sabato 9 settembre 2017

Intercettazioni, quando il Pd era contro il bavaglio. E Orlando diceva: “Bloccano la stampa con la scusa della privacy”. - Giuseppe Pipitone

Intercettazioni, quando il Pd era contro il bavaglio. E Orlando diceva: “Bloccano la stampa con la scusa della privacy”

Il guardasigilli che vorrebbe escludere i virgolettati delle intercettazioni dalle ordinanze dei magistrati sostituendole con un breve riassunto ("soltanto il richiamo al loro contenuto” c'è scritto nella bozza di decreto inviata ai procuratori italiani) è un nemico accanito della stretta sulle intercettazioni. Anzi era. "Il premier dovrebbe tener conto che l'80% delle intercettazioni in Italia viene disposto per reati di stampo mafioso". Come lui molti attuali ministri.

Il disegno di legge sulle intercettazioni? ”Con la scusa della privacy, che oltretutto non viene garantita dal ddl, data la farraginosità dei meccanismi, il provvedimento in realtà punta a bloccare la libertà di informazione e la capacità dello Stato, sottolineo dello Stato e non della magistratura, di condurre indagini contro i reati gravi”. Non è un esponente della sinistra nemica del Pd e neanche un estremista del Movimento 5 Stelle. Non è un leghista e non è neanche un ironico Renato Brunetta. Nossignore. Ad attaccare frontalmente la legge che mette un freno agli ascolti telefonici da parte delle procure è Andrea Orlando. Incredibile ma vero: il guardasigilli che vorrebbe escludere i virgolettati delle intercettazioni dalle ordinanze dei magistrati sostituendole con un breve riassunto (“soltanto il richiamo al loro contenuto” c’è scritto nella bozza di decreto inviata ai procuratori italiani) è un nemico accanito del bavaglio. Anzi, era. Almeno quando la stretta sulle registrazioni dei pm non è la sua. A volerla, una delle tante volte, era il governo di Silvio Berlusconi, con una legge che portava il nome di Angelino Alfano.
Il periodo, per intenderci, era quello compreso tra il 2009 e il 2010, culminato con le pagina bianca di Repubblica, i post-it gialli sugli articoli ( a proposito, che fine hanno fatto?), lo sciopero dei giornali e tutti i principali leader del Pd in prima linea contro la museruola che il Pdl voleva imporre alla stampa. “Il premier dovrebbe tener conto, tra l’altro, che l’80% delle intercettazioni in Italia viene disposto per reati di stampo mafioso, e purtroppo in questo campo sì l’Italia ha un triste record”, era un’altra delle infuocate dichiarazioni rilasciate da Orlando, all’epoca responsabile Giustizia del Pd di Pierluigi Bersani. Viene da chiedersi: ma oggi che è ministro della Giustizia che dati ha Orlando su intercettazioni e mafia?
Tuonavano contro il bavaglio berlusconiano anche molti altri big che oggi sono colleghi di Orlando al governo. “Limitare l’uso delle intercettazioni o addirittura proibirle significa fare il più grosso regalo possibile alla criminalità”, diceva tranciante il 10 febbraio 2010 Dario Franceschini, all’epoca capogruppo dem alla Camera e oggi ministro della Cultura. Non era meno diretta la sua parigrado al Senato, Anna Finocchiaro, oggi ministro per i Rapporti con il Parlamento. “Il disegno di legge sulle intercettazioni – diceva l’1 luglio del 2009 – è un altro modo per evitare che vengano perseguiti per atti molto gravi i soli noti”.
‘Penso che ogni italiano, nella sua vita quotidiana, trovi incredibile che il tema siano le intercettazioni”, era il commento dell’allora numero due del Pd, Enrico Letta, mentre Beppe Fioroni nel maggio del 2010 si disperava: “Non si può, per tutelare la privacy, mettere il bavaglio alla stampa”. Ancora più netto Ermete Realacci – “Il ddl sulle intercettazioni – diceva – è un regalo a Gomorra” – mentre stupiscono le posizioni di due renziane di ferro, ovviamente versione ante marcia. Pina Picierno: “Questo ddl punta a garantire la totale immunità del presidente del consiglio rispetto alla legge, nell’ottica del legibus solutus consona alle monarchie assolute”. Deborah Serracchiani: “Sulle intercettazioni non possiamo andare contro la Corte di Giustizia europea che pone il diritto di cronaca prima di tutto anche prima del diritto alla privacy dei politici”.
Il bello è che dopo aver affossato il bavaglio- su input di gran parte della stampa italiana – il Pd ci teneva a rivendicarlo. E infatti quando Berlusconi dichiarò che la sua legge sulle intercettazioni era stato bloccata da un patto tra l’Anm e l’odiatissimo Gianfranco Fini, all’epoca presidente della Camera, i dem si affrettarono ad alzare la mano. In che modo? Regalarono all’ex premier addirittura una brochure celebrativa. Titolo: “Ddl intercettazioni: come il Pd ha fermato la legge bavaglio“. Altri tempi.

