martedì 26 maggio 2020

Bufera Procure, nuove intercettazioni su Palamara.

Palazzo dei Marescialli (Foto d'archivio) © ANSA
Palazzo dei Marescialli

Pm romano ascoltato mentre parla del Pm Perugia Miliani.

"E pure per la ragazza c'è un procedimento disciplinare se mi iscrive dopo sei mesi senza motivo...": a dirlo era Luca Palamara con l'amico Luigi Spina, membro dimissionario del Csm, in un'intercettazione agli atti dell'indagine della procura di Perugia. A riportarla è "La Nazione", collegando il riferimento al Pm Gemma Miliani, titolare del fascicolo con il collega Mario Formisano.
Secondo la ricostruzione del quotidiano, l'ex presidente dell'Anm, e già consigliere a Palazzo dei Marescialli, riteneva ci fosse stato un ritardo nell'iscrizione dopo la trasmissione degli atti dalla Procura di Roma. L'intercettazione si riferisce alla notte del 16 maggio 2019. La conversazione venne registrata dal trojan piazzato sul telefono. "M'ha detto una cazzata Alberto...", inveisce Palamara riferendosi probabilmente a una comunicazione di un collega che gli avrebbe fatto capire che l'indagine era stata archiviata. Spina - scrive ancora La Nazione - ribatte: "Non lo so, non ce l'hanno mandata... può essere pure che qualcuno che se ne sta per andare in pensione te la vuole far pagare ed intanto ti manda questa cosa... eh... e poi la richiesta di archiviazione".
La vicenda delle intercettazioni del Pm romano Luca Palamara, che ha già portato alle dimissioni dei vertici dell'Anm, continua ad agitare le acque anche della politica. Il senatore della Lega Matteo Salvini chiede infatti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di sciogliere il Csm. "Mi aspetto che colui che comanda il Csm, ovvero il presidente della Repubblica Mattarella, lo sciolga, perchè dopo quello che abbiamo letto, qualche dubbio che la giustizia sia uguale per tutti viene e dunque serve una rinomina con un'estrazione a sorte per tagliare il sistema di potere della magistratura e dare fiato ai tanti magistrati liberi". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini che aggiunge: "Il Csm va azzerato, noi faremo una riforma della giustizia in nome del popolo italiano e non in nome di qualche corrente".
"Sono sorpreso. Io ho sempre scritto da solo i miei provvedimenti, anche quelli più complessi. Forse é anche possibile scriverli a più mani ma ciò dovrebbe risultare ufficialmente". Il sostituto procuratore generale di Bologna Valter Giovannini reagisce così alla pubblicazione, su 'La Verità', di conversazioni in chat agli atti dell'inchiesta della Procura di Perugia. Da questi dialoghi sembrerebbe che, nonostante l'estensore della sentenza disciplinare del Csm su Giovannini fosse Luca Palamara, un altro magistrato consigliere, Nicola Clivio, abbia contribuito alla redazione. "A questo punto - dice all'ANSA Giovannini, ex procuratore aggiunto - è urgente chiedere alla Procura di Perugia copia di tutte le chat che in qualche modo mi riguardano". Ieri il magistrato aveva annunciato l'intenzione di chiedere alla Procura umbra, attraverso il suo legale, se vi siano intercettazioni sulla sua