sabato 27 febbraio 2010

Gli amici di Letta non si toccano, vanno solo fatti lavorare - Marco Lillo



26 febbraio 2010
Per capire cosa accade a chi si mette contro il sistema che fa perno su Gianni Letta bisogna guardare con attenzione il documento qui sotto (clicca sull'immagine per ingrandire). È una lettera su carta intestata della Prefettura di Genova che risale al 2006 e fu consegnata da Gianni Letta al professor Leonardo Santi, presidente del comitato biosicurezza di Palazzo Chigi. Vi si legge: “ritengo opportuno segnalarle che la professoressa Isabella De Martini da qualche mese ha assunto un incarico presso la Presidenza del Consiglio”. Nella lettera Fabrizia Triolo, un alto dirigente della Prefettura segnala uno sconcio, la presenza di un simile soggetto in cotanto ufficio diretto da Gianni Letta, e per provare l’anomalia che segnala, allega una pagina di un libro di Bruno Vespa (“La scossa”) nel quale la professoressa faceva una pessima figura in riferimento al suo comportamento al G8 di Genova. Ebbene, quella lettera, che stava per costare il posto a una professoressa universitaria, era un falso colossale basato su una diffamazione. La Prefettura di Genova non ha mai scritto nulla del genere. Non solo. Il Tribunale ha sentenziato che Bruno Vespa per quella pagina diffamatoria deve pagare 10 mila euro alla professoressa. Eppure Gianni Letta ha consegnato la lettera falsa e lo scritto diffamatorio a un suo dirigente accreditando una manovra spregevole contro una persona innocente. Si potrebbe archiviare la vicenda come un’imperdonabile leggerezza di un uomo solitamente accortissimo. Ma prima ci sono alcune cose che vanno ricordate.

La vittima della lettera nel 2001 aveva osato mettersi contro un’amica di Gianni Letta: Maria Criscuolo, la zarina del catering degli eventi governativi. Il suo gruppo, Triumph, fattura 20 milioni ogni anno grazie anche agli uffici diretti da Letta. E la Triumph gira poi parte dei servizi di catering alla Rlj di Stefano Ottaviani, genero proprio di Gianni Letta. Triumph e Ottaviani, come scrive L’espresso, hanno ricevuto un milione di euro a testa per il G8 di L’Aquila e già nel 2007 un funzionario aveva previsto per iscritto l’appalto alla Triumph. Anche nel precedente G8 di Genova, nel 2001, tutti sapevano che avrebbe vinto Maria Criscuolo e infatti Triumph ottenne l’appalto per l’ospitalità delle delegazioni senza gara.

Nelle comunicazioni della struttura si prescriveva di non far figurare il suo nome. La professoressa De Martini provò a fare una gara e si oppose ma fu spedita a Roma. Presentò un esposto in Procura dove la vicenda fu archiviata con la solita motivazione che le leggi speciali permettono di saltare le gare. Poi la competenza passò alla Protezione civile di
Bertolaso e Triumph prese il volo: per il solo vertice Berlusconi-Putin nel 2003 ottenne 7 milioni di euro, dei quali 414 mila andarono per il catering alla Rlj del genero di Letta. Isabella De Martini cominciò a capire di avere toccato un potere forte quando Bruno Vespa le dedicò un passaggio velenoso nel libro “La scossa” facendole fare una pessima figura per gli eventi del G8. Ma è nell’aprile del 2006 che accade l’incredibile.

De Martini prima riceve una busta su carta intestata della Camera dei deputati con all’interno una bambola con uno spillone conficcato nel cuore. E poi il suo capo, Leonardo Santi, le confida di avere ricevuto da Gianni Letta una lettera della prefettura di Genova che la mette in cattiva luce. Quando lo scopre, il suo compagno di allora, il generale della guardia di finanza Castore
Palmerini, chiede a Santi una copia. Bastano due telefonate per verificare il falso, partono le denunce e la Digos indaga senza cavare un ragno dal buco. Chissà chi ha consegnato la lettera falsa a Letta. Una cosa è certa: Santi avrebbe potuto cacciare la professoressa e lei non avrebbe mai saputo perché.

da
il Fatto Quotidiano del 26 febbraio


Mister B. "incassa" - P. Gomez e M. Travaglio


Grazie a tre leggi ad personam evita la galera. La condanna di Mills lo avrebbe coinvolto.

Senza tre leggi ad personam, fatte apposta per lui e per Cesare Previti, ieri Silvio Berlusconi sarebbe stato prelevato dalle forze dell’ordine e accompagnato a San Vittore per scontare la pena dopo la condanna definitiva per corruzione giudiziaria di David Mills. Stessa sorte sarebbe toccata, con le opportune procedure di estradizione, per il legale (si fa per dire) inglese. E’ questa – checché ne dicano i tg e i giornali di regime – la traduzione in italiano della sentenza della Cassazione che l’altroieri ha confermato irrevocabilmente la colpevolezza di Mills per essere stato corrotto da Berlusconi con 600 mila dollari in cambio di due false testimonianze nei processi All Iberian e Guardia di finanza, e dichiarando il reato prescritto da un paio di mesi. Basta riavvolgere il nastro del processo per immaginarne l’esito finale e definitivo, al netto della legge ex Cirielli (2005), dell’indulto extra-large (2006) e del “lodo” Alfano (2008).

Nel 2004 la Procura di Milano scopre, da una lettera di Mills al suo commercialista, che il legale è stato ricompensato con 600 mila dollari da “Mr.B.” per le sue testimonianze reticenti. Il 26 novembre 2005 Mr.B. fa approvare in tutta fretta l’ex Cirielli, che taglia la prescrizione per gli incensurati (cioè anche per lui e per Mills): quella per la corruzione giudiziaria scende da 15 a 10 anni. E, siccome la tangente a Mills risale al 1999-2000, il reato si prescriverà non più nel 2014-2015, ma nel 2009-2010. Nell’ex Cirielli c’è anche una norma che tutti definiscono salva-Previti, ma è anche salva-Berlusconi: quella che consente agli ultrasettantenni di scontare la pena agli arresti domiciliari. Norma approvata quando Previti ha 71 anni e Berlusconi 69. Nel 2006 la Procura di Milano chiede e ottiene il rinvio a giudizio di Berlusconi e Mills.
L’Unione vince le elezioni e, come primo atto in materia di giustizia, pensa bene di varare l’indulto più ampio della storia d’Italia, con la scusa del sovraffollamento delle carceri.