Intercettazioni, quelle che non avremmo mai letto: il golpe di Renzi, il fratello di Alfano e la “patonza” di Berlusconi. - Giuseppe Pipitone

Intercettazioni, quelle che non avremmo mai letto: il golpe di Renzi, il fratello di Alfano e la “patonza” di Berlusconi

Tutte le storie che non avremmo mai conosciuto se la bozza del decreto che il ministro Andrea Orlando ha inviato ai procuratori italiani fosse stata in vigore. Da "Enrico non è capace" che il segretario del Pd confida al generale Adinolfi alla "patonza deve girare" del leader di Forza Italia a Tarantini, fino al "froci col culo degli altri" di Ricucci. E poi "l'attentatuni" di La Barbera.

Il piano per scalare Palazzo Chigi raccontato in anteprima da Matteo Renzi. E poi le confessioni di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, alcune nerissime, come quella sul “mondo di Mezzo“, altre decisamente colorite come gli immigrati che “rendono più della droga“. Quindi ovviamente tutti gli scandali italiani legati alla corruzione: dalla verità sul terremoto che “non si dice” di Guido Bertolaso, all’imprenditore Francesco Piscicelli che la notte del sisma dell’Aquila rideva “alle tre e mezzo dentro al letto”, all’indimenticabile “ma che volete fa’ i froci col culo degli altri?” di Stefano Ricucci, il sedicente “furbetto del quartierino”, fino alla bellissima Fadoua Sebbar. Chi? Era un’amica di Giampiero Tarantini e fu la prima a rivolgersi a Silvio Berlusconi con un affettuoso nomignolo che diventerà indelebile: “papi”.  Sono tutte le storie che non avremmo mai letto. E che forse non leggeremmo mai più.
“Violano la privacy”. Ma è una bugia – Se la bozza del decreto che il ministro Andrea Orlando ha inviato ai procuratori italiani fosse stata in vigore, infatti, il salotto privato del potere sarebbe rimasto ben sigillato: anche quando ospitava indicibili accordi. Nelle intenzioni del guardasigilli le ordinanze dei pm non devono più includere i virgolettati delle intercettazioni ma “soltanto il richiamo al loro contenuto”: stop alle telefonate, basta il loro riassunto. Il motivo? Più o meno lo stesso che viene sollevato a ogni tentativo di bavaglio: la privacy. Solo una scusa, visto che come ha rivelato un’inchiesta del fattoquotidiano.it  negli ultimi vent’anni sono meno di venti i casi in cui il garante per la protezione della privacy è dovuto intervenire perché fatti privati – raccontati in inchieste giudiziarie – erano finiti sui giornali. Per il resto dagli ascolti ordinati dai magistrati sono spesso venute fuori frasi, episodi, fatti a volte fondamentali per le indagini, quasi sempre utili a svelare il vero volto dei potenti.
Il golpe di Renzi – “Lui non è capace, non è cattivo, non è proprio capace. E quindi, però, l’alternativa è governarlo da fuori”. Chissà se in pubblico Renzi si sarebbe mai espresso in questo modo sul suo predecessore, Enrico Letta. In tv lanciava l’ormai noto #enricostaisereno. In privato, al telefono, usava ben altro linguaggio. È il 10 gennaio del 2014: l’allora neoletto segretario del Pd non è ancora premier ma lo diventerà 40 giorni dopo. In quella telefonata – intercettata dal Noe dei carabinieri –  confida al numero due della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, il suo progetto per entrare a Palazzo Chigi: “Rimpastino sicuro. Rimpastone, no rimpastino! Il problema è capire anche… se mettere qualcuno dei nostri”. E lo stesso giro di telefonate, in cui Adinolfi parlando con Dario Nardella si riferiva a Giorgio Napolitano , sostenendo che l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro ed (Enrico, ndr) Letta ce l’hanno per le palle, pur sapendo qualche cosa di Giulio (il figlio dell’ex presidente della Repubblica ndr).