vicenda disciplinare, per valutare di chiedere la revisione del procedimento. Giovannini è stato sanzionato con la censura da parte del Csm, confermata dalla Cassazione, per il caso di Vera Guidetti, farmacista di 62 anni che uccise la madre e poi si suicidò, qualche giorno dopo essere stata ascoltata dal pm, nel marzo 2015, come testimone in un'indagine su un furto di gioielli. La sezione disciplinare del Csm aveva condannato il magistrato per aver "trascurato" le garanzie difensive a tutela della donna e per avere così violato norme processuali.
Ma oggi sull'inchiesta di Perugia, dalla quale emergono queste intercettazioni di Palamara, intervengono anche l'ex presidente del Csm Gianni Legnini e l'ex ministro Giulia Bongiorno in due interviste separate. 
"Gran parte delle intercettazioni si riferiscono ad un periodo successivo. Quelle relative alla mia consiliatura riguardano chat e messaggi tra consiglieri e magistrati, che io non potevo conoscere. Sono sorpreso per certe espressioni. Personalmente ho sempre cercato di garantire il corretto funzionamento dell'organo, come era mio dovere fare, rifiutando qualunque logica spartitoria". Lo dice l'ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, in una intervista a 'La Repubblica' riguardo al terremoto che sta coinvolgendo la magistratura italiana in seguito alla pubblicazione delle intercettazioni dell'inchiesta di Perugia con al centro il pm romano, Luca Palamara. 
"Quello che ho letto finora mi fa tremare i polsi perché sono consapevole dell'enorme potere che ha un magistrato. Davanti allo scandalo, molti dicono che non si meravigliano della logica delle correnti. Io dico invece che è una logica intollerabile, che non attenua e non giustifica un bel nulla". Ad affermarlo, in una intervista a 'La Stampa', è la senatrice e avvocato della Lega, Giulia Bongiorno che sostiene come la separazione delle carriere dei magistrati possa essere la soluzione al problema. "La sola idea che un giudice possa assolvere o condannare per non scontentare un pubblico ministero, in quanto esponente di una corrente capace di influenzare la valutazione della carriera di quello stesso magistrato - spiega - mi fa paura. Più in generale tra i cittadini si sta diffondendo sfiducia nei giudici, se non diffidenza".
"Sembra che il Governo, le opposizioni, tutti i partiti, i magistrati e le loro associazioni, i mass-media scoprano oggi ciò che è noto da decenni: l'istituzionalizzazione delle correnti nella magistratura, tramite il voto di lista nelle elezioni del Csm. Noi radicali questo problema lo abbiamo sollevato da oltre 20 anni, infatti già nel 2000 abbiamo raccolto oltre 500.000 firme su un referendum popolare per l'abrogazione del voto di lista per la nomina dei membri togati del Csn. Se la politica ci avesse dato retta invece di tentare di usare le correnti della magistratura a proprio illusorio vantaggio, oggi saremmo un altro Paese". A dichiararlo sono Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, Segretario, Tesoriera e Presidente di Radicali Italiani che rilanciano la richiesta di separare le carriere dei magistrati.

