domenica 25 agosto 2019

Scippo al Sud. - Primo Di Nicola



Decine di miliardi destinati al Mezzogiorno usati per altri scopi. Dai trasporti sul lago di Garda ai debiti del Campidoglio. E persino per coprire il deficit causato dall'addio all'Ici.

Un tesoro da oltre 50 miliardi di euro disponibile solo negli ultimi due anni. Che poteva servire per terminare eterne incompiute come l'autostrada Salerno-Reggio Calabria e che invece è andato a finanziare i trasporti del lago di Garda e i disavanzi delle Ferrovie dello Stato. Una montagna di denaro che avrebbe dovuto rilanciare l'economia del Sud e che è stata utilizzata per risanare gli sperperi e i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania e per la copertura finanziaria dell'abolizione dell'Ici.

Un fiume di denaro destinato a colmare i ritardi delle zone sottoutilizzate del Paese e che è stato impiegato invece dal governo per pagare le multe delle quote latte degli allevatori settentrionali cari ai leghisti e la privatizzazione della compagnia di navigazione Tirrenia. Sono alcuni brandelli di una storia incredibile, il grande scippo consumato ai danni delle regioni meridionali. La storia delle scorribande sul Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, manomesso e spremuto negli ultimi anni dal governo Berlusconi per finanziare misure economiche e opere pubbliche che niente hanno a che fare con i suoi obiettivi istituzionali. Un andazzo che, nonostante qualche isolata protesta, è andato sinora avanti indisturbato. Fino alla soglia della provocazione. Come per gli sconti di benzina e gasolio concessi agli automobilisti di Valle d'Aosta, Piemonte, Lombardia e Trentino Alto Adige, denunciati dal deputato Pd Ludovico Vico.

La Corte dei conti ha provato a stoppare lo sperpero lamentandosi apertamente per l'utilizzo dei soldi del Fas che hanno finito per assumere"l'impropria funzione di fondi di riserva diventando uno dei principali strumenti di copertura degli oneri finanziari" connessi alla politica corrente del governo. Ma con scarsi risultati: qualche riga sui giornali, poi il silenzio. Anche Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, ha chiesto al governo di "smetterla di utilizzare i Fas come un Bancomat". Così come Dario Franceschini al tempo in cui era segretario del Pd: "Ogni volta che è stato necessario finanziare qualcosa, dall'emergenza terremoto alle multe per le quote latte", ha affermato, "si è fatto ricorso al Fas togliendogli risorse". Quante per l'esattezza? Cifre precise non ce ne sono. Interpellata, persino la presidenza del Consiglio getta la spugna dichiarandosi incapace di fornire un rendiconto dettagliato delle spese fatte con i fondi Fas. Secondo una stima de 'L'espresso' però i soldi impropriamente sottratti al Sud solo negli ultimi due anni sono circa 37 miliardi. Una cifra ragguardevole confermata dal senatore democratico Giovanni Legnini: "Siamo di fronte ad una dissipazione vergognosa che certifica come il Pdl stia tradendo il Sud". Giudizio condiviso persino da Giovanni Pistorio, senatore siciliano dell'Mpa, il Movimento politico per le autonomie, parte organica della maggioranza di centrodestra: "Gli impegni verso il Mezzogiorno erano al quinto punto del programma elettorale del Pdl, il governo li ha completamente disattesi". 

Quante promesse.
E già, chi non ricorda le sparate a favore del Meridione con le quali il Cavaliere giurava che stava "lavorando con tutti i ministri per mettere a punto un piano innovativo per il Sud, la cui modernizzazione e il cui sviluppo ci stanno da sempre a cuore"? O quelle del sottosegretario Gianfranco Micciché che, sebbene da quasi dieci anni come viceministro o sottosegretario gestisca i fondi per il Meridione, più volte ha minacciato la fondazione di un partito del Sud se Berlusconi non avesse "sbloccato i fondi Fas e reso i parlamentari meridionali protagonisti della elaborazione delle strategie"? Parole al vento. 

