giovedì 9 luglio 2020

Mafia, perchè Messina Denaro è libero? “Custodisce i segreti di Riina”. - Giuseppe Lo Bianco

Mafia, perchè Messina Denaro è libero? “Custodisce i segreti di Riina”

La caccia al boss di Cosa nostra dura da 27 anni. Come ha potuto sfuggire alla cattura così a lungo? Secondo un magistrato avrebbe goduto delle coperture delle logge segrete e - particolare importante - potrebbe nascondere i documenti che si trovavano nel covo di Totò Riina.
Le ultime tracce “pubbliche” di una “caccia” che dura da 27 anni si fermano alla sera dell’11 gennaio 2017, quando a palazzo San Macuto, in commissione Antimafia, il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato anticipò alla commissione, in quel momento presieduta da Claudio Fava, “un fatto molto particolare, che ci ha dato dei segnali di lettura, a mio avviso di grande interesse”. E cioè che poco dopo l’emissione di due ordinanze di custodia cautelare, “una a carico di Firenze Rosario + 9″, Firenze Rosario era considerato una specie di figlioccio di Matteo Messina Denaro, e un’altra a carico di “Loretta Carlo + 13” per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, con i conseguenti sequestri, “tra il 4 e il 6 gennaio dei ladri sono penetrati all’interno della casa di Francesco Guttadauro, nipote di Matteo. L’hanno messa a soqquadro, hanno rubato delle televisioni, dei frigoriferi”. Erano le 20.30 circa, e subito dopo il magistrato ha chiesto di passare in seduta segreta, terminata alle 22.30. Sono chiuse in quelle due ore gli sviluppi pubblici (naturalmente solo per i commissari dell’Antimafia) più aggiornati delle indagini sulla cattura dell’ultimo corleonese stragista, Matteo Messina Denaro, un “carnefice sanguinario, che ha ucciso persone innocenti e bambini” e che in Sicilia hanno chiamato Diabolik, con quel misto di ammirazione e simpatia che ha circondato come un’aura il suo mito di imprendibile “primula rossa”, ultimo sopravvissuto “eccellente” di una catena di protezioni e complicità che in Sicilia ha radici antiche negli apparati dello Stato. Complicità cementate nel trapanese sullo sfondo di logge segrete in cui accanto agli uomini in grembiule e cappuccio sedevano gli uomini di Cosa Nostra. E che gli hanno consentito di costruire, con relazioni e consenso, una rete affaristico clientelare senza uguali e precedenti, incistata nel tessuto sociale, ma anche istituzionale: negli ultimi decenni è stato un fantasma evocato ad ogni retata che in Sicilia ha interrotto brillanti carriere politiche e manageriali, spedito in carcere imprenditori di successo con agganci nei palazzi romani, colpito burocrati massoni appesi alla spesa pubblica.
Ha resistito per 27 anni alla macchia, superando il poco invidiabile primato di Totò Riina (26 anni). Ed è riuscito a resistere anche ai processi delle stragi contro i giudici Falcone e Borsellino, dimenticato da magistrati e investigatori, sfuggendo all’etichetta di stragista del ’92; per quelle del ’93, inchiodato dai pentiti che ne hanno descritto il ruolo operativo, è condannato all’ergastolo dai giudici di Firenze. Per 22 anni le tracce giudiziarie di Matteo Messina Denaro si erano fermate alla fine di febbraio 1992, quando con Giuseppe Graviano guidò a Roma il commando di killer (trapanesi e di Brancaccio) che doveva uccidere Giovanni Falcone, richiamato poi in Sicilia da Totò Riina che aveva cambiato idea: doveva essere una strage.
