sabato 10 agosto 2019

Salvini vuole i "pieni poteri" prima di lui solo Hitler li chiese.




Decreto dei pieni poteri.
Il Decreto dei pieni poteri, conosciuto anche come Legge dei pieni poteri (in lingua tedesca, Ermächtigungsgesetz), è il termine con cui venne indicato il provvedimento approvato dal parlamento tedesco (Reichstag) il 24 marzo 1933. Questo decreto rappresentò il secondo passo – il primo fu il Decreto dell'incendio del Reichstag – compiuto dal Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (e controfirmato dal Presidente Paul von Hindenburg) per dichiarare lo stato di emergenza e nei fatti instaurare una dittatura utilizzando gli strumenti legali messi a disposizione dalla Repubblica di Weimar.
Quando il neocancelliere Adolf Hitler presentò il Decreto dei pieni poteri al Parlamento, egli non possedeva la maggioranza assoluta dei voti (non aveva quindi, neanche la possibilità di formare un governo) e, per assicurarsi l'approvazione del piano, Hitler fece arrestare o comunque impedì con la forza di partecipare alla seduta tutti i deputati comunisti e alcuni socialdemocratici, minacciò fisicamente ministri ed esponenti del Centro Cattolico e fece disporre le SA, squadre paramilitari del Partito nazionalsocialista, attorno e all'interno del Reichstag durante la votazione. Secondo alcuni storici, il consenso dato dal Partito del Centro all'approvazione della legge dei pieni poteri fu concesso in cambio della promessa di Hitler di stipulare un concordato con la Santa Sede; tuttavia, dai documenti dell'archivio vaticano non risulta che la Santa Sede fosse stata preventivamente informata sulle trattative intercorse tra Hitler e i parlamentari del Centro, ma sembra invece che questi abbiano agito autonomamente senza il mandato del Vaticano. Inoltre, dal rapporto inviato dal nunzio Cesare Orsenigo in Vaticano il 24 marzo non risulta che durante tali trattative si fosse fatto cenno a un possibile concordato tra Santa Sede e Governo tedesco[1] Il primo atto preso nell'ambito del decreto dei pieni poteri fu l'ordine di scioglimento del Partito Socialdemocratico di Germania, che aveva votato contro il decreto stesso.[2]
Bundesarchiv Bild 102-14439, Rede Adolf Hitlers zum Ermächtigungsgesetz.jpg
«Legge a rimedio dell'afflizione sofferta dal Popolo e dal Reich.
Il Reichstag ha approvato la seguente legge, che è promulgata col consenso del Reichsrat, essendo stati rispettati i requisiti per l'emanazione di una modifica costituzionale:
  1. In aggiunta alla procedura di cui alla Costituzione, le leggi del Reich possono altresì essere emanate dal Governo del Reich. Sono incluse le leggi di cui agli Articoli 85, secondo comma, ed 87 della Costituzione.[4]
  2. Le leggi emanate dal Governo del Reich possono derogare alla Costituzione del Reich, purché non arrechino pregiudizio alle istituzioni del Reichstag e del Reichsrat. I diritti del Presidente rimangono inalterati.
  3. Le leggi emanate dal Governo del Reich sono promulgate dal Cancelliere del Reich e pubblicate sulla Gazzetta del Reich. Hanno effetto dal giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che sia stabilita una diversa data. Gli articoli da 68 a 77 della Costituzione non si applicano alle leggi emanate dal Governo del Reich.[5]
  4. I trattati stipulati dal Reich con Stati stranieri, che si riferiscano alla legge del Reich, per la durata della presente legge non richiedono il consenso degli organi coinvolti nella legislazione. Il Governo del Reich adotta le leggi necessarie alla implementazione di tali accordi.
  5. Questa legge entra in vigore il giorno della sua pubblicazione. È abrogata a decorrere del 1 aprile 1937; inoltre è abrogata se l’attuale Governo del Reich viene sostituito da un altro.»

