sabato 29 giugno 2019

Sea Watch, a bordo sono tutti pagati. Non ci sono più i radical chic di una volta. - Massimiliano Sfregola

Sea Watch, a bordo sono tutti pagati. Non ci sono più i radical chic di una volta

Oggi ho scoperto qualcosa di sensazionale grazie a Panorama (e già è una notizia che Panorama pubblichi qualcosa degno di nota). Reggetevi forte e ingoiate una compressa di Xamamina: la crew di Sea Watch sarebbe pagata. Già, avete capito tutti: pa-ga-ta. Non sono fichetti radical chic che spendono i soldi delle famiglie per fare i missionari come pensavate, ma veri e propri dipendenti di una Organizzazione non governativa che la stampa buonista continua a chiamare “volontari”. Ma quale volontariato! Pensate un po’: percepirebbero fino a 2000 euro al mese per stare a bordo e questo scoop spiegherebbe tante cose.
Pensateci: chi non andrebbe a farsi strizzare le budella dal mare grosso per due o tre settimane di fila, a gestire una delle situazioni più borderline che la psiche umana possa concepire, per 1500-2000 euro? Ovvio che la Ong organizza missioni continue: a questa cifra, ci sarà certamente la fila. D’altronde, parliamoci chiaro: quale preparazione ci vorrà mai per prendersi cura a 45 gradi di donne incinte, bambini, donne stuprate, uomini trattati come bestie per mesi o anni nello spazio calpestabile di una cantina o per tenere la calma laddove anche Cristo in persona cercherebbe una scialuppa per fuggire? Ma nessuna, è ovvio. Eppure prendono più di un animatore in crociera, per stare in mare giusto qualche settimana, si lamentano con frasi buoniste del tipo “siamo allo stremo”. Roba allucinante.
Se un odiatore qualsiasi, o un amplificatore editoriale di odio qualsiasi, si disperano per il cane che ha commosso il web (quello con il carrellino al posto delle zampe posteriori, presente no? Abbiamo una clip per ogni specie) e schiumano di rabbia per il salvataggio di un essere umano è semplicemente buonsenso. Così come è buonsenso che non esistano samaritani e chiunque là fuori faccia qualcosa non potrà che farlo per un doppio fine: in questi casi un lauto stipendio a tre zeri.
E non parliamo di quanto si può fare in Olanda, stato di bandiera di Sea Watch, con 1500 euro: niente. Millecinquecento è quanto si prende con il bijstand, il reddito di cittadinanza olandese. O da cassiere junior ad Albert Heijn, la catena nazionale di supermercati. Badate bene, junior perché sopra i 23 anni prenderebbero di più. Così questi pseudo-mercenari avrebbero trovato l’America (anzi, l’Italia) prendendo somme che ad Amsterdam non sarebbero sufficienti neanche per pagare un affitto (lasciamo stare per vivere) da una organizzazione no profit. Chi non farebbe la fila per imbarcarsi?
Volete mettere i radical chic di una volta, quelli con “l’attico con vista centro storico (mettete città a piacere) a spendere i soldi di papà”? Questi nordici, da buoni calvinisti, invece, fanno come si fa in quelle nazioni con una cultura delle Ong: l’organizzazione si rende solida economicamente e lo staff si paga per consentirgli di svolgere l’attività di interesse generale a tempo pieno (e senza morire di fame). E non c’è mica solo lo staff di bordo: ci sono addetti stampa, ricercatori, lobbisti – già, perché Sea Watch si propone di cambiare l’approccio alle migrazioni e di promuovere una legislazione umana. Ma per farlo ha bisogno di chi cura i rapporti con la politica – e c’è tutta la struttura che deve tenere in piedi un’organizzazione di questo tipo.
I conti, naturalmente, sono opachi per Panorama – figuriamoci – perché evidentemente loro non hanno a che fare con il fenomeno delle donazioni, più difficili da gestire del meteo in Olanda: fare piani sulla base di donazioni è molto complesso, molto più complesso, per esempio, che per quelle testate con i conti in rosso ma con un editore sempre pronto a staccare assegni (ovviamente non parliamo di Panorama). Ecco, per una Ong, se i soldi non ci sono, la geometria delle attività cambia.
Oggi, insomma, grazie a Panorama ho capito quanto poco abbiamo capito della Sea Watch e di quanti salvano vite a pagamento (anche se, con quel pagamento, nei Paesi Bassi non si copre neanche l’affitto).
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Lo schiavismo dei buoni. 11.04.2016