Per 22 anni giudici e investigatori che indagavano sugli episodi del ’92 lo avevano dimenticato, nonostante le accuse di Giovanni Brusca e di Balduccio Di Maggio, e quelle di Vincenzo Sinacori e Ferro, mosse negli anni ’90, che lo indicavano come uno dei leader della strategia terroristico eversiva di attacco allo Stato. Perché questo ritardo di 22 anni nel processare MMD per strage? “Perché – è la risposta del pm Gabriele Paci nella requisitoria del processo di Caltanissetta in cui MMD è l’unico imputato – l’attenzione si focalizza su Mariano Agate che viene indicato erroneamente da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara (come il capo della Provincia di Trapani, ndr): un errore marchiano. Un errore cui si rimedia in corso d’opera’’. Catturato nel 1982 dai carabinieri dell’allora capitano Nicolò Gebbia due anni dopo essere stato sorpreso in auto con il boss Nitto Santapaola e altri tre uomini d’onore catanesi a poca distanza dal luogo dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano – iscritto alla loggia segreta Iside 2, punto d’incontro di boss e colletti bianchi e frequentata da vescovi, commissari di polizia, prefetti, ufficiali dell’esercito – e poi condannato per le stragi come componente della cupola regionale, Agate, si scoprirà dopo, nelle formali gerarchie mafiose era “solo” il capo del mandamento di Mazara.
Distrazioni, superficialità ed errori sono una costante nella lotta alla mafia in terra trapanese: tranne pochi, brillanti e motivati, investigatori – da quelli della Polizia Rino Germanà (“che aveva il difetto di chiamare spesso in ufficio il giovane Matteo ed è vivo per miracolo”) e Francesco Misiti (“che doveva fare la stessa fine), ai sottufficiali dei carabinieri Santomauro, Di Pietro, Sciarratta, che hanno deposto nel processo – chi indagava, ha detto Paci, ha preferito voltarsi dall’altra parte, anche dopo le stragi del ‘92: “Quando arrivò Bonanno, nel 1994, alla guida del commissariato di Castelvetrano – ha detto il pm – il fratello e il cognato di Francesco Messina Denaro avevano ancora il porto d’armi, il padre di Matteo era un ‘signor nessuno’ e tutti cercavano Totò Minore, morto nel 1982″. Coperture iniziate negli anni ’60, quando Francesco Messina Denaro , “era campiere dei feudi D’Alì (famiglia di proprietari terrieri, banchieri, imprenditori, uno di loro, senatore, è stato sottosegretario all’Interno, ndr) e come tutti i campieri si conoscevano i soprusi: ‘ma nessuno l’ha scritto’’’. Erano anni di soffiate mirate a protezione del boss: “Il maresciallo Santomauro che nell’86 compie una perquisizione non lo trova, e non lo trova tutte le volte che va a casa a trovarlo”, e di intimidazioni, più o meno velate: il figlio Matteo, che allora aveva 26 anni, “scrive al comandante dei carabinieri di Castelvetrano: ‘mio padre è uscito, va a lavorare non scocciate, non venite a cercarlo perchè ci da fastidio’. La lettera è agli atti”.
Nel trapanese paura, distrazioni e complicità, divisi da una linea sempre più sottile, bendano gli occhi agli apparati, con esiti amaramente grotteschi: “Nessuno – ha detto il pm Paci – aveva il coraggio di dire che Peppe Ferro (boss poi pentito, ndr), che ancora oggi gode di vitalità, si presentava in aula in barella, catatonico, e quando la polizia andava via si rimetteva i pantaloni e andava a sparare”.
Bastano queste distrazioni a spiegare ritardi e latitanza, in un contesto di sostanziale impunità che ha consentito a MMD di muoversi liberamente per il mondo seguendo i suoi affari? Dove nasce, in buona sostanza, il potere che lo protegge e lo rafforza? Nella requisitoria il pm Paci ha fornito due spunti: la massoneria e le carte di Riina. “A Trapani – ha detto – nelle logge massoniche gli iscritti stavano insieme ai mafiosi. Non appartenevano alle tradizionali obbedienze, erano coperte, dunque segrete. A Trapani c’è stato l’unico processo in Italia per associazione segreta, l’unica applicazione della legge Spadolini”. E il pentito Giuffrè “dice che Provenzano gli fa capire che allo svuotamento del covo di Riina partecipa MMD”. E ha aggiunto: “Dire che Matteo Messina Denaro è in possesso di quelle carte recuperate nel covo mai perquisito di via Bernini è attribuirgli un potere non indifferente di ricatto da utilizzare alla bisogna, ma è un problema che non possiamo porci in questa sede”. L’unica certezza, per il pm nisseno, è che “i Messina Denaro sono i custodi dei segreti e dei forzieri di Totò Riina”.
1) continua