La Bestia. - Tommaso Merlo

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Salvini ha fatto una bestialità. Ha scatenato una crisi nel modo e nel momento peggiore possibile mettendo il paese intero nei guai. Davvero un pericoloso irresponsabile. Ma lui è il dittatore della Lega. Quello che gli salta in testa è legge. La Lega è un partito dittatoriale. In questo anno di governo, molti esponenti leghisti hanno ammesso più volte di non sapere nemmeno loro quello che passa nella testa di Salvini. E incalzati dai giornalisti, per mesi hanno ripetuto “decide Salvini”. Zero dibattito interno, tutto affidato ad un dittatore solo ed imprevedibile. Un improvvisatore in balia del proprio misero ego. La Lega è un partito dittatoriale che vorrebbe applicare all’Italia lo stesso modello. Sul balcone Salvini coi “pieni poteri”, intorno a lui una manciata di “signor sì” e sotto il popolo bue pronto a correre alle adunate per alzare il braccio al cielo.

Solo così si spiega la tempistica e le modalità folli di questa crisi, con l’accentramento di tutti poteri nelle mani di Salvini, un personaggio mediocre che ha perso il controllo di se stesso. Salvini scalpitava da dopo le europee per conquistare il potere assoluto mentre Meloni e compagnia nera lo incalzavano da mesi per far saltare il governo ed instaurare un regime tutto suo. L’obiettivo principale di ogni dittatore. Il potere. Altro che interessi dei cittadini, altro che cambiamento. La Lega si è spacciata come partito del “cambiamento” quando in realtà è un partito ultraconservatore, sia nelle idee ma anche nel voler conservare le porcherie del passato. La Lega è l’ultima maschera del vecchio regime. Riforme come quella della giustizia o sul conflitto d’interessi la Lega non lo ha mai volute fare. L’obiettivo vero della Lega è quello di sostituire i vecchi partiti nei rapporti con le lobby e le caste. Ma Salvini ha tentennato a lungo, si rendeva conto della vergognosa presa per culo verso milioni di cittadini che sostenevano lui e il governo gialloverde. Poi il colpo di testa.
Nel momento e nel modo peggiore possibile. Poi il paese nel caos. Una roba mai vista che è potuta succedere perché Salvini è solo al comando, perché la Lega è lui e non c’è nulla che può fermarlo. È questo il punto che dovrebbero capire perlomeno gli elettori leghisti last minute. Quelli che negli ultimi due anni hanno gonfiato la bolla salviniana all’inverosimile, quelli che non sanno neanche dove sia Pontida e che non hanno mai desiderato spaccare l’Italia infamando il sud e tanto meno finire in balia di un dittatore. Almeno loro, sono ancora in tempo per rendersi conto dei rischi che corriamo. Se la storia appare lontana, basta osservare l’Italia in queste ore. Piombata in una rovinosa crisi per il colpo testa di uno su sessanta milioni di cittadini. Una bestialità che nella storia italiana ha già fatto danni incalcolabili e che va assolutamente scongiurata.

http://www.lonesto.it/?p=52010

"Il voto ora è un indispensabile strumento di igiene politica". - Antonio Padellaro