Ora Salvini prende la linea da Feltri&c. - Antonio Padellaro

Il centrodestra in piazza Duomo a Milano il 2 giugno: Fontana sul palco per la carica contro il governo
Il titolo del Giornale è: “Sceriffi da strapazzo. Verso lo Stato di polizia”. Quello della Verità: “Conte arruola 60.000 spioni”. Si parla del reclutamento dei controllori civici antimovida da parte del governo, misura opinabile quanto si vuole (un esercito improvvisato, e poi per fare cosa?) non certo con la risibile accusa di aver creato una milizia di stampo autoritario. Quando invece i poveretti, disarmati e, a quanto sembra, privi di poteri sanzionatori rischiano di essere presi loro a ceffoni dal primo bullo privo di mascherina.
Poi la domanda sorge spontanea: ma costoro non erano i più securitari di tutto il cucuzzaro, roba che per anni ci hanno frantumato le orecchie auspicando cannonate sui barconi degli immigrati, ronde armate di quartiere e più fucilate per tutti (con la scusa della legittima difesa)? E adesso, di punto in bianco, povere stelle si scoprono un’anima così antiautoritaria, libertaria, non violenta, pacifista, permissiva che se fosse ancora vivo Marco Pannella li avrebbe iscritti di diritto (con una risata delle sue) all’associazione Nessuno tocchi Caino.
Il fatto è che alla destra politica di Salvini, Meloni e Berlusconi – divisa su Europa e Mes, confinata dal protagonismo di Giuseppe Conte in una frustrante opposizione, indecisa sul da farsi e in cerca di autore – sembra progressivamente sostituirsi la destra televisiva dei direttori di giornale e degli opinionisti col colpo in canna, sempre più protagonista dei talk e degli ascolti.
Priva di vincoli di partito, favorita da una certa anarchia editoriale è una guerriglia dattilografa che se ne può tranquillamente infischiare di equilibri politici, tattiche parlamentari e balle varie. Un Vietnam degli insulti e delle accuse determinato a perseguire un solo obiettivo, la devastazione dell’attuale governo bombardato incessantemente a colpi di napalm. Con polemiche che possono essere tutto e il contrario di tutto, la negazione oggi di ciò che veniva proclamato ieri, nella orgogliosa precarietà delle opinioni, dominata unicamente dal bersaglio nel mirino, l’odiato premier, e da una bussola infallibile: così è se ci pare. Un modello coerente di assoluta incoerenza sublimato nei giorni della quarantena con le richieste di chiusura, apertura e di nuovo chiusura, come in una gara di ubriachi ma di quelli tosti.
Per carità, nessuno scandalo, fa parte del gioco anche se non sapremmo dire fino a che punto Matteo Salvini e Giorgia Meloni lo abbiano compreso che in questo modo e a lungo andare l’intrattenimento finirà fatalmente per mangiarsi l’opposizione. Ribaltamento dei ruoli iniziato probabilmente con il testacoda del Papeete, quando per inseguire i pieni poteri, il cosiddetto capitano si ritrovò tra le mani il vuoto di potere. L’intendance suivra, l’intendenza seguirà diceva il generale De Gaulle (e forse prima di lui Napoleone), convinto che l’apparato logistico di sostegno (stampa compresa) avrebbe dato seguito alle decisioni dei vertici militari e politici. Infatti, prima di quel mojito di troppo, era l’acclamatissimo uomo forte del Viminale a dare la linea: contro gli immigrati e prima gli italiani. Con la stampa amica dietro.
Sembra trascorso un secolo. L’avvento del Covid-19 ha trasformato il nazionalismo del contrasto e dell’odio (verso l’altro) nell’orgoglio nazionale di una collettività solidale, e nell’amor patrio che sventola i tricolori alle finestre. “Si rafforza lo Stato, le istituzioni e il governo”, “mentre nell’emergenza ogni opposizione viene percepita come un ostacolo” (Repubblica di ieri, sondaggio di Ilvo Diamanti). Più il centrodestra si dimostra incapace di dire ciò che intende essere di fronte a emergenze impensabili soltanto tre mesi fa (presenza maggiore dello Stato in economia o meno Stato? E cosa significa continuare a definirsi sovranisti quando oggi più che mai si riconosce la necessità dell’Europa?).
Più il centrodestra si fossilizza nella narrazione di ciò che non intende essere, contando su improbabili spallate a una maggioranza coesa per istinto di sopravvivenza e assenza di alternative. E più continuerà a farsi dare la linea dai Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, o dai Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Maria Giovanna Maglie (che tra l’altro a bastonare con le parole sono assai più bravi).

Diaz, cartelle “sbagliate” ai superpoliziotti: i condannati non pagano le spese ai pestati. - Marco Pasciuti

Diaz, cartelle “sbagliate” ai superpoliziotti: i condannati non pagano le spese ai pestati

