “non condividere le decisioni del governo” e dal coordinatore del Pdl Ignazio La Russa che condivide “totalmente la dichiarazione di Alfano”.
La risposta del Pd è affidata al capogruppo in commissione Antimafia, Laura Garavini, secondo la quale “lo scioglimento farà ripartire la città, anzi ne è condizione fondamentale”, ed al responsabile Giustizia Andrea Orlando che si dice sconcertato da Alfano perché il Cdm “interviene solo quando sono emersi elementi fondati e riscontrabili”.
Mentre a Roma prende corpo la polemica, a Reggio Arena si presenta ai giornalisti per dire che lui non è la genesi della ‘ndrangheta e che lo scioglimento del Comune non è il percorso adatto per combattere la criminalità. Proprio non vuole, Arena, vedersi cucita addosso l’etichetta di guida di un’amministrazione collusa con le cosche. E per spiegare i suoi perché convoca la stampa in una delle sale del Consiglio regionale, lontano da palazzo San Giorgio, dove lunedì arriveranno i tre commissari inviati dalla Cancellieri. In realtà più che una conferenza stampa è un convegno. La sala “Nicolas Green” è gremita, ma non solo di telecamere e giornalisti. Ci sono tantissimi politici, con in testa il governatore Giuseppe Scopelliti, che di Reggio è stato sindaco sino a due anni fa, semplici cittadini ed amministratori regionali e comunali. Tra i politici cittadini presenti c’è anche l’assessore ai lavori pubblici Morisani in cui nome figura nelle carte della commissione d’accesso che hanno portato allo scioglimento.
Per ora Arena sembra anche escludere il ricorso al Tar: “Non mi appassiona l’idea di fare ricorso”. Quindi il saluto, l’applauso dei suoi e l’abbraccio con Scopelliti che prima di andarsene dice che “è stato perfetto ciò che ha detto il sindaco”.
Intanto in serata si è appreso che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha firmato il decreto di scioglimento del Comune. Il provvedimento sarà notificato nei prossimi giorni ai commissari prefettizi e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.

Studenti, proteste davanti al Pirellone Fumogeni e lancio di uova a Torino.


La proteste “Bastoni e carote” a Torino

Studenti e professori in piazza in 90 città per “difendere il proprio futuro”. A Roma blitz contro la sede dell’Unione Europea.


ROMA
Gli studenti italiani in piazza in 90 città italiane per “difendere il proprio futuro”. La giornata di mobilitazione nazionale del 12 ottobre, precisa un comunicato della rete della Conoscenza “è stata lanciata dall’Unione degli studenti quest’estate, per manifestare contro la svendita della scuola pubblica e la distruzione dell’università, ha avuto una grande diffusione e preannuncia l’apertura di un autunno di mobilitazione intenso”.  

Torino gli studenti hanno lanciato carote contro la sede del Miur e lungo il percorso. Il gesto è simbolico: «il ministro Profumo - spiegano - ha detto che con gli studenti si devono usare il bastone e la carota. L’ultima volta con noi è stato usato il bastone, oggi noi rispondiamo con le carote». Il riferimento è ai tafferugli con la polizia di una settimana fa. Gli studenti torinesi hanno poi raggiunto la sede della provincia, dove hanno srotolato nastro da cantiere tra le colonne dell’edificio. Alcuni studenti hanno poi acceso due lacrimogeni e hanno lanciato uova contro Palazzo Cisterna.  

Milano un gruppo di una trentina di studenti si è staccato dal corteo e ha raggiunto Palazzo Lombardia, sede della Giunta regionale, per protestare: sono state strappate le bandiere della regione esposte e sono stati lanciati fumogeni. In seguito, anche il resto del corteo ha raggiunto il Pirellone. Tra i ragazzi si è levato il grido di «dimissioni», rivolto al governatore Roberto Formigoni e all’assessore lombardo all’Istruzione Valentina Aprea. 

Nonostante la pioggia battente, a Roma gli studenti si sono radunati di fronte alla sede locale del Parlamento Europeo. Durante il successivo corteo, gli studenti hanno strappato le bandiere dell’Unione. Il corteo romano è partito da piazza della Repubblica per raggiungere piazza dell’Esquilino, dove ad attenderli i docenti della Cgil scuola. Al loro ingresso nella piazza sono stati accolti da un lungo applauso dei professori. Secondo gli organizzatori, gli studenti che hanno aderito al corteo sono almeno 10mila. 

Bari il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, insieme all’assessore allo Studio Alba Sasso, sta ricevendo una delegazione di studenti medi e universitari in rappresentanza del corteo conclusosi proprio nei pressi della presidenza della giunta regionale. Nella piattaforma rivendicativa verso la Regione ci sono i finanziamenti alla Legge Regionale per il diritto allo studio delle scuole superiori e la copertura totale delle borse di studio  

In centro a Genova i cortei in corso sono due. Insegnanti e personale amministrativo marciano verso largo Pertini, dove è prevista la manifestazione conclusiva. Il corteo degli studenti è invece stazionato per una ventina di minuti davanti alla fiera, dove si svolge il salone nautico. A Firenze invece studenti e personale docente hanno sfilato insieme. Circa 2mila manifestanti hanno organizzato un cordone umano che da piazza della Signoria si è snodato fino a via Martelli, concentrandosi davanti al liceo Galileo dove nei giorni scorsi è crollato un controsoffitto. 