Appalti e mazzette nelle forze armate col tariffario al 10 per cento. Coinvolti anche generali. - Maria Elena Vincenzi

Appalti e mazzette nelle forze armate col tariffario al 10 per cento. Coinvolti anche generali

La polizia di Stato, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Antonio Clemente, ha eseguito un'ordinanza nei confronti di 31 persone: 7 agli arresti domiciliari tra imprenditori e ufficiali, 19 divieti di contrattare con la pubblica amministrazione, cinque sospensione di servizio per appartenenti alle forze dell'ordine. Ma l'indagine è molto più ampia e conta 64 indagati.

Bond, affari, ’ndrangheta: i mediatori sono italiani. - Stefano Vergine

Bond, affari, ’ndrangheta: i mediatori sono italiani

Si chiama Ottima Mediazione. È controllata da una società anonima lussemburghese, la 2404 SA. Ed è amministrata da Pietro Greco, 41 anni, promotore finanziario di Lamezia Terme, candidato alla Camera nel 2013 per “Fare per fermare il declino”, il partito di cui è stato leader Oscar Giannino. È questo il profilo pubblico dell’azienda alla radice dell’inchiesta del Financial Times: obbligazioni garantite dalla ’ndrangheta e vendute a investitori internazionali. Con pagatore ultimo il sistema sanitario nazionale.
Per capire qualcosa di più di questo intrigo finanziario bisogna partire proprio dalla Ottima Mediazione, otto dipendenti e un fatturato di 9,6 milioni di euro (nel 2018), sempre in crescita finora. Specialità? “Smobilizzo di crediti commerciali nei confronti della pubblica amministrazione, con la cessione di crediti pro soluto tramite operazioni di cartolarizzazione”, per dirla con le parole dell’azienda. Più semplicemente, una società che compra crediti dai fornitori delle Asl italiane, soprattutto al Sud, e punta a rivenderli sul mercato sotto forma di obbligazioni.
Il business ha già dato parecchie soddisfazioni a Pietro Greco e compagni. “Nel triennio 2016-2018 abbiamo intermediato operazioni per circa un miliardo di euro”, si legge sul sito della società, che ha sedi a Bologna, Napoli, Milano e Lamezia Terme. Il motivo del successo è che le aziende sanitarie pagano a rilento i propri fornitori, e questi sono ben contenti di trovare qualcuno disposto a comprarli in cambio di liquidità immediata. Di più. I crediti ospedalieri negli ultimi anni sono diventati un vero affare, soprattutto per banche e finanziarie capaci di trasformarli in bond e venderli sui mercati. Perché più i tempi di pagamento della pubblica amministrazione si allungano – l’Italia impiega in media il doppio della media dei Paesi Ue – e più crescono i guadagni. Spiega Angelo Drusiani, gestore obbligazionario di Banca Albertini Syz: “È una nicchia di mercato cresciuta molto negli ultimi 5-6 anni. I titoli legati a questi crediti sono considerati sicuri, perché alla fine sul pagamento garantiscono le Asl italiane, cioè in ultima istanza lo Stato. Al contempo però garantiscono rendimenti relativamente alti, visto che i tempi di pagamento della pubblica amministrazione italiana sono lunghi. Dopo il Covid la situazione è un po’ cambiata, ma fino a poco tempo fa – per dare una proporzione – un titolo del genere poteva rendere tra il 4 e il 4,5%, contro un titolo di Stato italiano che garantiva il 3%”. Ci sono buttati dentro un po’ tutti, anche grandi banche e fondi pensione internazionali. E infatti i crediti comprati dalla Ottima Mediazione sono arrivati fino a Banca Generali, l’istituto di private banking del gruppo Generali, oltre che a fondi pensione ed hedge fund internazionali. Secondo il Financial Times, però, alcune di questi crediti erano legati ad aziende sospettate dalla magistratura italiana di essere controllate dalla ’ndrangheta. Il quotidiano londinese non ha per ora pubblicato i nomi delle imprese, né quelli delle aziende sanitarie italiane indebitate con queste ultime. Ha citato solo genericamente un grande centro per rifugiati in Calabria finito nelle mani del crimine organizzato. Di certo i crediti messi sotto la lente dall’inchiesta giornalistica hanno fatto un lungo giro prima di essere venduti sotto forma di bond. Sono saliti fino in Lussemburgo, patria europea delle obbligazioni a tassazione leggerissima. A creare il veicolo necessario per vendere i bond (cioè crediti cartolarizzati) a investitori come Banca Generali è stata infatti la finanziaria Cfe, sede principale in Lussemburgo, filiali a Ginevra, Londra e Principato di Monaco. Presente nei Panama Papers come intermediaria di sette scatole offshore sparpagliate tra Panama e le Isole Vergini Britanniche, la società finanziaria batte in realtà bandiera italiana. È stata fondata nel 2001 nel Granducato da due finanzieri nostrani – Mario Cordoni ed Enrico Brignone – e dalla Banca Lombarda e Piemontese, oggi parte del gruppo Ubi Banca. La lussemburghese è amministrata ancora oggi dal fondatore Mario Cordoni e dal manager Massimiliano Piunti: due uomini di finanza che lavorano da anni tra l’Italia, la Svizzera e Londra. Sono stati loro a creare il veicolo Chiron Spv, quello attraverso il quale i crediti delle Asl italiane sono stati trasformati in titoli finanziari, impacchettati fra loro e sottoscritti da Banca Generali, con la consulenza di Ernst & Young, per poi essere venduti ai clienti finali. In totale sono 47,4 milioni di euro, dovuti da quasi tutta la Sanità del Mezzogiorno: Asp Cosenza, Asp Vibo Valentia, Asp Reggio Calabria, Asp Catanzaro, Asp Crotone, Asl Avellino, Asl Benevento, Asl Caserta, Asl Salerno, Asl Bari, Asl Foggia, Asl Napoli 1 Centro, Asl Napoli 2 Nord, Asl Napoli 3 Sud, Azienda Ospedaliera Mater Domini. Possibile che nessuno si sia accorto di niente? L’operazione finanziaria è iniziata nella primavera del 2017 ed è stata chiusa nell’estate del 2019. Tutto è filato liscio: aziende rientrare in anticipo dei propri crediti, investitori rimborsati e contenti. Solo che dei quasi 50 milioni di euro di crediti della sanità italiana, circa 800 mila euro facevano capo ad aziende sospettate di essere sotto controllo mafioso. I responsabili di Cfe hanno dichiarato al Financial Times di non aver mai acquistato consapevolmente crediti legati ad attività criminali, e di aver fatto la necessaria due diligence prima di comprarli. Anche Ottima Mediazione, interpellata dal Fatto, ha fatto sapere che tutti i controlli necessari sono stati fatti. Possibile davvero che nessuno se ne sia accorto? Secondo un portavoce di Banca Generali la spiegazione è semplice: “Le notizie delle indagini giudiziarie sulle aziende sono emerse nell’autunno del 2019, quando ormai gli investitori erano già stati rimborsati e l’operazione era finita”. Come dire: quando abbiamo comprato quei crediti sottoforma di bond, nessuno poteva immaginare dei legami con la ’ndrangheta.

Ponte di Genova, il cda di Atlantia studia le contromosse. Tomasi (Aspi): «Revoca sarebbe devastante». Vertice al ministero. - Laura Galvani



Sul tavolo del board la pronuncia della Suprema Corte. Ora la compagnia ha un’arma in meno nella trattativa con il governo. Nel pomeriggio previsto un incontro al Mit.