Nessuno dei trenta provvedimenti di clemenza varati in 50 anni di storia repubblicana includeva la corruzione. Il buonsenso consiglierebbe di escluderla anche stavolta, anche perché in carcere non c’è nessuno che sconti la pena per quel delitto. Ma il
diktat di Forza Italia è chiaro: o si include la corruzione (anche giudiziaria) o niente. Altrimenti Previti, condannato a 6 anni per corruzione giudiziaria nel processo Imi-Sir e a 1 anno e mezzo nel processo Mondadori, dovrebbe scontarne almeno 4 e mezzo ai domiciliari: invece, con lo sconto di 3 anni per l’indulto, uscirebbe subito in affidamento ai servizi sociali. Mastella e i vertici dei partiti “liberi tutti” – Ds, Margherita, Verdi, Sdi, Rifondazione e Udc – cedono all’istante a Forza Italia e a fine luglio del 2006 approvano l’indulto extra-large.

Previti esce dai domiciliari e torna libero. Tutti i condannati per delitti commessi fino al 2 maggio 2006 avranno da spendere un buono-sconto di tre anni. Nel 2008 il processo Berlusconi-Mills è agli sgoccioli. Ma il 12 aprile l’imputato principale torna per la terza volta a Palazzo Chigi e vara subito la legge Alfano che immunizza le quattro alte cariche dello Stato, cioè lui. Il Tribunale di Milano stralcia la sua posizione in un processo separato, che viene congelato a settembre in attesa che la Consulta esamini l’eccezione sull’incostituzionalità del “lodo”, e seguita a processare il solo Mills. Che viene condannato a 4 anni e 6 mesi in primo e in secondo grado per essere stato corrotto da Berlusconi.

Nell’ottobre 2009 la Corte costituzionale cancella il lodo Alfano e il Tribunale di Milano rimette in pista il processo a Berlusconi (che ricomincia oggi dinanzi a un collegio diverso da quello che ha condannato Mills). Tutti attendono il verdetto della Consulta perché, se assolvesse Mills, anche Berlusconi sarebbe salvo e non dovrebbe più ricorrere ad altre leggi
ad personam già in gestazione (processo breve e/o legittimo impedimento come “ponte” verso la soluzione finale: lodo Alfano costituzionale per alte cariche e ministri o, in alternativa, ripristino dell’immunità parlamentare ). L’altro ieri la Corte ha invece confermato che Mills (e dunque Berlusconi) il reato l’ha commesso, tant’è che l’ha condannato a risarcire la presidenza del Consiglio con 250 mila euro per i danni arrecati all’imparzialità della giustizia. Quanto alla pena, non ha potuto applicarla perché il processo è durato tre mesi di troppo: il reato si è estinto a fine 2009.

Ora, senza la
ex Cirielli il reato si estinguerebbe nel 2014. Dunque Mills sarebbe stato condannato a 4 anni e 6 mesi. Senza il lodo Alfano, anche Berlusconi sarebbe stato condannato a una pena almeno equivalente, se non addirittura superiore in quanto corruttore. Senza l’indulto esteso alla corruzione giudiziaria, entrambi i condannati non beneficerebbero dello sconto di un terzo e sarebbero finiti in carcere. E, senza la norma salva-ultrasettantenni contenuta nell’ex Cirielli, Berlusconi finirebbe in carcere senza nemmeno poter chiedere i domiciliari. In più, dall’altroieri, sarebbe interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, pena accessoria obbligatoria per legge in caso di condanna per questo tipo di reato. Dunque la giunta per le elezioni e poi l’aula della Camera dovrebbero dichiararlo decaduto da deputato e ineleggibile per sempre, come hanno fatto tre anni fa per Previti. Mai come in questo momento, Mr.B. deve rivolgere un pensiero riconoscente alla sua maggioranza e anche al grosso della cosiddetta opposizione che, ciascuna secondo le proprie possibilità, l’hanno salvato dalla galera.

da il Fatto Quotidiano del 27 febbraio



Il Complice - Peter Gomez.



Da Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2010

Adesso lo dice anche la Corte di Cassazione. Davvero il testimone inglese David Mills è stato corrotto dal premier, Silvio Berlusconi, per
mentire in tribunale. Per questo Mills dovrà versare 250.000 euro allo Stato e non andrà in prigione solo perché la prescrizione (abbreviata da una legge approvata dal centrodestra nel 2005) ha cancellato il suo reato.
La sentenza potrebbe avere effetti imprevedibili sul processo in corso a Milano, dopo lo stop dovuto al
Lodo Alfano, contro il solo Berlusconi. Il dibattimento rischia infatti diventare brevissimo. I giudici potrebbero far proprio il contenuto del verdetto definitivo sulla corruzione giudiziaria di Mills (che ha valore di prova) e chiudere tutto, o almeno il primo grado, entro il prossimo gennaio 2011, il mese in cui la prescrizione scatterà anche per il Cavaliere.

Un esito paradossale che spiega bene l’ondata d’insulti rivolti in ottobre contro la Corte costituzionale, da quasi tutto il centrodestra, quando il Lodo fu bocciato. Ieri, il presidente della Consulta,
Francesco Amirante, ha definito quelle contumelie una “bizzarria” di una classe politica che finge di meravigliarsi se i giudici della Corte fanno il loro lavoro e dichiarano illegittime norme in contrasto con i principi fondanti della Repubblica. Per Amirante si tratta di un gioco pericoloso. Perché “quando si delegittima un’istituzione, a lungo andare si delegittima lo stesso concetto di istituzione e, privo di istituzioni rispettate, un popolo può anche trasformarsi in una massa amorfa”.

