mercoledì 17 maggio 2023

Il Rosiconista - Marco Travaglio


Non tutti sanno che c’è un giornale, più che altro un ciclostile, con un editore imputato, Alfredo Romeo, e un direttore editoriale imputato, Matteo Renzi: il Riformista. Però va detto che la linea editoriale non risente minimamente dello status dell’editore e del direttore editoriale: infatti si dedica precipuamente a bombardare i magistrati che processano l’editore e il direttore editoriale, ma anche, ad abundantiam, quelli che non processano l’editore e il direttore editoriale (o non ancora: hai visto mai). L’editore è coimputato del padre del direttore editoriale, perché aveva scritto su un pizzino la cifra che intendeva devolvergli mensilmente in cambio di aiutini per gli appalti Consip: “30mila per T.”. Purtroppo fu beccato prima del bonifico, ma ora potrà pagare legalmente il figlio direttore editoriale, a sua volta imputato per i finanziamenti illeciti alla fondazione Open. Costui però, allergico com’è ai conflitti d’interessi, sta bene attento a non confondere la sua veste di direttore editoriale da quella di imputato: ieri, per dire, ha scritto un editoriale (“Open to Meraviglia”) per avvisare gli eventuali lettori che “anche oggi mi presenterò in tribunale, a Firenze, nell’ambito del ‘processo Open’”, frutto di “un’inchiesta nata da un pregiudizio ideologico” e da “scandalosi sequestri show”. Ma solo per precisare che “il Riformista non seguirà questa udienza preliminare”, nata peraltro da “una indagine assurda”. Infatti “questo giornale non è il luogo della mia difesa. Mi difendo da solo”: sul giornale che non è il luogo della sua difesa.


“Il Riformista parlerà invece degli altri errori giudiziari, quelli che riguardano cittadini comuni”, tipo lui che, “citando lo straordinario discorso di Enzo Tortora, so di essere innocente e spero che lo siano anche i magistrati che mi indagano ingiustamente”. Ma, sia chiaro, “questo giornale non può servire per regolare i miei conti”. Dunque nessuno, sul Riformista, si azzardi a parlare di lui, a parte lui, che si limita a precisare di aver “denunciato i magistrati che ritenevo responsabili”. Silenzio stampa assoluto anche sui suoi libri: sì, è vero, il suo libro “Il Mostro è stato un best seller”, ma non sta certo a lui dirlo, tantomeno sul suo giornale. Quindi, ricapitolando: a parte l’editoriale dell’imputato, “questo giornale non si occupa del processo Open perché parla di tutto il resto”. Un esempio a caso di tutto il resto: “le vergognose indagini fiorentine” sul caso Open, che “sarà ricordato come uno dei tanti flop”, anzi “più grave degli altri” perché l’imputato è il direttore editoriale.

Però ora basta parlare di Open. Sennò qualcuno penserà che il Riformista si occupi di Open, che il direttore editoriale sia imputato e che non l’abbia presa proprio benissimo.

FQ 13 maggio 

La spaventosa scoperta dell’artiglio di Mount Owen. - Lucia Petrone

 

Ecco la storia di questo incredibile ritrovamento.