Voluntas enim naturaliter tendit in bonum sicut in suum obiectum: quod autem aliquando in malum tendat, hoc non contigit nisi quia malum sibi sub specie boni proponitur. (Tommaso D’Aquino)
L’immigrazione di massa integra chiaramente un caso di guerra tra poveri. Non solo perché lo è nei fatti, con milioni di persone a contendersi alloggi insufficienti, lavori sottopagati o di bassa manovalanza criminale, periferie anguste e i palliativi di un welfare centellinato dai tagli. Ma anche perché così si vuole che sia – o quantomeno ce la si mette tutta affinché lo diventi.
Nei giorni in cui il Comune di Milano decideva di trasferire 400 euro al mese a chi accogliesse un profugo nella propria abitazione, nella stessa città moriva di stenti Giovanni Ceriani, un disabile di cittadinanza italiana che si manteneva con un assegno di 186 euro al mese e un bonus comunale di 1.000 euro all’anno. Mentre scrivo, a La Spezia l’invalido Roberto Bolleri è in sciopero della fame per rientrare in possesso del suo alloggio popolare occupato abusivamente da una famiglia di marocchini che, fanno sapere, usciranno solo quando il Comune avrà assegnato loro una sistemazione adeguata in deroga alle graduatorie. In Germania l’infermiera Bettina Halbey e la sua vicina di casa stanno per essere sfrattate dal Comune di Nieheim: dovranno lasciare i loro appartamenti ai richiedenti asilo, mentre nel resto del paese si espropriano immobili privati e si evacuano scuole pubbliche, per lo stesso motivo.
Non c’è bisogno di essere leghisti per capire che finirà male, malissimo.
In un sistema di finanza pubblica dove la scarsità di investimenti è postulata come un dogma, è inevitabile che i poveri e gli impoveriti si contendano le briciole e temano l’arrivo di nuove bocche da sfamare. Tanto più se quello stesso sistema predica anche la scarsità dei salari e delle tutele come una virtù e la scarsità di lavoro come una colpa, non lasciando ai deboli altra scelta che un cannibalismo di sopravvivenza in cui l’odio etnico e razziale è solo il pretesto di una guerra per bande.
C’è del dolo o comunque una sterminata irresponsabilità in chi sostiene queste politiche di scarsità e al tempo stesso auspica corridoi umanitari per prelevare gli stranieri alla fonte, chiede la rimozione dei blocchi alle frontiere e sogna di accogliere 300-400 mila persone ogni anno se non 30 milioni in 15 anni. Salvo poi, al delinearsi di una catastrofe umanitaria che colpirebbe tutti – in primis gli immigrati di cui si fanno paladini – sfoderare il ferro vecchio della rivoluzione culturale e rimproverare ai sudditi il vizio della xenofobia lanciando vibranti campagne contro l’odio. Quasi fossero, la xenofobia e l’odio, patologie dalle origini oscure da debellare con la profilassi (nei giovani) e gli antibiotici (nei vecchi) e non un’etologica conseguenza delle politiche da loro stessi create.
C’è del dolo e dell’irresponsabilità in questa filantropia a spese degli altri, ma c’è anche e soprattutto il suo contrario, cioè del razzismo. Che non è il razzismo di cui si lamentano i progressisti: l’islamofobia e il disprezzo di civiltà diverse che, deplorabile e insensato a parere di chi scrive, è già condannato a reti unite e sarà presto oggetto di un’apposita commissione per la schedatura dei reprobi. E neanche l’autorazzismo di cui si parla quando i bisogni degli stranieri sono anteposti a quelli degli autoctoni. Il razzismo dei buoni colpisce invece proprio loro: gli immigrati, che protegge a parole e trasforma nei fatti in strumenti di un piccolo e penoso esercizio di autocertificazione etica e di un più grande disegno socio-economico di sfruttamento degli ultimi.