La storia del Fas e dei suoi maneggiamenti comincia nel 2003 con il secondo governo Berlusconi quando tutte le risorse destinate alle aree sottoutilizzate vengono concentrate e messe sotto il cappello del ministero per lo Sviluppo economico. Il compito di ripartire le risorse viene invece affidato al Cipe con il vincolo di destinarne l'85 per cento al Sud e il 15 al Centro e al Nord. Intenti lodevoli, ma si parte subito con il piede sbagliato. Nel solco della peggiore tradizione della Cassa per il Mezzogiorno, i fondi finiscono per essere in gran parte utilizzati per quella politica delle mance tanto cara ai ras locali di tutti i partiti e alle loro fameliche clientele. Il 2003 è un anno destinato a rimanere negli annali degli sperperi. A colpi di milioni di euro si realizzano fondamentali infrastrutture come il museo del cervo a Castelnuovo Volturno e quello dei Misteri a Campobasso; il visitor center a Scapoli; si valorizza la palazzina Liberty di Venafro; si implementa il sito Web della Regione Molise; si restaurano conventi, chiese e cappelle a decine come a Montelongo, Castropignano e Gambatesa; si acquistano teatri come a Guglionesi; si consolida il santuario di Montenero di Bisacce. Per carità, si fanno pure le reti fognarie nei paesi e strade interpoderali sempre utili alle popolazioni; si recuperano siti turistici e pure aree naturalistiche, ma a fare epoca sono sicuramente il fiume di regalie come quelle legate al recupero e la valorizzazione della collezione Brunetti e agli studi sulle valenze naturalistiche dell'aerea di Oratino, al museo ornitologico di Montorio dei Frentani, per non parlare della realizzazione dell'enoteca regionale del Molise.

Progetti inutili.
Insomma, una insaziabile vocazione a spendere. Che continua a prosciugare il Fas anche negli anni successivi, pure quando a Palazzo Chigi torna Prodi. Tra il 2006 e 2007, accanto a tanti impeccabili interventi per il Sud, come il finanziamento ai programmi per l'autoimprenditorialità e autoimpiego gestiti da Sviluppo Italia (90 milioni) o agli interventi per il risanamento delle zone di Sarno e Priolo, appaiono una miriade di contributi a progetti che con il Sud hanno poco a che vedere: 180 milioni vanno per esempio al progetto 'Valle del Po'; 268 al ministero dell'Università per i distretti tecnologici; 119 al ministero per le Riforme per l'attuazione di programmi nazionali in materia di società dell'informazione; altri 36 milioni al ministero dell'Ambiente per finanziare tra l'altro il 'Progetto cartografico'. E non è finita: un milione finisce al ministero per le Politiche giovanili e le attività sportive per vaghe attività di assistenza; un altro milione al Consorzio nazionale per la valorizzazione delle risorse e dei prodotti forestali con sede in Frontone nella meridionalissima provincia di Pesaro e Urbino; 4 milioni al completamento dei lavori di ristrutturazione di Villa Raffo a Palermo, sede per le attività di alta formazione europea; 2 milioni alla regione Campania per la realizzazione del museo archeologico nel complesso della Reggia di Quisisana; 20 milioni al Cnipa per l'iniziativa telematica 'competenza in cambio di esperienza: i giovani sanno navigare, gli anziani sanno dove andare'; quasi 4 al ministero degli Esteri per il sostegno delle 'relazioni dei territori regionali con la Cina'. 

Sarebbe già abbastanza per gridare allo scandalo. Ma non è finita: da conteggiare ci sono pure i trasferimenti di risorse Fas ai vari ministeri e che si sono tradotti tra l'altro in uscite di 25 milioni a favore della presidenza del Consiglio per coprire le spese della rilevazione informatizzata delle elezioni 2006; 12 per finanziare le attività di ricerca e formazione degli Istituti di studi storici e filosofici di Napoli; 5 milioni al comando dei carabinieri per la tutela ambientale Regione siciliana per interventi di bonifica; 52 per coprire i crediti di imposta di chi utilizza agevolazioni per investimenti in campagne pubblicitarie locali; 106 milioni per l'acquisto di un sistema di telecomunicazione in standard Tetra per le forze di polizia. E vai a capire perché.

Cavaliere all'attacco.