Nel 1980, un team di archeologi stava effettuando una spedizione all’interno di un grande sistema di grotte sul Monte Owen in Nuova Zelanda quando si sono imbattuti in qualcosa di spaventoso e insolito. Con poca visibilità nella caverna buia, si chiedevano se i loro occhi li stessero ingannando, poiché non riuscivano a capire cosa si trovasse davanti a loro: un enorme artiglio simile a un dinosauro ancora intatto con carne e pelle squamosa. L’artiglio era così ben conservato che sembrava provenire da qualcosa che era morto solo di recente. Il team archeologico ha recuperato con entusiasmo l’artiglio e lo ha preso per delle analisi. I risultati sono stati sorprendenti; il misterioso artiglio è risultato essere i resti mummificati di 3.300 anni fa di un moa di montagna, un grande uccello preistorico scomparso dall’esistenza secoli prima. Il moa di montagna (Megalapteryx didinus) era una specie di uccello moa endemico della Nuova Zelanda. Un’analisi del DNA pubblicata negli Atti della National Academy of Sciences ha suggerito che il primo moa è apparso circa 18,5 milioni di anni fa e c’erano almeno dieci specie, ma sono si sono tutte estinte. Con alcune sottospecie di moa che raggiungono un’altezza di oltre 3 metri, il moa era una volta la più grande specie di uccelli del pianeta. Tuttavia, il moa di montagna, una delle specie di moa più piccole, non superava i 1,3 metri. Aveva piume che coprivano tutto il corpo, tranne il becco e la pianta dei piedi, e non aveva ali né coda. Come suggerisce il nome, il moa di montagna viveva nelle parti più alte e più fresche del paese. La prima scoperta del moa avvenne nel 1839 quando John W. Harris, un commerciante di lino e appassionato di storia naturale, ricevette un insolito osso fossilizzato da un membro di una tribù indigena Māori, che disse di averlo trovato sulla riva di un fiume. L’osso fu inviato a Sir Richard Owen, che lavorava all’Hunterian Museum del Royal College of Surgeons di Londra. Owen è rimasto perplesso dall’osso per quattro anni: non si adattava a nessun altro osso che aveva incontrato. Alla fine, Owen giunse alla conclusione che l’osso apparteneva a un uccello gigante completamente sconosciuto. La comunità scientifica ha ridicolizzato la teoria di Owen, ma in seguito è stata dimostrata corretta con le scoperte di numerosi campioni ossei, che hanno permesso la ricostruzione completa di uno scheletro di moa. Dalla prima scoperta delle ossa di moa, ne sono state trovate altre migliaia, insieme ad alcuni notevoli resti mummificati, come l’artiglio di Mount Owen dall’aspetto spaventoso. Alcuni di questi campioni mostrano ancora tessuti molli con muscoli, pelle e persino piume. La maggior parte dei resti fossilizzati è stata rinvenuta in dune, paludi e grotte, dove gli uccelli potrebbero essere entrati per nidificare o per sfuggire alle intemperie, conservatisi per disseccamento quando l’uccello è morto in un luogo naturalmente asciutto (ad esempio, una grotta con una costante brezza secca che vi soffia attraverso).

Quando i polinesiani migrarono per la prima volta in Nuova Zelanda a metà del XIII secolo, la popolazione di moa era fiorente. Erano gli erbivori dominanti nelle foreste, negli arbusti e negli ecosistemi subalpini della Nuova Zelanda per migliaia di anni e avevano un solo predatore: l’aquila di Haast. Tuttavia, quando i primi esseri umani arrivarono in Nuova Zelanda, il moa divenne rapidamente in pericolo a causa della caccia eccessiva e della distruzione dell’habitat. “Poiché hanno raggiunto la maturità così lentamente, [essi] non sarebbero stati in grado di riprodursi abbastanza velocemente da mantenere le loro popolazioni, lasciandole vulnerabili all’estinzione”, scrive il Natural History Museum di Londra . “Tutti i moa erano estinti quando gli europei arrivarono in Nuova Zelanda nel 1760”.


L’aquila di Haast, che faceva affidamento sul moa per il cibo, si estinse poco dopo.Il moa è stato spesso citato come candidato alla rinascita attraverso la clonazione poiché esistono numerosi resti ben conservati da cui è possibile estrarre il DNA. Inoltre, poiché si è estinto solo diversi secoli fa, molte delle piante che costituivano l’approvvigionamento alimentare del moa sarebbero ancora esistenti. Il genetista giapponese Ankoh Yasuyuki Shirota ha già svolto un lavoro preliminare verso questi obiettivi estraendo il DNA dai resti di moa, che intende introdurre negli embrioni di pollo.


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