L’idea che abbiamo bisogno (?) dello sperma di milioni di disperati per ripopolare un continente in stasi demografica, o delle loro braccia per svolgere i lavori che gli italiani non vogliono più fare (cioè quelli sottopagati) non differisce in principio dalle deportazioni degli schiavi africani negli Stati Uniti del sud o dei forzati nelle colonie inglesi da ripopolare. Allora li si prelevava con la violenza, oggi li si costringe con la violenza del debito, della guerra e dello sfruttamento – che i deportazionisti buoni chiamano rispettivamente aiuti (sic) internazionali, missioni di peacekeeping e investimenti diretti esteri, e li sostengono pulendosi la coscienza con un’agile mossa lessicale. Ritenere normale che alcuni paesi del mondo, i più poveri, siano serbatoi di carne umana da ricollocare alla bisogna dei meno poveri soddisfa i requisiti non solo del razzismo, ma anche dello schiavismo tout court, e tradisce un disprezzo ignaro ma totale del diritto di queste popolazioni a vivere in pace e prosperità nelle proprie terre di origine.
In quanto al ritornello de i-lavori-che-gli-italiani-non-vogliono-più-fare, gira da almeno 20 anni ed è un classico esempio di come si peggiora un problema vero (l’abbassamento dei salari) con una soluzione falsa (l’immigrazione). Se molti mestieri non garantiscono redditi sufficienti per condurre una vita dignitosa nonostante siano richiesti dal mercato e in molti casi indispensabili, c’è evidentemente un problema di allocazione dei frutti del lavoro, che dalla base produttiva si spostano verso l’alto, ai dirigenti e ai grandi imprenditori fino a raggiungere lo stretto vertice degli investitori finanziari e dei loro vassalli. E se il lavoro vale sempre di meno, in ciò non aiuta la velleità di competere a frontiere aperte e a cambio fisso con i paesi che ci hanno preceduto nello sfruttamento in larga scala, condannandoci a una guerra globale tra poveri dove vince chi compra il lavoro, non chi lo svolge.
Per chi si dice di sinistra questi concetti dovrebbero essere pane quotidiano, se non fosse che l’oppio del moralismo gli ha fatto credere che gli italiani sono pigri e viziati e “non vogliono sporcarsi le mani”, mentre invece i migranti sarebbero baciati da una voglia di fare e di migliorarsi attraverso il lavoro duro, umile e senza pretese. Nel raccontarsi questa fiaba si inanellano almeno tre obbrobri: 
1) il disprezzo per i propri connazionali che lottano per preservare i diritti e il benessere conquistati con il sangue degli avi, oggi derubricati a “privilegi”
2) la celebrazione della propria eccezione etica (per la nota Equazione di Scanavacca) e, 
3) in quanto agli stranieri, la certificazione del loro status di morti di fame disposti a tutto per un pugno di riso, di selvaggi che tutto sommato possono fare a meno del set completo di tutele e benefici formalmente garantiti a chi è nato nell’emisfero dei ricchi.
Se i primi due punti meritano compassione, trattandosi in ultima analisi di autolesionismo, il terzo suscita rabbia e stupore per i modi in cui i concetti antichi di colonialismo, paternalismo e sfruttamento sono riusciti a riciclarsi nei panni dei buoni sentimenti. L’unica, amarissima, consolazione è che chi ammette la deportazione del povero a beneficio del ricco – sia pure con la bonomia della dama coloniale che getta caramelle ai negretti – deve prepararsi a seguirne la sorte mettendosi al servizio di chi è ancora più ricco, come sta accadendo.
Forse un giorno ci si accorgerà che combattere la povertà importando poveri, lo schiavismo importando schiavi e la disoccupazione importando disoccupati non è una buona idea – da qualsiasi parte politica la si guardi. Quel giorno, italiani e stranieri, ovunque ci troveremo, sapremo chi ringraziare. 
Fonte: http://ilpedante.org
Link: http://ilpedante.org/post/lo-schiavismo-dei-buoni