Insomma, un autentico pozzo senza fondo al quale si attinge per le esigenze più disparate rendendo vane le richieste di un disegno organico per il rilancio dell'economia meridionale. Sarà anche per questo che tra il 2007 e il 2008 arriva una mezza rivoluzione per il Fas. L'intento sembra quello di fare ordine e voltare pagina, in concreto si gettano le premesse per l'ultimo grande scippo. Cominciamo dai soldi. Il governo Prodi riprogramma le risorse per il Meridione e con la Finanziaria 2007 stanzia a carico del Fas 64 miliardi 379 milioni, un autentico tesoro. Con tanti soldi a disposizione e l'esperienza negativa dei decenni di intervento straordinario a favore del Mezzogiorno, sembra l'inizio di una nuova era: il Sud deve solo pensare a spendere con raziocinio. Invece all'inizio del 2008 esce di scena Prodi e rientra in gioco Berlusconi. Che, per coprire le spese dei pochi interventi di politica economica che riesce a varare, ricomincia a saccheggiare proprio il Fas, una delle poche voci di bilancio davvero carica di soldi. Non è un caso perciò se a fine 2008 il Fondo si vede sottrarre altri 12 miliardi 963 milioni per finanziare una serie di provvedimenti tra cui quelli che foraggiano le aziende viticole siciliane carissime al sottosegretario Micciché (150 milioni); l'acquisto di velivoli antincendio (altri 150); la viabilità di Sicilia e Calabria (1 miliardo) e la proroga della rottamazione dei frigoriferi (935 milioni); l'emergenza rifiuti in Campania (450); i disavanzi dei comuni di Roma (500) e Catania (140); la copertura degli oneri del servizio sanitario (1 miliardo 309 milioni); le agevolazioni per i terremotati di Umbria e Marche (55 milioni) e perfino la copertura degli oneri per l'assunzione dei ricercatori universitari (63).

Tagli dolorosi-
E siamo solo all'assaggio. Un altro taglio da un miliardo e mezzo arriva per una serie di spese tra cui quelle per il G8 in Sardegna (100 milioni) marchiato dagli scandali; per l'alluvione in Piemonte e Valle d'Aosta (50 milioni); la copertura degli oneri del decreto anticrisi 2008 e gli accantonamenti della legge finanziaria; gli interventi per la banda larga e per il finanziamento dell'abolizione dell'Ici (50 milioni). 

Il secondo elemento della 'rivoluzione' del 2008 è costituito dalla trovata di Berlusconi e Tremonti di riprogrammare e concentrare le risorse del Fas (ridotto nel frattempo a 52 miliardi 400 milioni) su obiettivi considerati "prioritari per il rilancio dell'economia nazionale". Come? Anzitutto, attraverso la suddivisione dei soldi tra amministrazioni centrali (25 miliardi 409 milioni) e Regioni (27 miliardi). Poi con la costituzione di tre fondi settoriali: uno per l'occupazione e la formazione; un altro a sostegno dell'economia reale istituito presso la presidenza del Consiglio; un terzo denominato Infrastrutture e che dovrebbe curare il potenziamento della rete infrastrutturale a livello nazionale, comprese le reti di telecomunicazioni e energetiche, la messa in sicurezza delle scuole, le infrastrutture museali, archeologiche e carcerarie. Denominazioni pompose ma che in realtà nascondono un unico disegno: dare il via al saccheggio finale. 

Al Fondo per l'occupazione e la formazione vengono per esempio assegnati 4 miliardi che trovano i primi impieghi per finanziare la cassa integrazione e i programmi di formazione per i lavoratori destinatari di ammortizzatori sociali. Quanto al fondo per il sostegno all'economia reale finanziato con 9 miliardi va a coprire le uscite per il termovalorizzatore di Acerra (355 milioni); gli altri sperperi per il G8 alla Maddalena (50), mentre 80 milioni se ne vanno ancora per la rete Tetra delle forze di polizia in Sardegna; un miliardo per il finanziamento del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese; 400 milioni per incrementare il fondo 'conti dormienti' destinato all'indennizzo dei risparmiatori vittime delle frodi finanziarie; circa 4 miliardi per il terremoto in Abruzzo; 150 milioni per gli interventi dell'Istituto di sviluppo agroalimentare amministrato dal leghista Nicola Cecconato; 50 milioni per gli interventi nelle zone franche urbane; 100 per interventi di risanamento ambientale; 220 di contributo alla fondazione siciliana Rimed per la ricerca biotecnologica e biomedica.