Tutto vero. Anche se in Italia la situazione è ancora peggiore. Le istituzioni qui da noi si delegittimano da sole. Prendete, ad esempio, il Senato. Due anni fa i magistrati scoprono che
Nicola Di Girolamo, il parlamentare Pdl oggi accusato di essere un uomo della 'Ndrangheta, è un abusivo. Per farsi eleggere all’estero aveva falsificato il suo certificato di residenza. Bè, cosa fanno i suoi (momentanei) colleghi? Dicono di no al suo arresto. E poi, sebbene le prove della truffa elettorale siano documentali, non lo fanno nemmeno decadere. Tutto viene rimandato all’eventuale sentenza definitiva. Poi arriva la seconda richiesta di manette, spuntano le sue foto abbracciato a un boss, e il presidente del Senato, Renato Schifani, ha una trovata: non pronunciamoci sull’ordinanza di custodia, dice, ma limitiamoci a togliere a Di Girolamo la poltrona abusivamente occupata a Palazzo Madama. Il tutto con due anni di ritardo, mentre il disgusto per la Casta cresce e le istituzioni si trascinano da sole nel fango.

L'AQUILA, DOMENICA 28.2.2010 ISTRUZIONI PER L'USO


Allora, amici.
E' il caso di spiegarvi un po' come vanno le cose per domenica prossima, quando "il popolo delle carriole" andrà a rimuovere le macerie da piazza Palazzo.
Le premesse sono le seguenti:

- Il Sindaco Cialente, dopo aver fatto fare una verifica all'ufficio tecnico del Comune con la collaborazione dei VVFF ha negato l'accesso collettivo alla Piazza. A qualsiasi piazza.
Stando alla relazione dei tecnici, i crolli continuano (stamattina ce n'è stato uno a Via Sallustio), ed anche i palazzi puntellati, dopo mesi di intemperie stanno peggiorando pericolosamente le loro condizioni statiche già precarie.

- Le macerie presenti a Piazza Palazzo sono un cumulo di detriti che contiene di tutto: pietre, elementi architettonici e d'abbellimento della nostra bella L'Aquila, e anche tanta immondizia e terriccio.Oltre che effetti personali, che dobbiamo proteggere e riconsegnare ai proprietari, o ai loro parenti.

- per questo motivo, prima di procedere alla loro rimozione, dovremo essere aiutati nella differenziazione IN LOCO da personale volontario e con competenze tecniche, al fine di evitare che si buttino elementi di valore indispensabili alla ricostruzione, che non dovrà fare a meno di tutto quello che può e DEVE essere riutilizzato, per restituircela come era.

Data però la nostra determinazione collettiva a non rinunciare all'accesso in Piazza Palazzo, e per coniugare la necessità di rimuovere le macerie con le giuste esigenze di sicurezza collettiva, si è ottenuta una mediazione, che in queste ore viene sottoposta dalla Polizia al Sindaco.

L'IPOTESI CHE DOVREBBE REALIZZARSI:
Il Sindaco dovrebbe autorizzare l'accesso a circa 50 persone che rilasceranno i loro estremi assumendosi la responsabilità di quanto potrebbe accadere in Piazza Palazzo.
Questo gruppo di persone lavorerà materialmente sul cumulo di macerie, operando una differenziazione sul posto (DIETRO INDICAZIONI DI TECNICI COMPETENTI), mentre fuori dalla zona rossa(4 Cantoni), e quindi in piena sicurezza, tutti gli altri allestiranno una catena di smistamento del materiale "di scarto" proveniente da tale selezione, una vera e propria catena umana, indispensabile a fare tutto bene e con ordine, senza commettere errori e correre inutili rischi. E per di più velocemente.
Le macerie così recuperate saranno smaltite in cassonetti approntati per lo scopo ( dato che trattasi, per legge, di rifiuti solidi urbani) e una piccola parte di queste sarà piazzata davanti alla sede della Regione, allo scopo di invitare le Istituzioni locali ad impegnarsi per risolvere il nodo "normativo" che attualmente blocca la loro rimozione.

Domani mattina, ci sarà un incontro con tecnici,membri di comitati cittadini,Polizia, VVFF, tecnici del Comune, per verificare la fattibilità della cosa. Siamo ottimisti.

Come vedete, c'è la volontà di farci rendere finalmente utili alla ricostruzione, e di farci fare una cosa non simbolica, bensì utile e soprattutto CONCRETA.
Perché tutto ciò riesca, c'è necessità di una grande partecipazione, e anche di molta disciplina.
Dobbiamo poter dimostrare di essere persone razionali, che vanno dritte allo scopo. Senza perderci in inutili proteste, l'importante è che lanciamo il messaggio e che iniziamo a risolvere il problema. Con quella progettualità che finora TUTTE le istituzioni, dalla Comunità Europea in giù, non hanno saputo mostrare.
Il contributo di tutti sarà importantissimo. Non si è utili solo se si entra in piazza: l'utilità sta nell'aiutarci a ottenere lo scopo: rimuovere le macerie, consentire che procedano i puntellamenti, per poter (domani,un domani più vicino possibile) RIAPRIRE LA CITTA'.

Se questa proposta sarà accettata dal Sindaco Cialente in queste ore, tutto si svolgerà con serenità e collaborazione pacifica di tutti. Saremo tanti e c'è bisogno di essere calmi, organizzati, efficaci.
Vi prego di sostenere questa mediazione, se vorrete. Mi sembra l'unica maniera possibile per aiutarci a gestire anche la moltitudine di persone che con generosità vorranno aiutarci Domenica 28.
Vi prego di dare il massimo risalto a questa prospettiva che si è da poche ore definita.
Alla luce delle recenti affermazioni della stampa, è necessario rassicurare tutti, che così facendo, la manifestazione si farà.
Anche così, ci riprendiamo la città.
Se ce la facciamo, Domenica scriveremo una bella pagina per la nostra città. E forse non solo.


FEDERICO D'ORAZIO



Chi ha salvato lo "schiavo" - Carlo Tecce




Due anni fa la commissione rifiutò la richiesta d’arresto per
Di Girolamo. Ora Schifani chiede di “annullare l’elezione”.