Quarantuno cartelle esattoriali per un totale di un milione di euro. Sono una parte dei soldi che alti funzionari della Polizia condannati nel processo sui pestaggi e le prove false al G8 di Genova devono alle parti civili, i ragazzi massacrati la sera del 21 luglio 2001 nella scuola Diaz. Ma i condannati le hanno impugnate perché le somme sono state calcolate male e stanno vincendo le cause. La vicenda va oltre il processo concluso il 5 luglio 2012, quando la Cassazione conferma le condanne per 25 persone tra cui l’ex capo del Dipartimento centrale anticrimine Francesco Gratteri, l’ex numero uno della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri e l’ex dirigente del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini. I giudici, infatti, stabiliscono che i condannati devono ripagare anche le spese legali alle parti civili ammesse al gratuito patrocinio. Gli importi sono stati anticipati, come da legge, dal ministero della Giustizia che poi ha affidato a Equitalia Giustizia il compito di recuperarli.
Nel 2018, però, le cartelle emesse nel 2017 cominciano a tornare indietro via tribunale. I condannati avevano cominciato a contestarle lamentando tra l’altro un “errore di quantificazione”. Gli importi, dicono, sono stati calcolati in via solidale. “Ma la legge 69/2009 ha riformulato l’articolo 535 del codice di procedura penale, che da allora stabilisce che la somma deve essere richiesta ‘pro quota’”, spiega Francesco Cento, ai tempi capo dell’ufficio legale di Equitalia Giustizia. Un esempio: se la pretesa era di 300mila euro e c’erano 10 condannati Equitalia chiedeva l’intera cifra a ciascuno di loro quando avrebbe dovuto chiederne 30mila a testa. Il principio era chiaro fin dal giudizio vinto il 9 ottobre 2018 dall’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi. Lo aveva ribadito quel giorno in tre sentenze il giudice Stefania Salmoria: “Tale assunto – si legge – trova conferma nella nota ministeriale del 14.7.2009, emessa in attuazione della richiamata legge 69/2009”. Come ribadito poi in una circolare del luglio 2015 e in una nota di Maria Stella Moroni, capo dell’ufficio recupero crediti della Corte d’appello di Genova inviata a Equitalia Giustizia il 16 gennaio 2017 .
“A marzo 2019 – spiega il legale – c’erano state 41 impugnazioni per un totale di 1.034.902,67 euro. Finora sono arrivati 25 provvedimenti: un solo ricorso accolto, in 6 casi le cartelle sono state annullate, in 11 sono state sospese e in 7 casi è stata dichiarata cessata materia del contendere perché a pagare era stato il ministero”. Non della Giustizia, ma dell’Interno. “Sì, perché Equitalia gli ha trasmesso le cartelle in quanto responsabile civile per i danni causati dai suoi funzionari – prosegue – . Il Viminale le ha pagate e il loro annullamento gli impedirà di rivalersi sui condannati”.
Ora possiamo solo sperare che menti eccelse, super partes, decidano di chiudere la questione definitivamente ed equamente; se la giustizia che viene applicata e decisa non viene rispettata, è inutile varare leggi e imbastire cause che non producono l'effetto riparatore del danno causato.
E', oltretutto, diseducativo e destabilizzante opporre resistenza ad una decisione emessa da organi istituzionali.
 Gli avvocati azzeccagarbugli che si prestano a turpi scappatoie mancano di etica professionale e andrebbero radiati dall'albo.
Sarebbe utile, data la situazione ingarbugliata, che le parti si riunissero in camera caritatis per dirimere definitivamente ed amichevolmente la questione senza suscitare ulteriori scalpore e lungaggini, visti i 20 anni già trascorsi. cetta