Senza fondo.

Ma la vera sagra della dissipazione si consuma all'interno del fondo Infrastrutture (12 miliardi 356 milioni di dotazione iniziale) dove il Sud vede poco o niente. Le sue dotazioni se ne vanno per mille rivoli a coprire i più svariati provvedimenti governativi: 900 milioni per l'adeguamento dei prezzi del materiale da costruzione (cemento e ferro) necessario per riequilibrare i rapporti contrattuali tra stazioni appaltanti e imprese esecutrici dopo i pesanti aumenti dei costi; 390 per la privatizzazione della società Tirrenia; 960 per finanziare gli investimenti del gruppo Ferrovie dello Stato; un altro miliardo 440 milioni per i contratti di servizio di Trenitalia; 15 milioni per gli interventi in favore delle fiere di Bari, Verona, Foggia, Padova. 
Ancora: 330 milioni vanno a garantire la media-lunga percorrenza di Trenitalia; 200 l'edilizia carceraria (penitenziari in Emilia Romagna, Veneto e Liguria) e per mettere in sicurezza quella scolastica; 12 milioni al trasporto nei laghi Maggiore, Garda e Como. Pesano poi sul fondo Infrastrutture l'alta velocità Milano-Verona e Milano-Genova; la metro di Bologna; il tunnel del Frejus e la Pedemontana Lecco-Bergamo. E poi le opere dell'Expo 2015 che comprendono il prolungamento di due linee della metropolitana milanese per 451 milioni; i 58 milioni della linea C di quella di Roma; i 50 per la laguna di Venezia; l'adeguamento degli edifici dei carabinieri di Parma (5); quello dei sistemi metropolitani di Parma, Brescia, Bologna e Torino (110); la metrotranvia di Bologna (54 milioni); 408 milioni per la ricostruzione all'Aquila; un miliardo 300 milioni a favore della società Stretto di Messina. E non per le spese di costruzione della grande opera più discussa degli ultimi 20 anni, ma solo per consentire alla società di cominciare a funzionare.


http://m.espresso.repubblica.it/palazzo/2010/05/10/news/scippo-al-sud-1.21161?fbclid=IwAR1go6guvOzUrGraTjAoe3W0Pkvvp8GPNUQZBr5_j7khb16gfqrAiI8XIRY

Giuseppe Conte, perché il nome del premier blocca la trattativa: la trincea M5s e le resistenze del Pd (Zingaretti e Gentiloni in testa). - Martina Castigliani

Giuseppe Conte, perché il nome del premier blocca la trattativa: la trincea M5s e le resistenze del Pd (Zingaretti e Gentiloni in testa)