La casta contro la casta. I faldoni dell'ordinanza, la frode colossale, la seconda richiesta di arresto in due anni, a riflettori accessi, i parlamentari provano a scalfire l'immunità che copre il senatore Nicola Di Girolamo. Belle parole: “Nessuno è intoccabile” (Maurizio Gasparri). E lettera della terza carica Renato Schifani aMarco Follini, presidente della Giunta: “È possibile che ci siano nuovi e rilevanti elementi per l'annullamento dell'elezione di Di Girolamo”. Peccato che per tre volte, due in aula e una nella Giunta, la casta aveva protetto il senatore dalle inchieste della magistratura.

Procediamo con ordine cronologico . Il 24 giugno 2008, a pochi mesi dalle Politiche, la Giunta elezioni e immunità parlamentari nega (compatta da destra a sinistra) l'arresto ai domiciliari richiesto dal Tribunale di Roma per falso in atto pubblico (residenza all'estero, in Belgio). Dieci senatori, compreso Follini, avevano partecipato alla discussione: Casson, Sanna, Lusi, Adamo del Pd, Pastore , Musso, Valentino e Saro del Pdl, Li Gotti dell'Idv: “Non c’è il rischio dell’inquinamento delle prove né di fuga”. E Follini: “Ha prevalso il buon senso”. Soltanto il rappresentante del partito di Di Pietro aveva votato sì all'arresto. Il parere della Giunta, il 24 settembre 2008, è arrivato in Senato per la ratifica: nessun problema, c’è una maggioranza schiacciante (204 sì, 43 contrari e un astenuto): “Con votazione a scrutinio segreto, chiesta dal prescritto numero di senatori, il Senato approva le conclusioni della Giunta. Applausi dal gruppo Pdl”, si legge nel resoconto stenografico della seduta. Per il ricorso di Raffaele Fantetti (il primo dei non eletti nella circoscrizione estero), il 20 ottobre 2008, la Giunta si riunisce per la legittimità del seggio di Di Girolamo. Anche con i voti del Pdl, stavolta, la Giunta delibera l'annullamento dell'elezione del senatore per 'irregolare iscrizione all'anagrafe degli italiani residente all'estero'. Primo atto. Il secondo spetta al Senato, il 29 gennaio 2009.

C'è nervosismo e confusione a Palazzo Madama, il presidente Schifani chiede una pausa e convoca i capigruppo. Al rientro, il Pdl – guidato da Gasparri – sostiene l'ordine del giorno di Sergio De Gregorio per sconfessare la decisione della Giunta e rinvia la pratica Di Girolamo alla fine dei processi, addirittura al terzo grado in Cassazione: “Ci volevano due legislature”, commenta Li Gotti. E Gasparri oggi severo con Di Girolamo, allora era preoccupato per l'arresto immediato se il collega avesse perso la poltrona e dunque l'immunità: “Gasparri ribadisce la sospensiva – si legge nel resoconto sommario – per il timore che con la decisione odierna potessero determinarsi le condizioni per la misura cautelare”. Nel coro c'era Gaetano Quagliariello : “Non si tratta di cavilli giuridici, ma di una questione regolamentare complessa che va affrontata con la dovuta serietà”. E poi Luigi Compagna, Andrea Pastore e Sergio Vetrella a ruota. I senatori del Pdl sconfessavano i colleghi della Giunta che, vagliando istruttorie a interrogatori, avevano accolto il ricorso di Fan-tetti. Una mano d'aiuto si levò dal piano sopraelevato di Palazzo Madama, dal banco più alto. Da Schifani: “La presidenza del Senato ritiene ammissibile la richiesta di sospensiva alla luce dei precedenti e delle norme regolamentari”. E così, approvando a scrutinio segreto (e sono due) l’odg di De Gregorio, il Senato arruolò Di Girolamo nella casta degli intoccabili.

da Il Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2010



venerdì 26 febbraio 2010

Il senso della condanna dei dirigenti di Google.

In questi giorni abbiamo appreso che il Tribunale di Milano ha condannato a sei mesi tre dirigenti di Google per non aver impedito la diffusione di un video in cui un minorenne down veniva maltrattato dai suoi coetanei in un istituto.

Io non sono d'accordo con la sentenza emessa dal Tribunale di Milano, perché ha anteposto la tutela della privacy a quella dell' esecrabile atto in se stesso.

Secondo la mia ottica il Tribunale avrebbe dovuto provvedere, con i mezzi messi a disposizione di youtube, ad individuare e sottoporre a severe sanzioni:

- i ragazzi che hanno maltrattato il minorenne,

- quelli che hanno flmato la scena,

- quelli che, per vantarsi della porcata, lo hanno caricato stupidamente in youtube,

- gli insegnanti della scuola dove il video è stato girato, perché non si sono accorti o hanno finto di non sapere ciò che avveniva,

- il preside, in quanto responsabile dell'istituto,

- i genitori dei ragazzi .

Condannando i tre dirigenti, il Tribunale ha dato un chiaro segnale: non è l'atto in se stesso ad essere un errore, bensì chi non ne vieta la visione.

Se i dirigenti di Google avessero eliminato il video vietandone la visione, nessuno avrebbe preso coscienza del fatto delittuoso, quindi vanno elogiati per averlo permesso.

Il bullismo, non è altro che una delle tante piaghe che affliggono la nostra epoca.

Sono segnali forti di un malessere generale che si manifesta in tutte le attività che ci coinvolgono.

E' un fenomeno causato dal lassismo, dalla mancanza di valori: apparire è più importante che essere.

Ai nostri figli abbiamo dato tutto tranne gli insegnamenti.

Egoisticamente, abbiamo preferito dimostrare il nostro affetto, colmando il vuoto dei nostri sensi di colpa, con doni materiali, mentre avrebbero avuto bisogno di maggiore attenzione e spirito di sacrificio.

Per non trascurare le pessime forme di esempio che gli trasmettiamo attraverso tutto ciò che ci e li circonda.

Diaciamocela tutta: di errori ne abbiamo commessi tanti, forse troppi!