Nella stranota figura del dito che indica la luna, oggi serve davvero a poco occuparsi delle convulsioni finali del contratto gialloverde, con le inevitabili elezioni anticipate. Soprattutto quando la luna è il faccione di Matteo Salvini, che sembra destinato molto presto a prendersi lui tutto il governo, e il Paese, alla guida di una minacciosa maggioranza sovranista di destra-destra. Un futuro da brividi per chi scrive (e forse anche per chi legge) ma, seguendo lo schema di Rino Formica (intervista al manifesto) è “la soluzione democratica”, unica alternativa all’uso della forza e addirittura alla “guerra civile”. Più ottimisti del vecchio saggio socialista, noi riteniamo che evocare la guerra civile sia soltanto un cupo espediente retorico per richiamare la più alta istituzione del Paese, che siede al Quirinale, all’esercizio delle sue prerogative costituzionali.
Compito a cui Sergio Mattarella non intende certo sottrarsi, e neppure il premier Giuseppe Conte decisissimo a denunciare davanti al Parlamento, e con la massima trasparenza, il cinismo del vicepremier “da spiaggia”, che affamato di potere butta giù i governi come fossero i suoi personali castelli di sabbia. 
Dunque, prossimamente, a Palazzo Madama e a Montecitorio andrà in scena il prologo di una campagna elettorale decisiva per comprendere se la democrazia che ci attende sarà la democratura autoritaria di ispirazione putiniana (e imbottita di rubli). O se riusciremo a difendere e conservare i pilastri di quella democrazia costituzionale nata, quella volta sì, da una guerra civile chiamata Resistenza.
Anche oggi, per l’Italia repubblicana e in un clima fortunatamente di pace, tertium non datur: o di qua o di là. Per cui, ormai agli sgoccioli e sancita la fine del Salvimaio, questo diario considera il ricorso al voto un indispensabile strumento di igiene politica per almeno tre motivi.
Primo: se nell’arco di un anno un partito raddoppia i consensi - con il 34% delle elezioni europee, veleggiante verso il 38 e forse anche il 40% - e se a cavalcare questa gigantesca onda è un personaggio accolto nelle piazze (e sugli arenili) come il nuovo uomo della Provvidenza, molto difficilmente quest’uomo (che non è certo un De Gasperi) rinuncerà a considerare Palazzo Chigi come il suo naturale domicilio. Tanto più se costui viene riconosciuto come l’unico e sommo leader della destra più destra mai vista in Italia dalla caduta del fascismo (quella formata da Fratelli d’Italia, dagli ascari di Forza Italia modello Toti, e forse anche da un fu Silvio Berlusconi oggi miniaturizzato). Coalizione che secondo gli ultimi sondaggi sfiorerebbe il 50%: praticamente la maggioranza assoluta nelle nuove Camere.
Come si fa a non tenerne conto?
Secondo: l’igiene elettorale non può che fare bene al M5S, sfibrato, debilitato, vampirizzato dalla convivenza governativa con il Dracula del Carroccio. Attraverso il ritorno a una sana opposizione i Cinque Stelle potranno procedere nei tempi giusti al necessario rinnovamento interno, degli uomini, delle strutture e dei programmi. Se destinata a finire sotto il tallone del salvinismo (parola che fa rima con altri raggelanti ismi) la democrazia italiana avrà la necessità di affidarsi a una minoranza combattiva che in Parlamento e nelle piazze sappia tenere alto il vessillo della legalità. E più di qualcuno, vedrete, rimpiangerà quella classe dirigente giovane, forse inesperta, ma bombardata senza tregua dai cosiddetti grandi giornali e nei talk show, ma che a confronto con il sistema Savoini&Casapound sembrerà la scuola di Atene.
Terzo: del gruppo dirigente di questo Pd, indeciso a tutto tranne che a farsi vicendevolmente le scarpe, fa perfino rabbia parlare. Soprattutto se, come accaduto sulle mozioni Tav, Zingaretti e soci non esitano a spianare la strada a Salvini, ritagliandosi in un ipotetico, futuro bipolarismo la triste funzione di opposizione di comodo.
Fortunatamente, da questa parte, oltre agli apparati con le loro ridicole rendite di posizione esiste un fertile e vasto mondo che continua ad avere come saldo riferimento i valori della Costituzione, e della chiesa di Papa Francesco.
Basta girare per l’Italia delle università, delle mille iniziative culturali, delle librerie, della solidarietà per rendersi conto che l’alternativa al Papeete Beach vive e lotta per tornare a guidare il paese quando, prima o poi, l’onda della destra s’infrangerà sugli scogli. La partita non è affatto persa. Coraggio.