Sono state organizzati cortei in 90 città italiane, lungo tutto lo stivale. Gli studenti contestano soprattutto il Pdl 953 che elimina le rappresentanze studentesche dai consigli d’istituto. Luca Spadon portavoce nazionale di Link Coordinamento universitario , ha dichiarato: «Sul nostro striscione questa mattina c’è scritto “Una scuola di qualità ce la chiede l’Europa”, finora governo e politici hanno tirato fuori la bandiera del “ce lo chiede l’Europa” solo quando si tratta di sacrifici economici, in modo strumentale e volendo negare un’altra idea di Europa: la nostra! L’Europa ci chiede anche di ridurre gli abbandoni scolastici del 10%, di aumentare il numero dei laureati, di raggiungere il traguardo dell’85% dei 22enni diplomati, l’Europa ci chiede una sistema d’Istruzione di qualità!». “Oggi in piazza sono presenti anche molti studenti universitari - precisa Spadon - per dimostrare a questo governo che gli studenti non sono disponibili a fare dei passi indietro sui temi della conoscenza e per ribadire con forza la nostra contrarietà all’aumento delle tasse per i fuori corso voluta dal ministro Profumo e alla diminuzione dei fondi sul diritto allo studio, provvedimenti drammatici questi che non permetteranno a tanti giovani di iscriversi all’università”. 

Nobel Ue, un assurdo premio per i "gatti grassi". - Mario Giordano



Chissà che ne pensano i disoccupati greci, o giovani precari italiani?

 

Dare il premio Nobel per la pace all’Unione europea è un po’ come dare il premio Oscar per la miglior interpretazione a un carciofo bollito. Di tante assurdità cui la giuria di Oslo ci aveva abituato nel tempo, questa è la più incredibile: sono mesi che diciamo che l’Europa non esiste e che i guai che ci sommergono sono provocati proprio da un continente burocratico e cavilloso, che strapaga i suoi dirigenti per occuparsi delle curvature delle banane, mentre lascia i cittadini a morire di fame. E mai come in questi mesi l’inefficienza disastrosa di Bruxelles ha minacciato la pace nel continente, portando la gente in strada da Atene a Madrid, esasperando gli animi, provocando incidenti e scontri.
Chi glielo dice, adesso, ai disoccupati della Grecia che l’Ue ha vinto il Nobel per la pace? Chi glielo dice ai giovani italiani che non trovano più un lavoro nemmeno a pagarlo? Chi glielo dice agli imprenditori spagnoli che falliscono a catena? La mancanza di una politica comune, cioè la mancanza di una vera Unione Europea, è la causa di tutti questi guai. Come si fa a dare un premio a tutto ciò? Dicono: è un segnale d’incoraggiamento. Ma ciò poteva valere per Obama, premiato ancor prima di essere eletto, senza che avesse combinato nulla né nel bene né nel male. Non per l’Unione europea, che di bene ha combinato poco. E di male, invece, un sacco.
Diciamocela tutta: questa è una struttura elefantiaca che non è mai stata in grado di garantire nulla per i suoi cittadini, ma solo per i suoi burocrati. I 44mila dipendenti di Bruxelles sono stati ribattezzati, da una celebre inchiesta di una tv inglese, i “gatti grassi”: mentre le famiglie europee tagliavano i loro bilanci, loro scendevano in piazza per difendere i loro stipendi d’oro (un usciere guadagna tra i 4 e i 6 mila euro netti al mese, un archivista arriva a 9mila euro, un dirigente supera come niente i 16mila).

Solo per gli ex dipendenti nel 2013 spenderemo 1.473 milioni di euro cioè il 34 per cento in più rispetto al 2008. Nel 2010 nel pieno della crisi economica ebbero il coraggio di stanziare un aumento (1500 euro in più al mese) per i portaborse dei deputati. E nello stesso anno furono spesi 2,6 milioni per un nuovo centro visitatori e 2 milioni per una nuova palestra degli eurodeputati, con tanto di fitness e sala per fisioterapia (motto: coccolatevi un po’, come se non lo facessero abbastanza).
Ora questo continente di gatti grassi, di spese folli, di sale fitness e palazzi d’oro, di norme inutili sulla dimensione dei piselli (ortaggi) e sulla gibbosità delle melanzane, questo coacervo di direttive sciocche che pochi giorni fa discuteva sulla necessità di introdurre l’obbligo di catene da neve anche a Lampedusa e Pantelleria, ebbene, questo continente vince il nobel della pace. E a noi, chissà perché, viene una gran voglia di dichiarargli guerra.