Una tegola, inaspettata. La decisione della Consulta irrompe nella trattativa tra Atlantia e il governo e arriva come un boomerang sul tavolo del consiglio di amministrazione della compagnia convocato per oggi, giovedì 9 luglio. Board che aveva già all’ordine del giorno tra le altre cose un aggiornamento sulla situazione di Autostrade per l’Italia e che a questo punto concentrerà buona parte del dibattito consiliare su quanto stabilito dalla Corte. Il giudice supremo ha sostanzialmente dichiarato che non è illegittimo il decreto Genova nella parte in cui esclude Aspi dalla ricostruzione del Ponte Morandi. Lo ha stabilito sostenendo che la decisione del legislatore «è stata determinata dalla eccezionale gravità della situazione». In sostanza ha basato la propria decisione sul principio di precauzionalità.
«Le conseguenze della revoca della concessione ad Autostrade sarebbero devastanti», dice l’ad di Aspi Roberto Tomasi. «Si disperderebbe - spiega - un enorme patrimonio professionale e umano. La società è totalmente cambiata: abbiamo fortemente potenziato il piano di manutenzione e investimenti e continuato a gestire e ammodernare la rete. Nell’interesse del paese credo sia prioritario oggi definire l’accordo col governo e trasformare subito in cantieri 7 miliardi di euro dei 14,5 già pianificati».
Quali che siano le ragioni, a questo punto la compagnia ha decisamente un’arma in meno da impiegare nel confronto con l’esecutivo. Confronto che, peraltro, oggi registrerà una nuova tappa. Nel pomeriggio una delegazione di Autostrade è attesa al Mit per discutere delle proposte avanzate dalla società per definire in maniera consensuale un nuovo accordo sulla concessione. Proposte che, come sottolineato ieri dall’azienda, «ad oggi, non hanno mai ricevuto alcun riscontro formale».
Un summit importante dunque che tuttavia ora assume una ben diversa connotazione. Se la Consulta avesse condiviso i dubbi di incostituzionalità del Decreto Genova sollevati dal Tar della Liguria indirettamente avrebbe messo nel mirino anche il decreto Milleproroghe che tanti danni ha causato alla compagnia. Ora questa leva non solo non esiste più ma paradossalmente si è rafforzata la posizione dell’esecutivo. Proprio nei giorni in cui, peraltro, come ha dichiarato ieri il premier Giuseppe Conte, il governo intende stringere sulla questione della revoca della concessione.
Ora gli avvocati di Atlantia, la cui presenza è attesa al cda della holding, dovranno aiutare il gruppo a definire la linea. Una linea che allo stato attuale continua a contemplare due opzioni cardine: il proseguimento della trattativa o la battaglia legale, confidando nell’appoggio di Bruxelles. Riguardo alla prima opzione, i nodi da sciogliere sono sempre gli stessi: trovare un equilibrio tra tariffe e investimenti e definire il nuovo assetto azionario di Aspi. E stante il nuovo contesto proprio il potenziale futuro azionariato di Autostrade potrebbe diventare il grimaldello attorno a cui il governo potrebbe far girare l’intesa con la compagnia. Un forte ridimensionamento di Atlantia, che oggi ha l’88%, e di conseguenza dei Benetton, potrebbe essere una carta gradita a Roma. Le prossime ore saranno certamente cruciali per capire se ci sarà ancora spazio per un’intesa o se si aprirà la procedura di revoca e dunque una dura, e per tanti aspetti controproducente, battaglia legale.
Nel mentre, Autostrade, in risposta alle numerose critiche e polemiche sollevate sul tema della concessione del Ponte Morandi, che deve restare in capo ad Aspi almeno fin tanto che non ci sarà la revoca della concessione, l’azienda ha spiegato che «la tragedia del 14 agosto 2018 ha segnato in modo indelebile la storia della società». In risposta proprio a quel drammatico evento, «è stato completato un radicale cambiamento di management e di tutti i processi aziendali» e sono stati «realizzati in due anni investimenti per oltre 1 miliardo, aumentate le spese di manutenzione di oltre il 50% e tutti i controlli sulla rete sono stati effettuati da società esterne»
Autostrade per l’Italia ha poi aggiunto che «nel corso di questi due anni, ha supportato in ogni modo la realizzazione del nuovo viadotto sul Polcevera facendosi carico della totalità delle spese di demolizione e costruzione. Le risorse complessivamente erogate per Genova, sotto forme di indennizzi e sostegno a cittadini e imprese, sono pari a circa 600 milioni di euro». Inoltre, ha concluso la compagnia, «entro il 2023 la società investirà 2 miliardi di euro in spese di manutenzione e cura della rete, di cui 550 milioni di euro nel solo 2020. Ad oggi sono attivi oltre 300 cantieri di manutenzione sulla rete nazionale. Attività possibili grazie al finanziamento di 900 milioni di euro messo a disposizione dalla capo gruppo Atlantia, poiché lo scorso gennaio Aspi, a causa del Dl Milleproroghe, ha subito un downgrade del proprio rating a livello spazzatura che ha bloccato di fatto l'accesso al credito della società».