Caporalato, blitz nel Foggiano: arrestati due imprenditori, commissariata azienda agricola.

Caporalato, blitz nel Foggiano in grande azienda agricola: sequestri e ordinanze cautelavi


Per la prima volta in Capitanata, posta sotto controllo giudiziario l’azienda che si estende su di una superficie di circa 50 ettari e che fornisce prodotti ortofrutticoli a importanti ditte dell’agroalimentare.

Nell’ambito di una operazione anticaporalato, la Procura della Repubblica e i carabinieri di Foggia hanno eseguito una ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari nei confronti di due imprenditori agricoli del Foggiano. I due sono accusati di sfruttamento del lavoro irregolare.
Inoltre, per la prima volta in Capitanata, è stata posta sotto controllo giudiziario l’azienda agricola dei due imprenditori che si estende su di una superficie di circa 50 ettari e che - raccontano gli inquirenti - fornisce prodotti ortofrutticoli a importanti ditte dell’agroalimentare. Una trentina i braccianti trovati irregolari nell’azienda.
Stando a quanto sostenuto dagli investigatori all’interno della stessa dell’azienda sono stati anche posti sotto sequestro quattro, cinque container, utilizzati dai due imprenditori come alloggi di fortuna per i braccianti agricoli. Si tratta di abitazioni fatiscenti ed in pessime condizioni igienico- sanitarie dove - a dire degli inquirenti - venivano letteralmente stipati i migranti. I particolari dell’operazione verranno resi noti in una conferenza stampa che si terrà alle 10 presso la Procura della Repubblica di Foggia.

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/foggia/1154525/caporalato-blitz-nel-foggiano-in-grande-azienda-agricola-sequestri-e-ordinanze-cautelavi.html


Ecco che cosa vuole alimentare la parte peggiore del paese: permettere, a persone di dubbia integrità morale, che i migranti, approdati sulle nostre coste con la speranza di una vita migliore, vengano usati come schiavi malpagati e bistrattati per puro scopo di maggiore lucro.

Se la Sea Watch fosse quotata in borsa Salvini starebbe zitto. - Beppe Grillo


Borsa Italiana, Piazza degli Affari, Milano - Opera di Maurizio Cattelan.

di Beppe Grillo e il suo neurologo – Il presidente di Confindustria è pienamente armonizzato con le tre sigle sindacali, era necessario che il MoVimento andasse al governo perché accadesse una cosa del genere!
In sostanza CGL, CISL e UIL, insieme a Boccia, hanno formato una specie di eclissi a forza di girarci attorno. Nell’oscurità del cono d’ombra che formano questi resti della storia si minacciano tranquillamente i governi!  Se qualcosa va storto con una concessionaria di un servizio pubblico fondamentale del paese, fatevi i cazzi vostri, sono quotati in borsa. Come se la stessa parola “Nazione” fosse troppo grossa: lo stato e i cittadini si devono infantozzare di fronte ai magliari multicolore, i Benetton e le grandi società quotate nel gran mercato.
Parlando di grosse società, ancora di più “se quotate in borsa” un governo dovrebbe accettare passivamente che la sua concessione crolli, divida in due Genova,  uccida 43 persone e distrugga pure un quartiere.
“Ok, grazie, siete fantastici, però quelli erano i nostri cittadini, quella è la nostra città e il ponte lo hanno pagato gli italiani! Adesso siete fuori!” Unica Possibile Reazione Plausibile (UPRP)
Però Boccia dice che “…servirebbe una valutazione più a freddo del linguaggio da usare…” di fronte ad una grande società sana come Atlantia…
Sana? Cosa significa sano oggi? Gli amici che “rappresentano” i cittadini ti danno in concessione un pezzo vitale del paese e tu non te ne prendi cura, ti rifiuti di risponderne senza vergogna. Potrebbe anche essere… l’incapacità di provare vergogna è la nuova definizione di salute (mentale) chi lo sa.
Sono morti in 43, uno in più dei poveracci che sono bloccati sulla nave di fronte a Lampedusa. Per il primo gruppo il mondo civile è contento se facciamo finta di niente, se non sbarcano quelli del secondo gruppo invece siamo dei criminali.
Non importa a nessuno come la pensi, la vera questione è che la Sea Watch non è quotata in borsa! E’ un mondo cacotopico, uno dei sinonimi di “distopico.” Cosa significa CACOTOPICO? Che viviamo in un futuro che tradisce tutte le aspettative più rosee di un lungo e noiosamente entropico dopoguerra.
Si perché noi siamo ancora nel dopoguerra, viviamo le conseguenze della crisi del ’29 e della guerra mondiale che l’ha seguita. Un’utopia alla rovescia, questa è una cosa cacotopica!
Così, il nostro CacoCapitano è un eroe contro i deboli, mentre l’eternamente imberbe non riesce a trovare la concentrazione necessaria a mandare a quel paese la cachessia delle idee che sta travolgendoci.
Se è un brutto sogno… svegliamoci, se siamo svegli: agiamo!
C’è una terza possibilità: lasciamo fare al mondo della finanza, forse si accorgono che la Sea Watch è quotata in borsa tramite qualche altra “controllata” come sembra esserlo tutto il mondo, tranne l’Africa (forse).
Pensateci: questo è uno dei paesi più evoluti della terra, mica noccioline.