Il dialogo tra 5 stelle e Partito democratico si è incagliato sulla figura che dovrebbe guidare l'esecutivo giallorosso. Per i 5 stelle il presidente del Consiglio uscente è e rimane l'opzione più seria e quella capace di far partire un progetto di legislatura. Il segretario dem però non è convinto e, anche andando contro i suoi, insiste per cercare un nome terzo. Anche per questo ha buttato nel flusso di queste ore l'ipotesi Fico. Ma sa che corre il rischio di spaccare definitivamente il fronte avversario e far naufragare l'accordo.
“Giuseppe Conte non si tocca”. “Tutto ma non Giuseppe Conte”. Si è bloccata qui la trattativa tra Movimento 5 stelle e Pd, nel punto dove sarebbe stato più facile che si bloccasse: il nome del presidente del Consiglio di un futuro governo giallorosso. E’ il vicolo cieco che i pontieri hanno cercato di evitare il più a lungo possibile, ma nel quale i partiti, consapevolmente o meno, si sono infilati dopo poche ore. “Così non si va da nessuna parte”, commentano a mezza voce nei corridoi. La figura di chi dovrà guidare la futura squadra, se mai vedrà la luce, è il cappello di un progetto che entrambe le parti devono riuscire a far digerire ai propri elettori. Non è solo un garante, è il volto politico che dà legittimità al grande cambio di schieramento e nessuno è disposto a fare un passo indietro. Nessuno, soprattutto, è in condizione per farlo a cuor leggero. I 5 stelle stanno in trincea e da lì non si muovono: l’avvocato lo hanno voluto loro e, grazie alla spinta pubblica di Beppe Grillo, è anche l’unico che per ora mette tutti d’accordo (eletti e base di attivisti). Il Partito democratico è ancora più in difficoltà: i parlamentari, non solo i renziani, rifuggono le urne e sono pronti ad accettare Conte, ma il segretario Nicola Zingaretti (con il sostegno del fronte Gentiloni) insiste nel mettere il veto. Anche a costo di far saltare il tavolo. Le fonti M5s dicono che ora Luigi Di Maio si prende tempo per aspettare che i dem elaborino l’ultimatum su Conte e qualsiasi altra alternativa sarebbe difficile da digerire; le fonti Pd prima replicano dicendo che sono i 5 stelle a dover pensare ad un altro nome. Poi buttano sul tavolo la carta: Roberto Fico, presidente M5s della Camera. Sembra la via per uscire dal vicolo cieco, ma il rischio è che sia la strategia perfetta per farli schiantare: non solo è un “ni” per il Pd, ma divide pure i grillini (e men che meno piace a Di Maio). Insomma, per non sbagliare, non si muove nessuno. E intanto il tempo scorre. Sergio Mattarella martedì farà partire il secondo e, molto probabilmente, ultimo giro di consultazioni e i partiti dovranno farsi trovare pronti con un nome. L’irritazione del capo dello Stato di fronte alla sfilata di esponenti politici incapaci di trovare un’intesa è stata chiara al termine del primo round e nessuno riuscirà a strappare una terza occasione.
La carta Roberto Fico – L’idea è cominciata a circolare nel tardo pomeriggio di ieri e porta la firma degli zingarettiani. “Se proponiamo il loro presidente della Camera, come possono rifiutare”, è il ragionamento. “Pensano sempre che siamo un partito come gli altri”, è il commento che arriva dai vertici M5s. “E che questa sia una trattativa da vecchia Repubblica”. Non lo è, soprattutto perché le mosse per ora restano caotiche e poco organizzate. “Fico buttato così nel mucchio”, fanno sapere i grillini, “è un altro modo per bruciare i ponti”. Cosa non convince il fronte M5s? Intanto la resistenza di Di Maio. E’ stato lui il primo a far sapere, al momento dell’avvio delle trattative, che su Fico leader non avrebbero dato il via libera. Era tre giorni fa, che a livello politico equivale a dire un’epoca fa. Ma difficile che il capo politico abbia cambiato idea così in fretta, soprattutto perché in tanti, tra i 5 stelle, ritengono che non sia il nome che può convincere la base all’accordo. Sarebbe la scelta naturale (profilo, stima istituzionale e capacità di dialogo con il Pd), ma Zingaretti sa bene che è invece la strada che può spaccare il mondo grillino definitivamente.