Più della droga nel mondo di mezzo – Sarebbero state solo accennate in un breve riassunto – con tanti auguri all’ufficiale di polizia giudiziaria incaricato di quella sintesi – anche le parole regalate alle cimici da Massimo Carminati, il Nero, il cecato, l’ex terrorista dei Nar accusato di essere il capo dei capi di Mafia capitale e poi condannato in primo grado ma non per reati di tipo mafioso. Ai carabinieri del Ros, che lo intercettavano, Carminati racconta una sua personale visione del mondo, quella passata alla storia giudiziaria come “la teoria del mondo di mezzo“. “Compà – spiega il Nero – Ci stanno i vivi sopra e li morti sotto e noi stamo ner mezzo. Ce sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici: cazzo, com’ è possibile che un domani io posso stare a cena con Berlusconi? Il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra. Allora nel mezzo anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno”. Più pragmatico e molto meno evocativo, invece, il ragionamento di Salvatore Buzzi, l’uomo forte delle coop romane, che confidava: “Tu c’ hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh? Il traffico di droga rende de meno”. Un’affermazione che vale più di dieci inchieste sul business dei centri d’accoglienza.
Alfano tiene famiglia – Indagavano su Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario del governo Berlusconi, Giuseppe, invece, gli uomini della Guardia di Finanza che si trovarono loro malgrado il nome di Angelino Alfano nei brogliacci. Il motivo? Pizza si vantava al telefono di aver fatto assumere Alessandro Alfano, fratello del ministro, alle Poste. “Angelino lo considero una persona perbene un amico. Mi ha chiamato il fratello per farmi gli auguri…tu devi sapere che lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170.000 euro… no… io gli ho fatto avere 160.000. Tant’è che Sarmi stesso gliel’ha detto ad Angelino: io ho tolto 10.000 euro d’accordo con Lino (il soprannome di Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che la colpa è la mia, che l’ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170.000 euro”, è la registrazione che inguaia l’attuale ministro degli Esteri. “Cioè noi gli abbiamo sistemato la famiglia. La sera prima mi ha chiamato suo padre: mi ha mandato ottanta curriculum”, dice invece Marzia Capaccio, segretaria di Pizza, intercettata nella stessa inchiesta.
Sguattera del Guatemala – E se nonostante le polemiche Alfano è rimasto ben saldo alla sua poltrona ministeriale, è stata costretta alle dimissioni Federica Guidi, ex ministro dello Sviluppo Economico e compagna di Gianluca Gemelli coinvolto nello scandalo petroli in Basilicata. Il motivo? Un emendamento per sbloccare Tempa Rossa che avrebbe avvantaggiato gli affari del suo compagno. “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, è d’accordo anche Mariaelena. Con l’emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa… ehm… dall’altra parte si muove tutto”, assicura Guidi a Gemelli, che in quel momento chiedeva continuamente aiuto alla sua compagna ministra e poi vedrà ogni accusa archiviata. “Non fai altro che chiedermi favori, con me ti comporti come un sultano. Io mi sono rotta a quarantasei anni, tu siccome stai con me e hai un figlio con me, mi tratti come una sguattera del Guatemala“, si ribellò Guidi a un certo punto.