http://www.beppegrillo.it/se-la-sea-watch-fosse-quotata-in-borsa-salvini-starebbe-zitto/?fbclid=IwAR2jKpKrJ5HuKk6oGHPt6jVlGouggcdjPSPK5yHGg65NULxfKdg-G_AUxe4

La Gdf contro Carola Rackete, "ci ha schiacciati sulla banchina, abbiamo rischiato di morire." -



Ignorato tre volte l'alt, poi il contatto fra la Sea Watch e la motovedetta dei finanzieri. Procuratore di Agrigento: "Violenza inammissibile."


L’ultima disobbedienza di Carola Rackete poteva avere conseguenze gravi per l’incolumità della Guardia di Finanza. Dinanzi alla decisione della comandante della Sea Watch di riaccendere i motori e dirigersi verso il porto, i finanzieri hanno intimato per tre volte l’alt. Ma lei lo ha ignorato. La motovedetta della Gdf ha tentato di frapporsi fra la banchina e la nave per impedire l’attracco, ma anche in questo caso Carola non si è fermata fino all’incidente con l’imbarcazione dei finanzieri.
“Abbiamo rischiato di morire” dicono fonti della Gdf all’Adnkronos, che parlano di “azione criminale” nel forzare il blocco, perché “siamo rimasti schiacciati sulla banchina” e a bordo della motovedetta si è respirato un clima di “terrore” perché “ci siamo visti addosso a noi un bestione da 600 tonnellate”.
“Le ragioni umanitarie non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi in divisa lavora in mare per la sicurezza di tutti” dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio.
La Guardia di Finanza ha sequestrato d’ iniziativa la nave Sea Watch. Le Fiamme gialle, dopo le operazioni di sbarco dei migranti che erano a bordo della Sea Watch, sono salite a bordo e hanno preso il comando della nave. La nave è stata portata fuori dal porto, in rada.