Niente pastrocchi. - Marco Travaglio FQ 10 agosto

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Nella crisi più pazza del mondo, capita anche questo: che il cazzaro primigenio, Renzi, auspichi la cosa più sensata mai detta da un pidino da mesi. E cioè che, contro la destraccia salvinista, l’unico governo possibile è fra 5Stelle e Pd. Purtroppo la proposta ha tre difetti.
1) Arriva con 14 mesi di ritardo e non sarebbe più - come a maggio 2018 - l’unione fra il primo e il secondo partito delle Politiche, ma tra i due sconfitti alle Europee contro chi le ha vinte.
2) Viene da Renzi, che ormai ha la credibilità di Pamela Prati e tifa per il taglio dei parlamentari perché, al prossimo giro, non ne avrà più neanche uno.
3) Sarebbe un regalo a Salvini, che già inizia a pagare caro il suo tradimento di sfasciatutto irresponsabile (è subissato di insulti sui suoi social, specie dopo la ferma risposta di Conte, suo unico vero competitor) e non vede l’ora di farlo dimenticare addossandolo ai 5Stelle e strillando al ribaltone.
Certo, la metà e più dell’Italia che guarda con orrore e terrore alla prospettiva di avere presto un monocolore Salvini che si crede il Duce e parla come lui (senza neppure esserlo) a colpi di “Voglio pieni poteri”, “Ordine e disciplina”, “La giustizia la riformo io” accetterebbe di tutto, pur di allontanare l’amaro calice. Anche un ribaltone. Che sarebbe costituzionalmente ineccepibile (avrebbe la fiducia del Parlamento) e moralmente giustificabile (a brigante, brigante e mezzo). Ma politicamente a dir poco discutibile, mettendo insieme il secondo e il terzo partito per far fuori il primo. Con tutti i rischi che comportano, le elezioni restano la via maestra. Se a ottobre o a primavera, lo deciderà il Parlamento, dove Conte ha saggiamente portato la crisi in piena trasparenza.
Lì il premier esporrà le riforme in cantiere che Salvini ha bloccato col suo colpo di mano e chiederà la fiducia. La Lega gliela negherà. Il M5S gliela confermerà e nessuno può impedire ad altri di fare altrettanto. Se il Pd gli votasse la fiducia, il governo Conte resterebbe in piedi, senza i ministri leghisti (sostituibili con gli attuali vice o con personalità esterne). Per fare poche cose prima delle elezioni a primavera: la legge di Bilancio, scongiurando le conseguenze inevitabili di un voto a fine ottobre (esercizio provvisorio, spread ecc.); l’ok al taglio dei parlamentari; e la conseguente revisione della legge elettorale.
Chissà che i pochi mesi trascorsi a collaborare, senza nuovi governi né ribaltoni, non inneschino la scintilla che noi auspichiamo da anni fra un centrosinistra totalmente rinnovato e ripulito e un M5S più maturo e meno improvvisato sotto la guida di Conte. Per salvarci da Salvini non prima né contro le elezioni. Ma dopo.

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Di Maio “richiama” i big. Ma ora al bivio c’è il Pd. - Luca De Carolis

Di Maio “richiama” i big. Ma ora al bivio c’è il Pd

Il capo dei 5Stelle raduna Casaleggio, Di Battista e altri maggiorenti e promette “collegialità”. Si punta sul taglio dei parlamentari. Ma le offerte dei dem agitano: “Rischiamo”