Patonze per i nani- Di diverso tenore, invece, le intercettazioni contenute nell’indagine passata alla storia come Vallettopoli. “Sto andando a Milano, in città… e adesso c’ho tre quarti d’ora… e volevo andare a puttane“, diceva Vittorio Emanuele, l’erede al trono dei Savoia.  E siccome un trono i Savoia non lo hanno più, ecco che il livello delle conversazioni di Vittorio Emanuele è tutt’altro che reale: “Le do 200 euro e non di più, eh?”, diceva il principe riferendosi alla parcella di una prostituta. Da quelle accuse Vittorio Emanuele uscì assolto, mentre è stato condannato a 7 anni e 10 mesi Giampaolo Tarantini, che qualche anno dopo organizzava le “cene eleganti” per Silvio Berlusconi. Le intercettazioni di quell’inchiesta raccontano molto non solo della vita privata del leader di Forza Italia, ma soprattutto del modus operandi dell’allora presidente del consiglio che poco dopo finirà coinvolto nel caso Ruby (assolto in via definitiva nel primo processo dopo la condanna in primo grado, ancora pendente il procedimento Ter). “Io c’ho due bambine piccole, che è tanto che non vedo”, si vanta in una delle centinaia di telefonate Berlusconi, autore di una serie di indicazioni lapidarie per l’amico Giampaolo. “Per favore non pigliamole alte come fa questo qui di Milano perché noi non siamo alti“, chiede l’ex premier riferendosi alle caratteristiche fisiche delle ragazze da portare alle cene. Appuntamenti talmente eleganti che è lo stesso Berlusconi a spiegare a Tarantini il galateo da seguire: “Poi ce le prestiamo… Insomma la patonza deve girare“, dice Silvio prima di essere vittima della legge del contrappasso. “Lui pur di salvare il suo culo flaccido non gliene frega niente”, è il giudizio tranchant di Nicole Minetti quando la stella del leader azzurro sarà ormai offuscata dalle inchieste e dallo spread che porterà a Palazzo Chigi Mario Monti.
L’attentatuni di Cosa nostra – Un discorso a parte vale per le cimici piazzate dalla Dia in un appartamento di via Ughetti a Palermo nel 1993. È in quella palazzina che dopo l’arresto di Totò Riina si erano rifugiati tre uomini d’onore: Gioacchino La BarberaSantino Di Matteo e Antonino Gioè. Sono tre boss importanti dai destini maledetti: hanno partecipato tutti alla strage di Capaci che il 23 maggio del 1992 mise fine ai giorni di Giovanni Falcone. La Barbera è l’uomo che diede materialmente il segnale che dà il via all’attentato: suo padre venne ritrovato misteriosamente impiccato nel 1994, mentre lui stava per saltare il fosso collaborando con la magistratura. Lo stesso percorso di Santino Di Matteo che per quella scelta sarà punito con il rapimento e l’uccisione del figlio, il piccolo Giuseppe, sciolto nell’acido. Venne invece praticamente suicidato in carcere (ma ad oggi nessuna inchiesta della magistratura lo ha mai accertato) Gioè: in quei mesi dicono stesse riflettendo su una sua possibile collaborazione con i pm. Sono questi i personaggi che si rifugiano in via Ughetti in quell’inverno del 1993. E sono questi i padrini che la Dia registra mentre parlano della strage di Capaci. “Nni ficimu l’attentatuni“, dicono. Ci siamo fatti l’attentatone, il grande attentato. È così che i mafiosi vedono il botto organizzato per assassinare Falcone: il grande attentato della storia di Cosa nostra. L’attentatuni, appunto. Una parola che è diventata il titolo di libri, film e fiction. Con il ddl Orlando non l’avremmo mai conosciuta.