Ecco che cosa pensano fuori dall'Italia della decisione del Tribunale di Milano:

L'ambasciata Usa "Siamo negativamente colpiti dalla odierna decisione di condanna di alcuni dirigenti della Google per la pubblicazione di un video dai contenuti offensivi". Lo sottolinea l’ambasciatore americano a Roma, David Thorne, in riferimento alla sentenza del tribunale di Milano. "Pur riconoscendo - spiega nella nota - la natura biasimevole del materiale, non siamo d’accordo sul fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli Internet service provider". Poi l'accusa: "Il principio fondamentale della libertà di Internet è vitale per le democrazie che riconoscono il valore della libertà di espressione e viene tutelato da quanti hanno a cuore tale valore". Thorne ricorda che "il segretario di Stato Hillary Clinton lo scorso 21 gennaio ha affermato con chiarezza che internet libero è un diritto umano inalienabile che va tutelato nelle società libere. In tutte le nazioni è necessario prestare grande attenzione agli abusi; tuttavia, eventuale materiale offensivo non deve diventare una scusa per violare questo diritto fondamentale".

(http://www.ilgiornale.it/interni/google_condannata_video_choc_proteste_usa/internet-web_20-giudice_magi-disabile-down-motore_ricerca-condanna-google/25-02-2010/articolo-id=424691-page=0-comments=1)

giovedì 25 febbraio 2010

I 5 Blues Brothers “lobby nel mondo” - Enrico Fierro








25 febbraio 2010
Di Girolamo, De Gregorio e gli altri: politica e business

Cinque uomini su un manifesto. Abbigliamento da Blues Brothers, neri come le “jene”, un po' ridicoli come i “Soprano's”. Sono gli italiani nel mondo:
Basilio Giordano, Amato Berardi, Juan Esteban Caselli, Nicola Di Girolamo e in mezzo lui: Sergio De Gregorio, la mente della fondazione-partito. Una sigla politica? Un impero economico? Una potentissima lobby? Di tutto un po'. Basta dare una occhiata agli archivi della camera di commercio di Napoli, patria di De Gregorio, e perdersi in un arcipelago di sigle, tutte targate “Italiani nel mondo”: reti televisive, servizi immobiliari, editrice, Channel, socio sempre De Gregorio e sua moglie Maria Di Palma.

La passione per le tv e l'editoria ha creato qualche problema a De Gregorio per una storia di contributi statali alle tv private che nel 2008 vide coinvolto
Giovanni Lucianelli, all'epoca suo capoufficio stampa. Storie e problemi che non hanno mai fatto arretrare di un millimetro l'ex giornalista d'assalto che ebbe il suo momento di gloria nel 1995. Allora, “molto casualmente”, De Gregorio scoprì a bordo della nave da crociera “Monterey” Tommaso Buscetta. Scoppiò il finimondo.

Per rallegrare don Masino il futuro leader di “Italiani nel mondo” amava esibirsi nella celebre “Guapparia”. Altra musica, invece, 14 anni dopo, quando all'Auditorium della Conciliazione a Roma, De Gregorio e i suoi “blues brothers” presentano a Roma “Italiani nel mondo”. “Un movimento rivolto a tutti gli italiani che credono nella bandiera, nella lingua, nella cultura e nella Patria”, dice il fondatore. Si commuove anche
Susanna Petruni, la “farfallina” del Tg1 che quella sera fa da madrina d'onore. Sergio De Gregorio tiene molto ai suoi meeting. Quando tre anni prima, nel 2006, presenta il movimento a Palermo la sala dell'Hotel Parco dei Principi è gremita. Sono venuti anche da New York ad applaudire e a portare la promessa di soldi.

C'è la principessa
Josephine Borghese e Maria Pia Dell'Utri, la ex moglie del fratello gemello di Marcello. Fratelli d'Italia sparsi per il mondo, la vera forza di De Gregorio. Lui sì un vero emigrante. Non ha girato continenti, ma partiti. Ex socialista craxiano, poi affascinato dalla Dc di Rotondi, simpatizzante di Forza Italia, infine senatore grazie a Di Pietro, prima di ritornare nelle braccia di Berlusconi. E qualche guaio giudiziario. Quello brutto a Reggio Calabria, dove la procura antimafia lo imputa di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito la cosca Ficara nell'acquisto di una caserma dismessa. Scoppiano polemiche, il senatore grida al complotto. Il 27 maggio dell'anno scorso un decreto di archiviazione lo scagiona da ogni accusa.

Ora De Gregorio è pronto per lanciare il suo movimento e farlo confluire nel Pdl di
Berlusconi. I suoi uomini di punta sono quelli del manifesto in nero. Nicola Paolo Di Girolamo, il politico di riferimento del clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Nelle carte dell'inchiesta che ha coinvolto i vertici di “Fastweb” c'è un particolare che racconta il legame del senatore con i vertici della 'ndrangheta crotonese. Franco Pugliese, il riciclatore della cosca Arena, è un appassionato di barche di lusso, per 200mila euro compra uno yacht “Franck One” da una ditta di Trapani, il senatore lo aiuta ad intestarlo alla “Adv & Partners”, una società romana. Amato Berardi è stato eletto negli Usa, presidente del “Niapac” - National american committee -, è responsabile di un fondo in grado di gestire 60 miliardi di dollari.

“Se necessario – promise nella kermesse palermitana – interverremo per la costruzione del Ponte sullo Stretto”. Sulla testa di Basilio Giordano – calabrese emigrato a Montreal “perché mi innamorai di mia moglie” - pende un ricorso del primo dei non eletti. Juan Esteban Caselli è stato eletto nella circoscriszione latino-americana. Tanti voti in Argentina, dove conta di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2011, tantissimi in Venezuela. C'è una contestazione sulle schede che lo hanno portato in Parlamento, stessa calligrafia, stesso inchiostro, sospetti e una inchiesta aperta. Perché in Venezuela all'epoca delle elezioni si mise all'opera
Aldo Micciché, un faccendiere calabrese da anni riparato nel paese sudamericano che in Italia dovrebbe scontare 25 anni di galera.