La Sacra Famiglia - Marco Travaglio


E niente, in questa valle di lacrime non si fa che piangere a dirotto. Avevamo appena finito di commuoverci per i caldi abbracci e i teneri petting dei vincitori olimpici a Losanna, sublimati in liriche corali da Francesco Merlo, il Pindaro di Repubblica. E, quando i cigli erano ormai asciutti, ci siamo ricascati. È stato per gli strazianti gridi di dolore sul proditorio attacco di Luigi Di Maio, “a mercati aperti”, contro la concessionaria autostradale Atlantia della Sacra Famiglia Benetton (sempre sia lodata). Proprio alla vigilia della demolizione di quel che restava del Ponte Morandi, orgoglio e vanto della nazione tutta, purtroppo crollato il 14 agosto per una tragica fatalità causata dal destino cinico e baro, fors’anche dalle avverse condizioni meteorologiche (pioveva). 
L’idea che il crollo di un viadotto autostradale, col contorno di 43 morti e decine di feriti, fosse imputabile alla mancata manutenzione e all’inosservanza dei più elementari obblighi e norme di sicurezza da parte della società che lucrosissimamente lo gestiva dal 1999, fu subito scartata e bollata dai principali organi di stampa (foraggiati dai Benetton con pubblicità e altri aiutini) come sintomo di gravissime patologie. Nell’ordine: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina e di Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice No a tutto, deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, barbarie, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, decrescita, oscurantismo (citazioni testuali da Repubblica, Corriere, Stampa e Giornale).
Provvide poi Merlo, il Vate del Laterizio, a risarcire i poveri Benetton con un’imperitura intervista a Luciano, di cui per brevità citiamo soltanto l’incipit: “È vero che il crollo del ponte Morandi con i suoi 43 morti ha ferito lei e ucciso suo fratello?”. Mancava solo una richiesta di danni ai defunti. Ora Di Maio smentisce a Porta a Porta (programma che va in onda a mercati chiusi, ma anticipa le risposte registrate a mercati aperti) le voci su Atlantia nella nuova Alitalia. E ricorda l’impegno del governo tutto (Salvini incluso) ai funerali di Genova sulla revoca della concessione ad Atlantia che, se perdesse le autostrade, sarebbe una scatola vuota “decotta”. La società lo accusa di “perturbare l’andamento del titolo Atlantia in Borsa” con “gravi danni reputazionali per la società, che si riserva ogni iniziativa legale a tutela dei propri interessi”. Come se la revoca della concessione, annunciata 10 mesi fa, fosse un fulmine a ciel sereno.
Come se qualcuno potesse peggiorare la reputazione di un gruppo che ha lasciato crollare il Morandi e ha visto i suoi dirigenti condannati in primo grado per un’altra strage, quella di Avellino (altri 40 morti), dovuta ai guardrail marci. 
Come se uno dei massimi rappresentanti del governo e del partito di maggioranza relativa dovesse tapparsi la bocca sulle gravissime responsabilità di un concessionario pubblico solo perché è quotato in Borsa, oppure parlarne soltanto bene (possibilmente a mercati aperti). Il caso ricorda gli alti lai del gruppo Caltagirone quando la Raggi, in campagna elettorale del 2016, osò ventilare un cambio della guardia in Acea, partecipata dal Comune di Roma e da Caltagirone. Il quale, tramite gli appositi Messaggero e Pd, la accusò di aver causato un calo in Borsa (tre giorni dopo le sue dichiarazioni). Stavolta i primi a insorgere, in stereofonia con Atlantia, sono il Pd (per bocca di Raffaella Paita, candidata trombata alla Regione Liguria e dunque deputata), quel che resta di FI (Mara Carfagna) e Salvini in versione garantista: “Chi ha morti sulla coscienza pagherà, ma non faccio il giudice”: in effetti, i processi a Genova potrebbero appurare che il Morandi è crollato per la pioggia, o che è tutta colpa della Sea Watch.
E poi, naturalmente, i giornaloni. Corriere: “Ilva e Atlantia, l’attacco di Di Maio. Nel mirino le grandi imprese” (per la verità solo due: quella che ha lasciato crollare il ponte e quella che minaccia serrata e licenziamenti perché pretende l’immunità per i suoi reati, dandoli per scontati); “nella cultura politica del ministro Di Maio è facile riscontrare un pregiudizio di fondo nei confronti dell’impresa e della libera iniziativa” (di lasciar crollare i ponti). Repubblica, con la fotocopiatrice: “Il metodo gialloverde contro l’industria”, “la missione dei 5Stelle pare quella di affondare ciò che c’è – o che resta – dell’imprenditoria, in nome di una vendetta epocale contro un capitalismo considerato di rapina”, al punto di negare financo “l’immunità dalla responsabilità penale per il risanamento ambientale” (già ci par di vederli, i buoni samaritani di Mittal, che si dannano l’anima per bonificare l’Ilva e le toghe gialle istigate da Di Maio che li arrestano per il reato di risanamento ambientale). La Stampa, cioè la nuova Padania: “Salvini attacca: ‘Di Maio sbaglia. Atlantia assicura migliaia di posti. Attenti a dare giudizi sommari’” (meglio i suoi giudizi somari). Messaggero: “Quelle parole incaute che spaventano gli investitori”, “Salvini contro lo sfascia-tutto (Di Maio, non Atlantia, ndr)’”. 
Sole 24 Ore: “Troppo livore e parole in libertà”. Libero: “Di Maio vuole che Atlantia fallisca”. Giornale: “Il folle piano di Di Maio: un’Italia senza acciaio e i Benetton sul lastrico” (e neanche una pubblicità delle pecore col maglione). Non so a voi, ma a me, all’idea dei Benetton sul lastrico per una frase di Di Maio che rinunciano alla grigliata cortinese di ferragosto, è venuto da piangere. Vanno assolutamente risarciti. Magari facendogli costruire un bel ponte a Cortina. Tanto poi nel giro di cinque anni crolla e diventa un ottimo trampolino per le Olimpiadi del 2026.