Dna, l'incompiuta dell'antimafia Solo coordinamento, nessun potere. - Riccardo Lo Verso

antonino di matteo, direzione nazionale antimafia, francesco del bene, giovanni falcone, maria teresa principato
Da sinistra Francesco Del Bene, Antonino Di Matteo e Maria Teresa Principato.

Tre pm "palermitani" approdano alla superprocura. Doveva essere uno strumento in più, ma le armi sono rimaste spuntate.

Per alcuni è un approdo sicuro, persino un paracadute di lusso. L'epilogo di una carriera fra le file dell'Antimafia. Quella che da sempre teorizza i massimi sistemi criminali e si fa breccia lontano dalla Sicilia, guadagnandosi la ribalta mediatica nazionale. È a Roma, alla Direzione nazionale antimafia, che i discorsi si fanno alti che più alti non si può, laddove si sottolinea l'immanenza delle mafie - 'ndrangheta, camorra e cosa nostra - nella società italiana. Sguardi d'insieme, anni di studio che confluiscono in copiose relazioni, frutto del coordinamento delle varie Procure distrettuali del Paese.

La missione della Dna è, appunto, il coordinamento. Un ruolo che di operativo ha nulla o quasi. E dire che la Direzione nazionale, ideata negli anni Novanta, quando la mafia alzava l'asticella dell'orrore con le stragi, voleva essere lo strumento in più contro chi sfidava lo Stato. Doveva nascere una Superprocura a immagine e somiglianza di Giovanni Falcone, uno che la mafia l'aveva capita fino in fondo. L'obiettivo era lasciarsi alle spalle il provincialismo e il protagonismo giudiziario delle singole Procure per creare un organismo capace di offrire una riposta complessiva allo strapotere dei boss. Le polemiche furono aspre da parte di chi denunciava il pericolo della concentrazione di potere in una sola persona e la commistione, se non addirittura l'ingerenza, della politica nel lavoro della magistratura.

Un rischio che non si è mai concretizzato anche e soprattutto perché quasi tre decenni dopo le armi della Dna sono rimaste spuntate. Le indagini non sono materia della Procura nazionale che supporta, coordina, rimpingua il cervellone della banca dati, studia i fenomeni di criminalità organizzata e terrorismo, esprime pareri non vincolanti, cura i rapporti con le autorità giudiziarie di paesi stranieri. Un ufficio che si occupa di tutto tranne che di indagini, le quali restano appannaggio quasi esclusivo delle Procure distrettuali. E quando qualcuno ha provato ad andare oltre il recinto del coordinamento ha consegnato alle cronache un guazzabuglio, simbolo di tutte le impotenze e forse anche delle presunzioni di questo organismo.

L'unico guizzo operativo si registra quando il procuratore nazionale o uno dei suoi venti sostituti deve intervenire per mettere la pace fra Procure “gelose” delle proprie indagini. Come accadde fra i pm di Palermo e Caltanissetta che arrivarono ai ferri corti sulla gestione di Massimo Ciancimino. Nel 2011 Francesco Messineo e Sergio Lari, alla guida dei due uffici giudiziari, sottoscrissero una tregua davanti all'allora procuratore nazionale Pietro Grasso. I pm nisseni si sentirono scippati dell'inchiesta che aveva portato all'arresto di Ciancimino jr per calunnia. Un arresto chiesto e ottenuto dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, il cui approccio con il figlio di don Vito non era stato certo laico, a tal punto da definirlo una ”quasi icona dell'antimafia”. Un po' pochino, quel “quasi”, per lasciare aperto il beneficio del dubbio sull'attendibilità del super testimone che sarebbe presto crollata. Ciancimino jr falsificò, così recita l'atto d'accusa, un documento consegnato ai magistrati del capoluogo siciliano inserendo il nome dell'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, in una lista di servitori infedeli dello Stato attribuita a don Vito Ciancimino.