La trincea M5s – Per i 5 stelle in questi momenti di confusione c’è una sola bussola da seguire: la parola di Beppe Grillo. Il fondatore che si era fatto da parte e taceva da mesi ormai, è tornato in campo e non solo ha chiesto un accordo con il Partito democratico, ma ha scritto un post per sostenere l’ex premier. Un endorsement arrivato nel momento più critico, mentre da una parte Luigi Di Maio rialzava la posta e Alessandro Di Battista chiedeva di tenersi pronti al ritorno alle urne. Secondo alcuni una strategia coordinata per mettere pressione al Partito democratico, secondo altri, semplicemente, i tentativi scomposti di tenere aperte più strade possibili. La vera preoccupazione è come spiegare ai propri attivisti la necessità di sedere al tavolo con il Pd, poche settimane dopo aver loro fatto accettare il decreto Sicurezza bis. E soprattutto dopo anni che i democratici (Matteo Renzi in primis) sono additati come nemici pubblici. L’eventuale accordo infatti, dovrà per forza passare dalla piattaforma Rousseau per avere il via libera degli iscritti del Movimento. Ecco, proprio quel passaggio, se non dovesse avere la faccia di Conte sopra, rischia di essere più difficoltoso del previsto. C’è poi da fare i conti con le ambizioni interne dei vari esponenti: Di Maio sa che il Pd potrebbe chiedere la sua testa, senza dimenticare che lui stesso è già al secondo mandato e non è detto possa avere una deroga se si tornasse al voto; Di Battista punta alle urne dall’inizio della crisi o almeno spera di tornare ad avere un ruolo istituzionale per poter avere più peso sulla linea del Movimento; il gruppo parlamentare vuole evitare le urne a tutti i costi per il rischio di non essere più candidato. Nell’ombra, cercando di proteggere il suo ruolo super partes da presidente della Camera, si muove appunto Fico: non parla ma coltiva i contatti con i democratici. E Zingaretti, proprio come si aspettavano in tanti, ha scelto proprio lui per buttare altri nomi nel fuoco delle trattative. “Si rassegni chi vuole andare alle urne”, ha detto uno dei suoi protetti, il deputato Giuseppe Brescia, “Di Maio ha ricevuto mandato pieno dall’assemblea, lasciamolo lavorare in silenzio”.
La guerra interna del Pd- Di quello che avviene dentro il Pd in queste ore, ci sono almeno due versioni. La prima, quella che in teoria dovrebbe essere considerata ufficiale, viene dallo staff di Nicola ZingarettiIl segretario venerdì sera ha avuto un confronto “cordiale” con il leader Di Maio. I colloqui tra i capigruppo sul programma sono stati “costruttivi” e non sono emersi “ostacoli insormontabili”. Ma, c’è un “ma” molto grosso e si chiama, appunto, Giuseppe Conte. Gli zingarettiani assicurano che il segretario non vuole far passare il nome del premier uscente perché non sarebbe accettabile per i suoi: rappresenta il passato e il governo gialloverde. Su questo, dicono le stesse fonti, ci sarebbe anche l’intesa con Renzi. Addirittura, la terza via, ovvero l’idea di proporre Fico, avrebbe già il via libera di tutte le correnti democratiche. La seconda storia invece, la raccontano i renziani e l’ala sinistra (quella che guarda ad Andrea Orlando e agli ex Ds). Conte va bene a tutto il gruppo parlamentare Pd, che per la maggior parte è pronto ad accettare l’intesa. Insomma, non pensano che sia il grande statista, ma non vedono alternativa che, in così pochi giorni, possa mettere d’accordo tutti e soprattutto sembra la soluzione migliore in chiave anti Salvini. Tesi confermata dallo stesso Renzi sabato sera, dopo le parole di Conte che ha escluso un suo ritorno con la Lega. Il discorso in Senato, affrontato facendo leva sulla Costituzione, ha dimostrato che per il momento l’avvocato può essere lo scudo all’avanzata della destra. Lo dicono i renziani, ma non solo, lo dicono in tanti, anche tra ex ministri dei governi Renzi e Gentiloni e intellettuali di riferimento dell’ala sinistra. E sempre loro, raccontano diverse fonti qualificate a ilfattoquotidiano.it, si chiedono come mai Zingaretti insista sul veto a Conte, senza che nel mandato votato all’unanimità dalla direzione Pd, si fosse mai fatto esplicito riferimento al nome del premier. Insomma, nessuno ha dato il via libera al segretario a mettersi di traverso esplicitamente su questo punto. Anche l’idea Fico lascia tiepidi: il volto forte c’è già e le altre opzioni sembrano proposte per far naufragare le trattative (soprattutto se, come dicono, Zingaretti farà direttamente quel nome al capo dello Stato). La convinzione del leader è dall’inizio e rimane, che per il Pd sarebbe meglio andare alle urne e fare la campagna elettorale come fronte contro l’avanzata delle destre. Una posizione legittima, ma che non è condivisa, questa sicuramente no, all’unanimità. Specie da chi rischia seriamente il posto in Parlamento. Eccolo il vicolo cieco. Lo è per i 5 stelle. Ma pure per i democratici. E, se non trovano l’intesa, a Mattarella non resterà che rimandare tutti a elezioni anticipate.