Amico stretto di Dell'Utri, alla vigilia delle elezioni i due si parlano spesso, come accerta una inchiesta della Dda di Reggio Calabria. “Presto si vota e ci dobbiamo preparare” , dice Micciché. “Lo misi in contatto con
Barbara Contini che si occupava del voto degli italiani all'estero”, la replica del senatore. Il 26 marzo 2007 Micchiché è in prima fila alla presentazione dei candidati del Pdl a Caracas.

Da il Fatto Quotidiano del 25 febbraio


Il clan degli onorevoli - Peter Gomez


25 febbraio 2010
È il nostro Parlamento ma sembra la Chicago di Al Capone: tutti gli uomini mandati da Cosa Nostra per “fare il lavoro”.

Guardi il Parlamento e pensi al consiglio comunale di Chicago. Quello degli anni Venti, in cui Al Capone teneva il sindaco William “Big Bill” Hale Thompson jr e tutti gli altri a libro paga. E, almeno nei film, apostrofava i pochi poliziotti onesti urlando “Sei tutto chiacchiere e distintivo”. Il caso di Nicola Di Girolamo, il senatore Pdl che si faceva fotografare abbracciato ai boss e si metteva sull’attenti quando gli dicevano “tu sei uno schiavo e conti quanto un portiere”, è infatti tutt’altro che isolato. Tra i nominati a Montecitorio e Palazzo Madama, gli uomini (e le donne) risultati in rapporti con le cosche sono tanti. Troppi. Anche perché farsi votare dalla mafia non è reato. Frequentare i capi-bastone nemmeno. E così, mentre la Confidustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone che, codice alla mano, non commettono un reato, ma lo subiscono), i partiti imbarcano allegramente di tutto . Anche chi potrebbe aver fatto promesse che oggi non può, o non vuole, più rispettare.

Quale sia la situazione lo racconta bene la faccia di
Salvatore Cintola, 69 anni, uomo forte dell’Udc siciliano dopo che pure in secondo grado Totò Cuffaro ha incassato una condanna (sette anni) per favoreggiamento mafioso. Pier Ferdinando Casini lo ha fatto entrare al Senato (come Cuffaro) sebbeneGiovanni Brusca, il boss che uccise il giudice Falcone, lo considerasse un suo “amico personale”. Quattro archiviazioni in altrettante indagini per fatti di mafia, una campagna elettorale per le Regionali del 2006 (17.028 preferenze) condotta ad Altofonte - stando alle intercettazioni - dagli uomini d’onore e persino una breve militanza in Sicilia Libera, il movimento politico fondato per volontà del bossLuchino Bagarella, non sono bastate per sbarrargli le porte.

Anche perché, se si dice di no al vecchio Cintola, si finisce per dire no pure al giovane deputato
Saverio Romano. Anche lui ha la sua bella archiviazione alle spalle (concorso esterno). Ma nel palmares può fregiarsi del titolo di candidato Udc più votato alle ultime Europee (110.403 preferenze nelle isole). Per questo, anche se di fronte a testimoni anni fa pronunciò una frase minacciosa che pare tratta dalla sceneggiatura del Padrino (“Francesco mi vota perché siamo della stessa famigghia” disse rivolgendosi al pentito Francesco Campanella), Romano fa carriera. È membro della commissione Finanze, Il segretario Lorenzo Cesa, lo ha nominato commissario dell’Udc a Catania, mentre Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, lo ha incluso con Cintola, Cuffaro, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini, nell’elenco dei parlamentari a cui sarebbero finiti soldi provenienti dal tesoro di suo padre.

Così Romano è oggi indagato come gli altri per corruzione aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra. E se mai finirà alla sbarra qualcuno in Parlamento, c’è da giurarlo, dirà: “È giustizia ad orologeria”. Ma la verità è un’altra. I rapporti di forza tra la mafia e la politica stanno cambiando. Il dialogo tra i due poteri e sempre meno paritario. Nel 2000, quando una microcamera immortala l’attuale senatore del Pd,
Mirello Crisafulli, mentre discute di appalti con il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua (appena uscito di galera), negli investigatori della polizia resta ancora il dubbio su chi sia a comandare. “Fatti i cazzi tuoi” dice infatti chiaro Crisafulli (poi archiviato), al mafioso. In altri dialoghi, invece, il rapporto sembra invertirsi.

A bordo della sua Mercedes nera
Simone Castello (un ex iscritto al Pci-Pds diventato un colonnello di Bernardo Provenzano) ascolta così il capo del clan di Villabate, Nino Mandalà (nel 1998 membro del direttivo provinciale di Forza Italia), mentre sostiene di aver “fatto piangere”, l’ex ministro Enrico La Loggia. “Gli ho detto: Enrico tu sai chi sono e da dove vengo e che cosa ero con tuo padre. Io sono mafioso come tuo padre. Ora lui non c’è più, ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso” racconta Mandalà al compare aggiungendo che La Loggia, in lacrime, si sarebbe messo a implorare: “Tu mi rovini, tu mi rovini”. In questo caso la minaccia (smentita da La Loggia, che però ammette l’incontro) è quella di svelare legami inconfessabili. Un po’ quello che sta accadendo in questi mesi con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi che, secondo molti osservatori, starebbero subendo una sorta di ricatto. Dell’Utri, dicono i giudici, ha stretto un patto con i clan. Un patto non rispettato o solo in parte. E così adesso, visto che è difficile organizzare un attentato ai suoi danni (nel 2003 Dell’Utri e una serie di avvocati parlamentari erano stati inclusi dal Sisde in un elenco di personaggi politici che la mafia voleva ammazzare perché di fatto considerati traditori), la vendetta potrebbe passare attraverso le rivelazioni nei tribunali. Fantascienza? Mica tanto. Perché, almeno nel caso di Dell’Utri, ogni volta (o quasi) che intercetti un telefono di un presunto uomo delle cosche, corri il rischio di ascoltare la sua voce. È successo nell’indagine su Di Girolamo (vedi articolo a pagg. 4-5 de Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2010). Ed è accaduto due anni fa, poco prima delle elezioni, con gli affiliati del clan Piromalli. Il loro referenteAldo Micciché (vedi articolo a fianco) chiamava il senatore in ufficio dal Venezuela, mentre a uno dei ragazzi della ‘Ndrina Dell’Utri affida il compito di aprire un circolo del Buon governo a Gioia Tauro.