Salvini e Toti sotto a un ponte. - Gaetano Pedullà

Toti Salvini

Quelli che ieri hanno usato il nuovo ponte di Genova per dimostrare che la revoca della concessione ai Benetton è stata una presa in giro da parte del premier Conte e dei 5 Stelle (ad esempio Salvini e Toti) sono più falsi di una moneta da tre euro. In realtà, l’affidamento temporaneo alla società Autostrade, la stessa che per contratto doveva garantire la manutenzione del viadotto Morandi, crollato due anni fa con 43 vittime, è un atto puramente formale, inevitabile per restituire al capoluogo ligure un collegamento oltremodo necessario senza perdere tempo. Tale provvedimento, che la ministra De Micheli non poteva non firmare, non sposta però di un millimetro la sostanza delle cose: la mangiatoia delle autostrade sta per finire.
Un destino ormai talmente chiaro che ieri in Borsa, dove non si investono chiacchiere ma soldi veri, il titolo della società Autostrade è stato tra i peggiori nonostante quello che veniva fatto passare come un punto decisivo a suo favore. Poi in serata è arrivata la decisione della Corte costituzionale, che ha giudicato legittima l’esclusione proprio di Autostrade dalla costruzione del ponte ormai realizzato da Fincantieri e Salini Impregilo, cioè da chi non ha alcuna continuità con le attività dei Benetton, come avevano promesso Di Maio e l’allora ministro dei Trasporti, Toninelli.
Adesso il Governo si assumerà la responsabilità di revocare la concessione autostradale, ben sapendo che questo innescherà una lunga battaglia legale, con richieste di risarcimenti miliardari da parte di chi dovrebbe invece andare a nascondersi per i miliardi che ha incassato dai pedaggi in oltre trent’anni, e per tenersi la gallina dalle uova d’oro si è inventato di tutto, compresa un’inutile trattativa che ha fatto perdere tempo prezioso e milioni all’Alitalia.
Un muro di cavilli giuridici di fatto sostenuto da chi fino a ieri non ha mai fatto una pressione sui Benetton. E ora dal leader della Lega, Salvini, al governatore ligure Toti, riversano accuse ipocrite contro chi si è sempre battuto per mandare a casa il concessionario, dai 5S al sottoscritto. A loro dedico col cuore una citazione di Albert Einstein: “È difficile sapere cosa sia la verità, ma a volte è molto facile riconoscere una falsità”.

Una favola e Toti salva i Benetton. - Gaetano Pedullà

Giovanni Toti

Una regione fatta prigioniera e chi se ne dovrebbe vergognare impazza in tv facendo campagna elettorale, ovviamente trasferendo ad altri le responsabilità proprie e di chi guadagna un sacco di soldi proprio per impedire un tale disagio. Ha dell’incredibile quello che accade da giorni in Liguria, con le autostrade paralizzate per i controlli sulla stabilità dei tunnel resi necessari dopo la sfilza di disastri partita con il crollo del ponte Morandi a Genova, ormai due anni fa.
Da allora la rete che lo Stato ha dato in concessione ad Autostrade per l’Italia, società controllata dai Benetton, ha mostrato altri segni di cedimento, con un’altra tragedia per fortuna solo sfiorata a dicembre scorso, quando vennero giù pezzi della volta di una galleria dell’A26 tra Masone e Voltri. Se il concessionario avesse fatto le manutenzioni non avremmo un tale degrado, ma solo adesso e su precisa richiesta della parte pubblica si stanno facendo i controlli, col risultato di bloccare l’intero traffico. Per il governatore della Liguria, Giovanni Toti (nella foto), questa però è l’ennesima prova dell’incapacità di chi governa a Roma, e con i soliti slogan un perfetto argomento per nascondere il suo sostegno di sempre ai Benetton.
Dal dibattito sulla costruzione del nuovo viadotto Polcevera alla battaglia condotta in quasi assoluta solitudine dai 5 Stelle per revocare la concessione, mai il presidente Toti ha preso posizione contro i signori dei caselli, se non con dichiarazioni di circostanza e senza alcun seguito. Così, dopo essere stati lasciati per strada, i liguri adesso sono pure presi in giro.

La Corte costituzionale dà torto ad Autostrade: "Legittimo estromettere la società dalla costruzione del nuovo ponte". - Liliana Milella e Marco Preve

La Corte costituzionale dà torto ad Autostrade: "Legittimo estromettere la società dalla costruzione del nuovo ponte"
(Leoni)

Aspi aveva presentato ricorso contro il decreto con cui veniva istituito il commissario per la ricostruzione dell'opera, escludendo di fatto la società. La Consulta: "Scelta dettata dalla grave situazione". I 5Stelle esultano: "Avevamo ragione". Conte: "Una scelta che ci conforta".

"L'eccezionale gravità della situazione" giustifica l'esclusione di Aspi dai lavori per la ricostruzione del ponte di Genova. Con questa motivazione la Corte costituzionale ha respinto i 6 ricorsi del Tar della Liguria che aveva sollevato dubbi di costituzionalità sull'articolo 41 della Carta per l'esclusione di Aspi dalla ricostruzione del Morandi, il cui crollo provocò la morte di 43 persone. Era stata la società a rivolgersi al Tar per lamentare la violazione di una serie di diritti che sconfinavano, secondo i legali dell'azienda, nell'illegittimità costituzionale. La sentenza arriva nel giorno delle polemiche per la notizia che sarà Aspi a gestire il nuovo ponte di Genova, almeno fino alla possibile revoca della concessione. A reagire sono innanzitutto i 5Stelle: "Avevamo ragione". E Di Maio: "Grazie a Toninelli". "La sentenza ci conforta", dice il premier, Giuseppe Conte. "Conferma la piena legittimità costituzionale della soluzione normativa a suo tempo elaborata dal governo". Ma ecco il comunicato con cui la Corte ha annunciato la sua decisione.

Il comunicato della Corte.