Il capo non può più stare solo lassù, non può più decidere da solo o con la sua cerchia ristretta, perché è al bivio che vale tutto. Da una parte c’è la guerra all’orizzonte, la campagna elettorale che mai avrebbe voluto, e dall’altra il Pd, perfino Matteo Renzi e i suoi, che bussano alle sue porte promettendo aiuto per il taglio dei parlamentari e soffiando una parola che può essere dannazione, accordo. Ma da qui in avanti Luigi Di Maio la rotta dovrà deciderla con gli altri, perché è in ballo la sopravvivenza del Movimento, e perché lui non è quello del 33 per cento. Per questo mentre viene giù tutto il tuttora vicepremier raduna a Roma in una casa sul Lungotevere gran parte di quelli che pesano nel Movimento: Davide Casaleggio, i ministri e pretoriani Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, i capigruppo alle Camere Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva, i molto inquieti Nicola Morra e Paola Taverna, quel Max Bugani appena dimessosi da suo vice-caposegretario e ovviamente Alessandro Di Battista, l’ex deputato con cui era furioso ma a cui dovrà chiedere di recuperare entusiasmo e voti.
VOTO SU ROUSSEAU.
Si pensa di far votare gli iscritti sul web sulla ricandidatura degli eletti uscenti
Di fronte a loro ammette (alcuni) errori e soprattutto promette “collegialità”. Ovvero che le decisioni importanti passeranno da lì, da un caminetto con le varie anime del M5S. Per questo Di Maio chiede a tutti di parlare chiaro, di dire come la pensano. Partendo da quella che è la prima urgenza del Movimento, rendere legge il taglio dei parlamentari prima del voto sulla mozione di sfiducia per il premier Giuseppe Conte. Una bandiera che si potrebbe sventolare, ma anche e soprattutto la via per far slittare il voto anticipato, perché tagliare 345 eletti imporrebbe di ridisegnare i collegi elettorali, e sarebbero necessari mesi per farlo. E in quel lasso di tempo chissà cosa potrebbe accadere in Parlamento.
Però il prezzo per i 5Stelle rischia di essere l’anima, perché per realizzare un’impresa quasi impossibile nei numeri e soprattutto nei tempi dovrebbero accordarsi con il Pd delle mille anime e delle mille trappole, che già chiede di più, un patto per un’altra maggioranza di governo. “Ma una cosa del genere potrebbe ucciderci” riassume un big del M5S. Perché lo sanno, i 5Stelle, che i messaggi e le telefonate dei dem (nonostante il niet del segretario Nicola Zingaretti) sono una porta con vista sull’inferno, la via che renderebbe facilissimo a Matteo Salvini gridare all’inciucio.
Per questo il leghista già ammicca: “Sento che ci sono toni simili tra Pd e M5S, ma un governo Renzi-Di Maio sarebbe inaccettabile per la democrazia”. Infatti il Movimento replica con sillabe violente: “Caro Salvini stai vaneggiando, inventatene un’altra per giustificare quello che hai fatto giullare”. E non a caso nella riunione romana, con toni e modi diversi, la maggioranza dei big rifiuta le offerte che lo staff del M5S nega ma che sono evidenti, rumorose. Almeno ora, perché dopo il voto chissà. Ma nell’attesa il taglio degli eletti con il quarto, definitivo passaggio a Montecitorio va rincorso in ogni modo. Lo dicono tutti, all’incontro di ieri. E la linea prevalente è: portiamolo a casa, poi si vedrà. Ovvero, un passo alla volta. Però Roberto Fico, il presidente della Camera, si sente di continuo con Di Maio. E gli ha confermato quanto sia difficile approvare la legge. Perché è vero, un terzo dei deputati basta per convocare d’urgenza l’Aula, e il M5S li ha. Però è necessario che la capigruppo della Camera, convocata per martedì, cambi il calendario a maggioranza. Nel caso lo faccia, bisognerebbe passare in commissione, almeno per mezza giornata, e servirebbero almeno due giorni di lavoro in Aula per approvare il testo. Maledettamente complicato in pieno agosto, per di più prima della votazione in Senato su Conte, che potrebbe svolgersi attorno al 20.
A meno che l’accordo con il Pd non sia granitico. E che Fico utilizzi a fondo i suoi poteri di presidente. Nell’attesa, Di Maio e il gotha del M5S ragionano sui nodi che verranno. A cominciare da come rimettere in gioco una classe di governo su cui grava l’esaurirsi dei due mandati. E la decisione pare già presa. Si voterà sulla piattaforma web Rousseau, dove verrà chiesto agli iscritti se ricandidare i parlamentari uscenti, spingendo sulla leva dei soli 14 mesi di legislatura, caduta per colpa di Salvini. Poi c’è il tema nodale, quello del candidato premier. Non potrà esserlo Di Maio, non più. E neppure Di Battista, trascinatore che si sentirebbe ingabbiato.
Quindi la speranza di molti, di quasi tutti è convincere Conte. Ripartire da lui, che pure lo ha giurato: “Non ho mai votato i 5Stelle”. Ma la politica corre. E può cambiare, tutto.