I riporti delle nebbie. - Marco Travaglio

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Della riforma del Csm sappiamo solo che è stata annunciata dal ministro Bonafede e oggi sarà discussa dalla maggioranza. 
Era ora. Ma non basta. Chi ha lo stomaco e il fegato di leggere le intercettazioni dell’inchiesta su Palamara (anzi sul Csm) senza perdersi nei gossip da portineria, capisce bene la gravità della situazione: una magistratura (non tutta ma quasi) divisa fra chi ordisce trame di potere senza esclusione di colpi e chi è costretto a farci i conti turandosi il naso per non essere spedito a inseguire ladri di bestiame e di biciclette. Perciò intervenire solo sul Csm serve a poco: giusto sbarrare le porte girevoli che mandano i politici a giudicare i magistrati che si sono occupati di loro o dei loro amici (Casellati prima, Ermini ora); sacrosanto escogitare sistemi elettorali che taglino le unghie alle correnti, dedite a mercati delle vacche e nomine a pacchetto (io do una poltrona e te se tu ne dai una a me) in barba alla meritocrazia. Ma sono interventi “a valle”, mentre il problema ormai è “a monte”. Il cancro è arrivato al cervello ed è ancor peggio della partitizzazione dei membri laici e della correntizzazione dei togati: si chiama gerarchizzazione, verticalizzazione, questurizzazione delle Procure. È qui che inizia (quando inizia) l’azione penale, che poi sfocia in indagini, udienze preliminari, processi di primo, secondo, terzo grado.
Il Potere lo sa bene e infatti è proprio lì, alla sorgente, che ha concentrato i suoi sforzi non appena si è riavuto dallo choc di Tangentopoli e Mafiopoli dei primi anni 90. Come? Manomettendo il rubinetto che può trattenere o liberare l’acqua della Giustizia. Destra e sinistra amorevolmente inciuciate ci avevano provato nel 1996-’98 con la Bicamerale che metteva in riga le Procure con la famigerata bozza Boato. Ma per fortuna avevano fallito, grazie alla reazione contraria di un’opinione pubblica ancora memore e vigile e di una magistratura ancora rappresentata dai migliori: Borrelli, Caselli, D’Ambrosio, Maddalena, Paciotti e così via. Dieci anni dopo invece, nel 2006, la controriforma Castelli-Mastella riuscì nell’intento. Una controriforma scritta dal ministro leghista del governo B.2 e copiata paro paro, tranne pochi ritocchi, dal Guardasigilli del Prodi2, malgrado il centrosinistra si fosse impegnato in campagna elettorale a “cancellarla”. Il tutto con la benedizione del solito Napolitano, capo dello Stato e del Csm. E nel silenzio dei giornaloni e dell’Anm che invece, quando quelle porcherie le proponeva Castelli, aveva indetto tre scioperi. L’intervento più devastante fu proprio quello che snaturava la figura del Procuratore capo.
Che non fu più primus inter pares, organizzatore e coordinatore dei suoi sostituti, com’era stato per 25 anni; ma dominus assoluto dell’azione penale, con potere di vita e di morte sui pm ridotti a suoi camerieri, da lui “delegati” ad aprire o a non aprire fascicoli su questa o quella notizia di reato. Come negli anni 50 e 60 dei porti delle nebbie e delle sabbie. Da allora il singolo pm non è più titolare del “potere diffuso” che per un quarto di secolo ci aveva garantito una giustizia uguale per tutti: decide il capo quali reati iscrivere nel registro dei noti, o degli ignoti, o nella discarica del “modello 45” (refugium peccatorum di tanti insabbiamenti), chi chiedere di arrestare, perquisire, intercettare, rinviare a giudizio. Basta un don Abbondio o un don Rodrigo al vertice di una Procura, e su certi personaggi non si procede più. E, se il sostituto non è d’accordo, il capo può levargli il fascicolo senza dare spiegazioni al Csm. Se poi non lo fa lui, può pensarci il Procuratore generale con l’avocazione. Prima, per controllare le Procure, bisognava accordarsi con 2500 pm (mission impossible): ora basta tenere a bada 150 capi. Che hanno anche l’esclusiva dei rapporti con la stampa: il pm che parla ai giornalisti, magari per denunciare il capo che non lo fa lavorare, come fecero i pm di Palermo contro Giammanco dopo Capaci, finisce sotto procedimento disciplinare (lui, non il capo insabbiatore).
Le prime prove su strada del nuovo sistema gerarchico si ebbero a Catanzaro, con il procuratore e il Pg che scippavano le indagini di De Magistris e il Csm che lo cacciava. E, più di recente, nella Procura romana di Pignatone, con la mancata iscrizione di Renzi e De Benedetti per la soffiata sul Dl Banche e con la decisione di non sequestrare il cellulare di babbo Tiziano nell’inchiesta Consip (per fare carriera, conta più ciò che non si fa di ciò che si fa). Cose che difficilmente accadevano quando i singoli pm godevano non solo di “indipendenza” (esterna, dagli altri poteri), ma anche di “autonomia” (interna, dai capi), come prevede la Costituzione. E come del resto accade tuttoggi per i giudici che, per decidere un rinvio a giudizio o un proscioglimento, una condanna o un’assoluzione, non chiedono certo il permesso ai superiori: agiscono secondo scienza e coscienza. L’altro effetto collaterale della controriforma fu un’esplosione di appetiti e succhi gastrici, nel mondo giudiziario e nei poteri esterni, per le nomine di ogni capo: perché chi controlla il procuratore controlla tutta la Procura. Fa bingo, anzi strike. È questo il giochino che va smontato, con una riforma che restituisca ai singoli pm la titolarità dell’azione penale, cioè la stessa autonomia dei giudici. Il Csm arriva dopo, quando è troppo tardi.