"La Corte costituzionale ha esaminato nell'odierna camera di consiglio le questioni sollevate dal Tar della Liguria riguardanti numerose disposizioni del Decreto legge n. 109 del 2018 (cosiddetto Decreto Genova) emanato dopo il crollo del Ponte Morandi. Il Decreto ha affidato a un commissario straordinario le attività volte alla demolizione integrale e alla ricostruzione del Ponte nonché all'espropriazione delle aree a ciò necessarie. Inoltre, è stato demandato al commissario di individuare le imprese affidatarie, precludendogli di rivolgersi alla concessionaria Autostrade Spa (Aspi) e alle società da essa controllate o con essa collegate. Infine, il Decreto impugnato ha obbligato Aspi a far fronte ai costi della ricostruzione e degli espropri.  

In attesa del deposito della sentenza, l'Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non fondate le questioni relative all'esclusione legislativa di Aspi dalla procedura negoziata volta alla scelta delle imprese alle quali affidare le opere di demolizione e di ricostruzione. La decisione del Legislatore di non affidare ad Autostrade la ricostruzione del Ponte è stata determinata dalla eccezionale gravità della situazione che lo ha indotto, in via precauzionale, a non affidare i lavori alla società incaricata della manutenzione del Ponte stesso. La Corte ha poi dichiarato inammissibili le questioni sull'analoga esclusione delle imprese collegate ad Aspi e quelle concernenti l'obbligo della concessionaria di far fronte alle spese di ricostruzione del Ponte e di esproprio delle aree interessate". 

La ricostruzione del caso.

Il ricorso affrontato oggi dalla Consulta era intitolato "Aspi contro la presidenza del Consiglio dei ministri e altri undici". Fra questi "undici" c'era soprattutto la struttura commissariale, presieduta da Marco Bucci, il sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del ponte Morandi, che ha poi ricostruito il viadotto sul Polcevera.
 
Con il celebre decreto Genova, poi diventato legge, Autostrade per l'Italia era stata estromessa dalle attività di ricostruzione del Ponte Morandi, affidate al Commissario straordinario con spese a carico del concessionario. Aspi aveva presentato una serie di ricorsi al Tar Liguria. L'elenco delle presunte violazioni di diritti costituzionali era lungo e ruotava in primis attorno al mancato rispetto della Convenzione fra Stato e concessionaria. Soprattutto sull'imposizione ad Aspi, lasciata fuori dalla porta della ricostruzione, dei costi per il nuovo viadotto ma anche di quelli per i risarcimenti alle imprese e agli sfollati: "Non è dato comprendere - hanno scritto i giudici del Tar - con precisione sulla scorta di quali parametri economici sono state determinate le indennità per metro quadro".
 
I giudici, nelle sei ordinanze sul tavolo della Consulta, sostenevano "la sussistenza di un contrasto con i principi di  separazione dei poteri, di difesa e del giusto processo, nonché del complesso delle disposizioni censurate  con il principio di proporzionalità".  E che "l'esclusione della società concessionaria dalle attività  in questione costituirebbe una restrizione della libertà di iniziativa  economica  in contrasto con l'articolo 41 della Costituzione (che garantisce la libertà dell'iniziativa economica privata, ndr)".
 

L'esclusione di Aspi dalla ricostruzione, inoltre, era stata decisa in assenza di qualsiasi responsabilità accertata processualmente della società - visto che l'inchiesta della procura non è neppure arrivata all'udienza preliminare - nel crollo del 14 agosto 2018. Secondo i giudici del Tar "il legislatore" avrebbe "alterato il complesso di diritti e obblighi attribuiti alla ricorrente Aspi dalla Convenzione unica". Sulla base di queste considerazioni giuridiche il Tar ha sospeso il giudizio sul ricorso perché ha ritenuto "rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale". Ma oggi la Consulta ha bocciato queste argomentazioni. E ora, tra governo ed Autostrade, si preannuncia lo scontro finale.

https://www.repubblica.it/politica/2020/07/08/news/consulta_ponte_concessione_autostrade-261342237/?fbclid=IwAR3e0KZ4IO5QSURk2KcQolWOfSNpk0OK-Ku3oBDotin2XMp3cFtCJ9MEKME

Ponte di Genova: Conte, 'O arriva proposta o scatta la revoca'. -



Per la Consulta 'Non è illegittimo estromettere Aspi dalla ricostruzione'.