Episodio diverso, ma reato uguale a quello per cui Ciancimino jr, un anno prima del suo arresto, era stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Caltanissetta che gli contestava di aver accostato il nome del super poliziotto a quello del signor Franco, il fantomatico agente dei servizi segreti. Franco o Carlo - avrebbe pure il doppio nome - è stato più volte riconosciuto da Ciancimino jr che servì l'ultima bufala indicando la fotografia di Ugo Zampetti, segretario generale della presidenza della Repubblica. Il consigliere per l'informazione del Quirinale si affrettò a scrivere appena qualche riga per dire che la vicenda era talmente ridicola da non meritare alcun commento. L'arresto di Ciancimino fu l'ennesimo episodio di una diversa valutazione, chiamiamola così, del testimone. A Caltanissetta si sorpresero che i colleghi avessero deciso di “scavalcarli” per arrestare Ciancimino, allora come oggi uomo chiave del processo sulla Trattativa Stato-mafia.

Grasso mise la pace, obbedendo ai compiti del procuratore nazionale antimafia. Ci sarebbe anche un margine di maggiore operatività come previsto dall'avocazione delle indagini. Per “strappare” un fascicolo ai colleghi distrettuali, però, gli si dovrebbe contestare un'imperdonabile inerzia. E allora si va avanti nell'onesto, e volte anche utile, lavoro di coordinamento e supporto da parte dei magistrati in servizio alla Dna. Gente preparata, per carità, che vi arriva a fine carriera o nell'attesa di tornare in trincea. È il caso di Francesco Del Bene, pubblico ministero a Palermo che ha indagato sui clan di una grossa detta della provincia e inserito nel pool del processo sulla Trattativa. Adesso da sostituto nazionale coordina le indagini sui clan di Agrigento e Trapani.

Per altri il trasferimento a Roma è un'occasione per liberasi di lacci e lacciuoli che zavorrano la ricerca della verità. Una ricerca che, ad onor del vero, è stata tutto fuorché frenata od ostacolata. Va avanti da anni, dilatando le categorie spazio-temporali. Le indagini si fanno e pure i processi, con esiti che, però, finora hanno picconato le ricostruzioni dell'accusa. Negli uffici della Direzione nazionale antimafia, lo scorso giugno, è arrivato Antonino Di Matteo. Per la memoria storica della Trattativa l'approdo romano ha segnato la fine di una parentesi che riteneva soffocante. Non si sentiva messo nelle “condizioni di lavorare a tempo pieno su inchieste delicatissime”. I procedimenti della piccola (?) giustizia quotidiana - furti, truffe e reati comuni - lo distraevano dalle indagini che contano. “Non poteva continuare all'infinito”, spiegava Di Matteo. A toglierlo dall'imbarazzo è arrivato il nuovo incarico, ottenuto dopo una paio di tentativi andati a vuoto, ricorsi amministrativi respinti e le polemiche per l'immissione nel nuovo ruolo congelato dal “posticipato possesso”. Di Matteo si sentirà finalmente libero di continuare a concentrarsi, almeno a Palermo, solo ed esclusivamente sulla Trattativa a cui, fra indagini e processi, lavora ormai dal 2010. E chissà quanto tempo ancora sarà necessario. L'ultima incognita riguarda i racconti carcerari di Giuseppe Graviano. Migliaia di pagine riversate nel processo, tutte da trascrivere, che incidono di parecchio nella stessa impostazione accusatoria.

Sono stati giorni di polemica, a Palermo, prima che il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti firmasse - anche questo rientra fra i suoi compiti - il provvedimento di applicazione di Di Matteo al processo Trattativa. Il capo dell'ufficio Francesco Lo Voi espresse solidarietà ai pubblici ministeri. Non citava mai per nome Di Matteo, ma è a lui che si riferiva nella e mail spedita ai tutti i pm. Il concetto era semplice: non esistono magistrati di serie A e altri di serie B. E la "notorietà effimera" scaturita da alcuni processi non è certo "un valore". Ogni riferimento alle precedenti parole di Di Matteo e alla Trattativa non sembrava puramente casuale, anche se la luce dei riflettori sul processo si è via via spenta.