Salta la giuntura di un ponte sulla statale Agrigento-Caltanissetta: danni ad auto.

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Foto Grandangolo Agrigento

Numerose auto hanno subito danni ieri sera a causa del movimento di un giunto su un viadotto della statale 640 Agrigento-Caltanissetta, nel territorio comunale di Racalmuto. Il giunto ha creato un gradino sulla sede stradale e al buio non era visibile. Le auto hanno riportato danni prevalentemente alle gomme e ai cerchioni.

Sul posto sono intervenuti polizia stradale, carabinieri e Anas (che gestisce l’arteria). Gli automobilisti saranno risarciti su richiesta e presentazione dei giustificativi di spesa. Non si registrano danni a persone.

La statale 640 è stata recentemente battezzata la «Strada degli scrittori» perché attraversa luoghi che hanno dato i natali a importanti nomi della letteratura come Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Un tratto dell’arteria - che presenta numerosi viadotti e doppia corsia - è stato inaugurato nella primavera del 2017.

https://agrigento.gds.it/articoli/cronaca/2019/08/25/salta-la-giuntura-di-un-ponte-sulla-statale-agrigento-caltanissetta-danni-ad-auto-51560b8b-3607-4794-af7e-9d1a29742adb/?fbclid=IwAR0424BAXLucmvYUu3gWJf-wXqnV_pL3gS3fDXNV70rSjqEP-5CGW2_Tiok


Mi domando, a fronte delle salatissime tasse che paghiamo, che cosa ci foriniscono?

«Alexa, quanto fa 327 diviso 3?». I compiti ai tempi dell’assistente virtuale. -Francesca Milano



Sempre più studenti ricorrono ad app e ad altri dispositivi tecnologici per svolgere gli esercizi a casa. E si riapre il dibattito sull’utilità o meno dello studio fuori dagli orari di lezione.


«Alexa, quanto fa 327 diviso 3?». Altro che divisioni in colonna e calcoli a mente. Oggi i compiti si fanno con la tecnologia. Anzi, si fanno fare alla tecnologia. Il che riapre il dibattito sulla loro efficacia. Servono ancora? Oppure è inutile fingere di esercitarsi sulle operazioni matematiche se per avere il risultato basta chiedere aiuto a un dispositivo e per tradurre la versione di latino basta cercare online? Il dibattito è aperto.
Si potrebbe obiettare che da quando i docenti hanno inventato i compiti a casa, gli studenti hanno trovato il modo di alleggerire l’onere, sempre grazie agli strumenti tecnologici. Un tempo ci si dettavano gli esercizi per telefono, oggi ce li si fa dettare dall’assistente virtuale.
Esistono siti e app che contengono le risposte alle domande di tutte le materie che si studiano in ogni ordine e grado scolastico. E addirittura si può copiare senza leggere, risolvere gli esercizi di matematica fotografando la pagina del libro o ancora farsi leggere dall’assistente virtuale un testo. E poi ci sono le app per condividere i compiti e farsi dare una mano da chi è più bravo, o ancora le app che spiegano in maniera sintetica i principali concetti di storia, filosofia e letteratura.
«Tutto questo dimostra che i compiti a casa sono inutili - spiega Maurizio Parodi, dirigente scolastico e autore del libro “Così impari: Per una scuola senza compiti” -, anzi sono dannosi: l’unico effetto che sortiscono è la repulsione per lo studio e il rifiuto del libro, che viene visto come strumento di tortura».
Secondo Parodi è a scuola che bisogna imparare, non a casa. Come avviene in Finlandia, per esempio, dove i compiti sono stati aboliti ma allo stesso tempo (o forse proprio grazie a questo?) il livello di istruzione è tra i più alti. «La Francia - racconta Parodi - sta sperimentando lo studio accompagnato, strumento utile per evitare le disuguaglianze sociali causate proprio dai compiti». Infatti, secondo Parodi, i bambini svantaggiati a scuola, lo sono doppiamente se a casa non possono contare sull’aiuto dei genitori.