La vicenda Autostrade "si trascina da troppo tempo. Ma la procedura di revoca è stata avviata e ci sono tutti i presupposti per realizzarla, perché gli inadempimenti sono oggettivi, molteplici e conclamati. Quindi o arriva una proposta della controparte che è particolarmente vantaggiosa per lo Stato oppure procediamo alla revoca, pur consapevoli che comporta insidie giuridiche". Così il premier Conte. Quando? "Entro questo fine settimana". Ed "è una decisione di tale importanza che la porteremo in CdM".
Atlantia risente in Borsa della decisione della Corte Costituzionale di respingere il ricorso contro l'esclusione di Autostrade per l'Italia dalla ricostruzione del ponte Morandi. Il titolo, in un listino nel complesso in leggero aumento, segna in avvio di seduta in calo del 5,21% a 13,5 euro con il futuro della concessione di Aspi che appare oggi ancora più in bilico.
Secondo la Consulta non è illegittimo estromettere Aspi dalla ricostruzione del Ponte Morandi. La Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni relative all'esclusione legislativa di Aspi dalla procedura negoziata volta alla scelta delle imprese alle quali affidare le opere di demolizione e di ricostruzione del Ponte Morandi.
"La decisione del Legislatore di non affidare ad Autostrade la ricostruzione del Ponte è stata determinata dalla eccezionale gravità della situazione che lo ha indotto, in via precauzionale, a non affidare i lavori alla società incaricata della manutenzione del Ponte stesso": è quanto comunica l'ufficio stampa della Consulta in attesa delle motivazioni della sentenza.
"Ci conforta che la Corte costituzionale abbia confermato la piena legittimità costituzionale della soluzione normativa che venne a suo tempo elaborata dal governo", ha commentato il premier Conte. 
Intanto il Governo è diviso sulla decisione di affidare ad Aspi, anche se pro tempore e come atto dovuto verso l'attuale concessionario, la gestione del nuovo ponte di Genova. 
"Confermo che il nuovo Ponte Morandi sarà gestito da Autostrade. Ho scritto io la lettera al sindaco Bucci. La gestione va al concessionario, che oggi è Aspi ma sulla vicenda c'è ancora l'ipotesi di revoca", ha detto la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli a Radio 24 Mattino, come riportato anche da un tweet della trasmissione. 
"Ebbene, dopo due anni di minacce, immobilismo, proclami, giustizia promessa e rimandata, il ponte di Genova verrà riconsegnato proprio ad Autostrade, come ha ordinato il Governo M5s-Pd", ha detto il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti via Facebook. "Voi ridate il ponte ad Autostrade senza ottenere nulla. Noi continuiamo a lavorare per l'interesse dei liguri. E intanto per la tragedia del Morandi e per le sue 43 vittime nessuno ancora ha pagato. Mentre a Roma litigavate, noi in Liguria almeno abbiamo ricostruito il ponte. Forse abbiamo ringhiato meno di voi... ma visti i risultati...", commenta.
"Sulla concessione delle autostrade il governo ha lavorato senza sosta. Dopo aver raggiunto un risultato importantissimo, con il nuovo ponte Morandi costruito in meno di due anni, adesso è arrivato il momento di decidere, possibilmente entro questa settimana", ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e capo delegazione del Movimento 5 Stelle.
Intanto, sono iniziate in mattinata le operazioni di stesura del primo strato di asfalto sul nuovo viadotto sul Polcevera a Genova. Lo annuncia la struttura commissariale. Un 'tappeto' di circa 7 centimetri, chiamato binder, viene steso con un rullo sul materiale già applicato nei giorni scorsi (primer e cappa asfaltica). Una volta completata la posa, che avviene dal centro del ponte verso le estremità del viadotto, la strada sarà completata con lo strato di usura, un' ulteriore parte in asfalto dello spessore di 4 centimetri.
"Il ponte di Genova non deve essere riconsegnato nelle mani dei Benetton - scrive su Twitter il capo politico del M5s Vito Crimi -. Non possiamo permetterlo. Questi irresponsabili devono ancora rendere conto di quanto è successo e non dovrebbero più gestire le autostrade italiane. Su questo il Movimento 5 stelle non arretra di un millimetro". 
"Rinviare non significa risolvere i problemi! Il conto, salato, alla fine si paga sempre. I cittadini ci hanno eletto per cambiare e decidere e non per avere "l'anime triste di coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo" #NonInMioNome #ViaIBenetton", dice, sempre su Twitter Stefano Buffagni, viceministro allo sviluppo economico. Buffagni cita la definizione degli ignavi di Dante.
"Confermata la concessione ad Autostrade? Cosa non si fa per salvare la poltrona, 5 Stelle ridicoli e bugiardi, due anni di menzogne e tempo perso: #colpadisalvini anche questo???": scrive in un tweet il leader della Lega Matteo Salvini.
"Siamo rimasti basiti". Lo ha detto Franco Ravera, presidente dell'associazione 'Quelli del ponte Morandi' ex Comitato sfollati di Genova commentando a 'Radio 1 Giorno per giorno' la decisione di dare ad Autostrade la gestione del nuovo ponte di Genova. "Siamo stati due anni a sentire che quel ponte lì veniva ricostruito e non sarebbe più stato gestito da Autostrade. Noi ci abbiamo creduto, perché c'era, e c'è ancora in corso, una procedura della magistratura, una verifica sulle responsabilità".
E sul Ponte di Genova, da Madrid, interviene il premier Giuseppe Conte: "Io sono stato molto chiaro, ho detto che questo dossier va chiuso. Io ho già detto ai ministri più direttamente competenti che mi aspetto di chiudere ad horas o comunque a fine settimana. Dobbiamo evitare una situazione paradossale, dobbiamo chiarire questo passaggio". "Porteremo il dossier Autostrade in Cdm. E' una decisione di tale importanza che dovrà essere condivisa al di là dei due ministri direttamente competenti. Va coinvolto tutto il governo".
La questione della gestione del ponte di Genova va "subito risolta", "non voglio esprimere sentenze, né alimentare scontri, non ce n'è bisogno in questo momento", ma bisogna "mantenere le promesse fatte", scrive su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Alle famiglie delle vittime avevamo promesso due cose: che il ponte non lo avrebbero costruito i Benetton, ma un'azienda di Stato. Infatti lo hanno costruito Fincantieri con Webuild. E che i Benetton non avrebbero più gestito le autostrade. Tantomeno il ponte. Entrambe queste promesse ora vanno mantenute. La politica senta dentro di sé il peso di queste due promesse. E passi ai fatti".