Ovvio che tanta disponibilità al dialogo (Dell’Utri si è giustificato dicendo che lui “parla con tutti”) anche se non dovesse nascondere accordi illeciti, espone quantomeno al rischio di pericolosi equivoci. Se alla Camera entra una bella ragazza di Bagheria, priva di esperienza politica, come
Gabriella Giammanco(Pdl), e poi si scopre che suo zio, Michelangelo Alfano, è un boss condannato in via definitiva, è chiaro come qualcuno nelle famiglie di rispetto possa pensare (sbagliando) di trovarsi di fronte a una sorta di messaggio. E se nel governo siede ancora un sottosegretario, Nicola Cosentino, con parenti acquisti detenuti al 41-bis e una richiesta di arresto per Camorra che pende sulla sua testa, è inevitabile che gli uomini di panza considerino il premier un loro amico. Un politico come tutti quelli con cui i patti sono stati siglati con certezza. E ai quali, parafrasando Al Capone, si può sempre gridare, in caso di cocente delusione: “Sei solo chiacchiere e distintivo”.

da Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2010

Lambro, dietro quel sabotaggio appalti e un progetto milionario



È un affare da mezzo miliardo di euro, un progetto faraonico da 187mila metri quadrati su un terreno di 309mila. Ed è previsto proprio sui terreni della Lombarda Petroli, l´ex raffineria di Villasanta a Monza da cui sono stati fatti uscire gli ottomila metri cubi di petrolio che hanno avvelenato il Lambro per poi riversarsi nel Po







Condanna Mills al vaglio Cassazione, attesa per Berlusconi

25 febbraio 2010
Roma.
Approda oggi alla Corte di Cassazione il processo all'avvocato inglese David Mills, condannato in due gradi di giudizio per corruzione...


...in atti giudiziari a quattro anni e mezzo di reclusione.
C'è molta attesa per la sentenza che pronuncerà la Corte a sezioni unite, soprattutto per le conseguenze che avrà sulla posizione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, imputato per la medesima vicenda in un processo stralcio.

Gli avvocati di Mills hanno presentato ricorso in Cassazione puntando all'annullamento della sentenza di appello per intervenuta prescrizione, con una ricaduta per il processo a Berlusconi, ancora in primo grado, che è imputato dello stesso identico reato -- se Mills è il presunto corrotto, il premier è il presunto corruttore.

La Cassazione ascolterà nell'aula magna del "Palazzaccio" romano prima le tesi della procura generale, poi quelle dei difensori di Mills e dell'Avvocatura dello Stato, in rappresentanza della presidenza del Consiglio, costituitasi parte civile.

L'avvocato d'affari è stato condannato sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello di Milano per non aver rivelato nella veste di testimone (qualifica che impone di dire il vero e non tacere nulla di quel che si sa) in due processi del '97 (All Iberian e Tangenti alla Guardia di Finanza) le informazioni su due società off-shore che per l'accusa sarebbero state usate da Mediaset per creare fondi neri, dietro il compenso di 600.000 dollari che secondo la procura gli sarebbero stati riconosciuti da Berlusconi attraverso lo scomparso manager Fininvest Carlo Bernasconi.

Mills dopo una prima ammissione in indagini preliminari, ha negato ogni addebito. Berlusconi e Mediaset hanno sempre respinto tutte le accuse.

Al centro del ricorso degli avvocati di Mills ci sono due questioni: la qualificazione del reato e la definizione del momento in cui si deve considerare consumato il reato di corruzione giudiziaria.

Sul primo punto, la Corte di Appello di Milano ha qualificato il reato come corruzione giudiziaria "susseguente", con il pagamento successivo alla testimonianza reticente. La difesa di Mills ha eccepito che la Cassazione ha dato in passato valutazioni diverse di questo reato, e sostiene che, visto che il reato si è consumato assai dopo la testimonianza nei processi, il reato si debba derubricare in corruzione semplice. La differenza è sostanziale per Mills (e per Berlusconi); se fosse corruzione semplice e non in atti giudiziari, il reato sarebbe già prescritto e l'imputato dovrebbe essere prosciolto.

Sul secondo punto, quello della datazione del reato, i giudici milanesi hanno detto che il reato contestato a Mills è stato consumato nel febbraio del 2000, quando avrebbe ricevuto il denaro, e non al momento della comunicazione né a quello della disposizione di pagamento. In questo caso il processo è "vivo" e la prescrizione scatterebbe solo nell'aprile di quest'anno.

Gli avvocati sostengono invece che il reato è tale se consumato al momento della comunicazione del pagamento, che nel caso di Mills risalirebbe al novembre 1999; ancora una volta, l'effetto della "retrodatazione" del reato è l'avvenuta prescrizione.

Se i giudici di Cassazione confermeranno la sentenza di appello, la condanna di Mills diventerebbe definitiva. La pronuncia della Suprema corte è attesa entro sera.


Reuters



Ci pensa la procura di Roma - Peter Gomez


24 febbraio 2010

Le accuse al magistrato Toro e il "porto delle nebbie": dove le inchieste scomode vengono trattate con "riguardo"

Inutile girarci intorno. Non era necessaria l’indagine fiorentina sull’ormai ex procuratore aggiunto
Achille Toro per capire che il Palazzo di Giustizia della Capitale era da un pezzo tornato ad essere un porto delle nebbie. Per comprendere che cosa accade a Piazzale Clodio, dove pure lavorano decine di magistrati dalla schiena dritta, bastano invece le collezioni dei giornali. Da anni, e con sempre maggiore frequenza, i cronisti raccontano come buona parte delle inchieste sui potenti (di qualsiasi colore) condotte dall’ufficio diretto dal procuratore Giovanni Ferrara abbiano un esito pressoché scontato: o finiscono in archivio o partoriscono il più classico dei topolini.