Alla fine il ministero della giustizia è tornato sui propri passi dando il via libera all'immediato trasferimento anche per i militanti delle Agende Rosse, Scorta civica e movimenti antimafia è diventata una sorta di incoronazione. Tutti pronti a scandalizzarsi e a gridare al complotto ordito per frenare Di Matteo, ad urlare contro chi voleva trattenerlo a Palermo mettendo a rischio la sicurezza di un magistrato minacciato dalla mafia e per questo super scortato. Qualcuno fra i supporter del pm ha corretto il tiro in corsa. Prima ha manifestato nella piazza virtuale dei social network il dissenso nei confronti di chi voleva insabbiare le indagini cacciando Di Matteo, salvo poi scoprire che era stato il magistrato a chiedere il trasferimento.

Trasferimento ottenuto sulla base anche di una una nota del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, che aveva espresso riserve sul provvedimento di posticipato possesso. Un segno di distensione dopo che Scarpinato e Di Matteo sono arrivati allo “scontro” quando il procuratore generale ha avocato l'indagine sull'omicidio del poliziotto Nino Agostino (ucciso il 5 agosto dell’89 con la moglie Ida Castelluccio), adombrando inerzia investigativa dei pm assegnatari, e cioè Di Matteo e Del Bene, entrambi nel pool Trattativa. Quella Trattativa da cui Scarpinato ha cercato di affrancarsi nel tentativo, non riuscito, di fare condannare in appello il generale Mario Mori per il mancato arresto di Bernardo Provenzano.

Scarpinato è uno dei nomi in lizza per subentrare a Franco Roberti nel gradino più alto della Dna. La partita per la successione, prevista a novembre, è già aperta. Il grande favorito è il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Specie dopo che il plenum del Csm gli ha preferito Giovanni Melillo per la guida della Procura di Napoli. In corsa ci sono lo stesso Scarpinato, il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, quello di Firenze Marcello Viola, il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino e il procuratore di Siracusa Francesco Paolo Giordano.

Nel frattempo Roberti ha assegnato a Di Matteo il coordinamento delle indagini antimafia su Catania, mentre quelle su Palermo sono andate a Franca Maria Imbergamo, pm della Procura di Giancarlo Caselli. Imbergamo subentra nell'incarico a Maurizio De Lucia, al quale da più parti si riconosce il merito di avere svolto al meglio il ruolo di coordinamento, ma che ha deciso di tornare in “trincea” come procuratore capo di Messina.

La competenza su Caltanissetta è passata Teresa Principato, l'ex procuratore aggiunto di Palermo alla quale, scaduto il mandato, la legge ha consentito di tornare nell'incarico precedente all'ultimo ricoperto. E dunque è di nuovo sostituto alla Dna dove si studia molto e si indaga poco. Come da contratto, mica per colpevole inerzia. Principato non avrà più a che fare con la ricerca di Matteo Messina Denaro che le è costata tempo, fatica e interviste. A volte il tempo è stato pure sprecato per verificare improbabili piste come quelli inventate dell'architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino, finito in carcere per calunnia. Nel panorama desolante ci si è aggrappati a tutto pur di acciuffare il latitante. Con il trasferimento di Principato le strategia in Procura, a Palermo, è cambiata.

Inerte non lo è stato Gianfranco Donadio, che prima di diventare consulente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro, nelle vesti di procuratore aggiunto della Dna si rese protagonista di un'indagine "parallela", stoppata e denunciata nel 2016. Per quattro anni, tra il 2009 e il 2013, se n'era andato in giro per le carceri italiane a sentire centinaia di indagati, testimoni e pentiti con l'obiettivo di trovare una personale chiave di lettura sulle stragi di mafia del '92. In pratica si era sovrapposto al lavoro di cinque procure - Palermo, Caltanissetta, Firenze, Catania e Reggio Calabria - che lavoravano e lavorano sugli stessi fatti. Sono stati due colleghi - l'allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari (oggi procuratore generale) e quello di Catania, Giovanni Salvi (oggi procuratore generale a Roma) a chiedere l'intervento del procuratore Roberti per evitare il pastrocchio. Donadio era convinto che per l'Attentatuni di Capaci sarebbe stata utilizzata una doppia carica esplosiva grazie alla manina dei servizi segreti e deviati. Una ricostruzione scartata dai magistrati di Caltanissetta, gli stessi che hanno smontato i processi sulla strage di via D'Amelio costruiti sulle bugie di Vincenzo Scarantino e degli altri falsi pentiti. A Roberti toccò il compito di regolare il traffico delle indagini antimafia e bloccare l'esuberanza di Donadio, finito nel frattempo sotto procedimento disciplinare davanti alla Procura generale della Cassazione.