Gli esempi sono tanti. Si va dal caso
Berlusconi-Saccà, ai voli di Stato con fanciulle del Cavaliere; dai viaggi aerei verso il gran premio di Monza (con amici e familiari) di Francesco Rutelli e Clemente Mastella, fino alle prime indagini sullo spionaggio degli uomini dell’ex governatore del Lazio, Francesco Storace, ai danni di Piero Marrazzo.

Ma suscitano perplessità e interrogativi pure l’inchiesta sulla
Parmatour di Calisto Tanzi e quella sui supposti ricatti legati a Vallettopoli. Certo, a volte ci sono fondati motivi giuridici, per chiudere tutto. Ma è incontestabile che "prudenza", "mosse ponderate" siano state fino a ieri le parole d’ordine di Ferrara e del suo ex braccio destro Toro. Parole riecheggiate anche nella primavera del 2009 quando, di fronte alla Guardia di finanza, i carabinieri e i pm che domandavano d’investigare a fondo sugli affari del gruppo Anemone e sulle ruberie in occasione del G8(mancato) alla Maddalena, Ferrara e Toro decisero di procedere con il piombo nel timore, scrive Repubblica, di ledere l’immagine dell’Italia.

Oggi Toro è indagato per corruzione, favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo l’ipotesi d’accusa dietro le fughe di notizie che misero gli uomini della cricca della Protezione civile in allarme per i probabili arresti potrebbe esserci stato una scambio di favori. Gli eventuali reati, però, non bastano per spiegare che cosa è accaduto negli ultimi anni negli uffici al vertice della procura di Roma. Il vero punto è un altro: i rapporti delle toghe con il potere politico e la volontà di disturbare il meno possibile il manovratore. Un paio di esempi giovano a capire.

Proprio nei mesi in cui l’inchiesta romana sul gruppo Anemone veniva di fatto insabbiata, la procura si trova di fronte a un grosso problema: il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Da Napoli sono arrivate le carte sul caso di Agostino Saccà. L’ex direttore generale della Rai, è stato sorpreso al telefono mentre riceveva dal premier calorose raccomandazioni su una serie di attricette da piazzare in varie
fiction e, in cambio, incassava la promessa di un aiuto nelle sue future attività imprenditoriali. Quasi contemporaneamente la passione di Berlusconi per le belle ragazze apre pure un secondo fronte: il fotografo Antonello Zappadu ne ha immortalate molte mentre scendevano ad Olbia da aerei di Stato.

Lo scandalo è in apparenza enorme. Ma la prudentissima Procura di Ferrara riesce a trovare la soluzione. Vediamo come. In totale gli scali ripresi da Zappadu sono cinque, così gli accertamenti (di tipo strettamente burocratico) vengono condotti solo sulle liste passeggeri dei voli Roma-Olbia del 24, 25 e 31 maggio, 1 giugno e 17 agosto 2008. Berlusconi in quelle occasioni è sempre presente. Dunque, spiega la procura nella sua repentina richiesta di archiviazione non c'è stato "alcun danno patrimoniale" né sono "emersi casi di soggetti estranei che hanno viaggiato in assenza del presidente". L’abuso di ufficio e il peculato sono "insussistenti". Tutto vero. Ma perché non allargare i controlli pure agli altri voli, come suggerivano alcuni pm? Prudenza.

Più complicato è invece il caso Saccà. Quella è davvero una brutta storia che lede l’immagine dell’Italia. Le intercettazioni (inviate per competenza dal gup di Napoli al quale la procura partenopea aveva chiesto il rinvio a giudizio degli imputati) sono esplicite. E, quel che peggio, secondo i pm napoletani, dal loro ascolto emerge anche l’ipotesi che una delle attrici raccomandate,
Evelina Manna, abbia ricattato il premier. In pratica potrebbe averlo minacciato di svelare i retroscena della loro amicizia se non avesse ricevuto un aiuto (e per questo Napoli ha suggerito a Roma di aprire un’inchiesta per concorso in estorsione). Il tutto però finisce in archivio.

Come? Grazie a molte acrobazie giuridiche e un accorto uso dei media. Della storia dell’ipotetico ricatto non si saprà infatti mai niente. Anche perché un sunto delle 14 pagine della richiesta di archiviazione viene fatto arrivare (opportunamente depurato dalla parte riguardante le pressioni della Manna) nelle mani di alcuni cronisti. Già quello che si legge basta comunque per capire che aria tira in procura. Berlusconi dice, per esempio, a Saccà: "Aiuta
Elena Russo è come se aiutassi me e io poi ti ricambierò dall’altra parte quando sarai un libero imprenditore”. Sembra una corruzione in piena regola. Ma per la procura la frase prova il do ut des. E poi, sostengono gli uomini di Ferrara, Saccà, “non è un incaricato di pubblico servizio".

La tesi è bizzarra (tanto che il gip la farà propria solo in parte) e contrasta pure con una sentenza della Cassazione. Ma non importa. Meglio essere prudenti. Col risultato che, a volte, il caso ti deflagra in mano. Come è accaduto con la Protezione civile o come è successo, nel 2005, con l’indagine Storace. Cinque anni fa i carabinieri si rendono conto che degli investigatori privati in contatto con l’ex governatore del Lazio stanno spiando Marrazzo durante la campagna elettorale. Chiedono a Toro d’intercettare i telefoni. Ma lui dice di no. Finisce che tutto viene scoperto dai pm di Milano e scattano le manette. Lo smacco è grande, ma Toro viene lo stesso considerato affidabile. Sia in procura sia dalla politica.

Tanto che nel 2006 quando finisce sotto inchiesta per fughe di notizie legate al caso
Unipol, prima il ministro Alessandro Bianchi, lo sceglie come capo dei gabinetto, e poi una volta incassata l’archiviazione (con qualche interrogativo) torna in procura per dirigere il pool dei reati contro la pubblica amministrazione. Piedi di piombo, in questo caso, nessuno. Anche perché Toro è un leader di Unicost (la corrente moderata del sindacato dei giudici, in cui milita Ferrara), per quattro anni è stato membro del Csm, piace persino alla sinistra (Bianchi è legato al Pdci) ed è amato della destra. Insomma è l’uomo giusto per un posto prudentemente giusto.

Da
il Fatto Quotidiano del 24 febbraio