Tra le iniziative di Donadio ci fu l'interrogatorio di Vincenzo Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Il Nano, così è soprannominato Lo Giudice, si era “dimenticato” di raccontare che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”. Si era pentito nel 2010, ma tre anni dopo Lo Giudice era evaso dagli arresti domiciliari. Trovò il tempo di scrivere due memoriali per accusare i magistrati Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e l'allora capo della Squadra mobile di Reggio Calabria, Renato Cortese, di averlo obbligato a raccontare fesserie. Di balle c'erano soltanto le sue. Arrestato in una villetta, si pentì di nuovo. Ed ecco spuntare gli immancabili uomini dei servizi segreti che lo avevano avvicinato per tappargli la bocca. Sapevano che Lo Giudice aveva parlato di faccia da mostro alla fine del 2012 al procuratore Donadio. Poi, la circolazione delle notizie, ha fatto sì che anche i pm della Trattativa interrogassero il Nano e che quelli di Reggio Calabria accogliessero a braccia aperte la ricostruzione dei colleghi palermitani. Ecco servita la declinazione calabrese della Trattativa che sarà oggetto della futura stagione giudiziaria. C'era un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta per costringere le istituzioni a frenare l'azione antimafia.


È alla Direzione nazionale antimafia che Aiello, ex poliziotto della Mobile di Palermo, ha vestito per la prima volta i panni di “faccia da mostro”, lo sfregiato della stagione del misteri. Senza le dichiarazioni di un pentito l'intuizione di un magistrato non avrebbe acquisito lo spessore necessario. Qualche giorno fa Massimo Bordin sulle colonne di questo giornale ha riportato il resoconto di un colloquio investigativo. Una chiacchierata, perfetta per il ruolo dei sostituti della Direzione nazionale antimafia, partita con un'insicurezza e chiusa con una certezza. Si ha l'impressione - magari ingannevole come tutte le impressioni - che pm e collaboratore di giustizia sapessero esattamente cosa volessero l'uno dall'altro. “Non riesco a visualizzarne il volto”, diceva il pentito a proposito dell'uomo sfregiato. Il pm chiedeva: “Era stato coinvolto in fatti stragisti?”. “Sì, metteva le bombe”. “Le faccio un esempio che può apparire stupido - proseguiva il pm - lei ha mai messo una bomba in un asilo?”. “No”. “E quello dove metteva le bombe?”. “Le ha messe in un asilo”. “Era coinvolto nella strage di Capaci?”. “Ma chi? Quello? Ah, sì”. “Le ha parlato di altri attentati?”. “Non ricordo”. “Della strage Borsellino?”. “Sì, se non ricordo male”. “Dell’Addaura?”. “Mi pare di sì”. “Della strage alla stazione di Bologna?”. “Come no? Si vantava di aver partecipato”. “Quell’uomo era calabrese?”. “Aveva un accento calabrese”. “Si chiamava Giovanni?”. “Giovanni, sì”. “Di cognome Ajello?”. “Sì. Giovanni Ajello. Sì”. Da un'insicurezza a una certezza. I toni del colloquio erano diventati rassicuranti, confortevoli e il sistema criminale teorizzato.

http://livesicilia.it/2017/09/09/dna-incompiuta-antimafia-giustizia_886440/