A che ora viene l’apocalisse di Settembre? - Antonio Padellaro

CORONAVIRUS: un piano segreto per preparare il Mondo all ...
“Alle diciotto ci sarà il giudizio universale”. Forse i meno giovani ricordano la scena di un film dei primi anni ’60: Il giudizio universale, diretto da Vittorio De Sica, con Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, e altri nomi famosi. 
Un’implacabile voce che tuona nel cielo di Napoli e annuncia l’orario preciso in cui tutto finirà. Qualcosa di simile da mesi rimbomba nelle nostre teste: l’annuncio di un’apocalypse now di cui conosciamo il mese, purtroppo non ancora né il giorno né l’ora. A settembre viene giù tutto, ci sentiamo ripetere da ogni dove con certezza indubitabile, inevitabile, categorica. Una realtà a cui veniamo crocifissi da Istat, Doxa e agenzie di rating con i chiodi dell’inarrestabile crollo delle vendite, dell’abisso del Pil, del dramma della povertà di massa, della disoccupazione straripante, delle sempre più numerose famiglie destinate a mendicare una minestra presso la Caritas. Andrà sempre peggio preconizzano opinionisti e grandi filosofi (Massimo Cacciari: “Ci sveglieremo a settembre e sarà una tragedia”). E perfino chi, arginato il coronavirus si sentiva un tantino più al sicuro, sprofonda nell’incubo della “seconda ondata”. Che negli esperti Oms suscitano terrificanti analogie con “i cinquanta milioni di morti della Spagnola”. Quando? A settembre, naturalmente. 
Allora, l’insurrezione divamperà da un’estremità all’altra dello Stivale e palazzo Chigi sarà cinto d’assedio dai forconi inferociti. Con la tipica incoscienza degli irresponsabili noi, però, non si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Infatti è ancora luglio e i più, invece di barricarsi in casa e di mettere sacchi di sabbia vicino alle finestre, tornano a trafficare le strade e nel weekend praticano tranquillamente spiagge e movida. I più fortunati progettano le ferie d’agosto con la tipica strafottenza di Massimo Troisi a cospetto del cupo Savonarola. “Ricordati che devi morire”. “Sì, sì mo me lo segno”.
Del resto, la solita politica aspetta l’apocalisse per meglio regolare i conti in sospeso. Ci sperano i leader dell’opposizione che puntano sulla catastrofe di settembre per “mandare a casa Giuseppe Conte” (Giorgia Meloni), poiché “Conte è cotto, finito” (Matteo Salvini). Mentre nella maggioranza l’imminente fine del mondo non distoglie il Pd dalle beghe congressuali, e il M5S dal proprio ombelico. (Infatti nel film, sceneggiato da Cesare Zavattini il Giudizio comincia per chiamata nominale, in diretta tv. Poi dopo un tremendo diluvio, spunta il sole, tutto viene dimenticato e ciascuno ritorna alle proprie miserie umane, cattive abitudini e malaffari).
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/09/a-che-ora-viene-lapocalisse-di-settembre/5862232/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-07-09

Io non vedo in giro ciò che dicono i destroidi; passata la tempesta, così si spera, pare che tutto stia tornando come prima. Sarà merito del Rdc o del Governo? Sarà perchè l'italiano medio dice di essere povero in canna per evadere le tasse, ma dentro il materasso conserva il gruzzoletto che fa spuntare all'improvviso per l'occorrenza? L'Italia non si piega, l'italiano è furbo, è risparmiatore, semmai è un fesso che crede ai falsi profeti che promettono, ma, alla fine non fanno altro che mettere le mani sull'immane mole di denaro che entra nelle casse dello stato ogni anno e che dovrebbe servire a creare il futuro per i nostri figli, che dovrebbe renderci la vita più agevole... e invece serve solo a riempire le tasche di chi sa solo pensare a se stesso fregandosene altamente delle promesse fatte durante la propaganda politica. Gli incantatori, gli affabulatori sono la nostra disgrazia e noi ne abbiamo tantissimi, visto il disastro che hanno creato con l'enorme debito pubblico. c.

Chi tace acconsente. - Marco Travaglio

Berlusconi: Santo subito?
Molti lettori ci scrivono sull’Operazione Rivergination avviata dalle tv e dei giornali di B. sull’unico suo processo scampato (finora) alla prescrizione, quello per frode fiscale sui diritti Mediaset: perché proprio ora, quando ormai nessuno – nemmeno lui – si ricordava più della sua condanna? Perché un ampio schieramento affaristico e politico, dunque editoriale, che spinge per rovesciare il governo Conte e rimpiazzarlo con uno di larghe intese&imprese che sbarchi i 5Stelle e imbarchi Pd, Iv, FI, Lega e i soliti trasformisti all’asta. Ma, prima di riesumare il pregiudicato, bisogna candeggiarlo di fresco. I trombettieri di Arcore, linciando il giudice Esposito e chi osa ricordare che B. fu condannato perché era colpevole, fanno il loro sporco mestiere. L’anomalia è il silenzio di chi sa come andarono le cose e l’ha più volte raccontato, ma ora tace per non disturbare i manovratori (anzi, intervista B. senza far domande). Noi continueremo a disturbarli facendo l’unica cosa che sappiamo fare: raccontare i fatti.
Nel 2006 il gup di Milano accoglie le richieste dei pm Robledo e De Pasquale e rinvia a giudizio B. e altri top manager Mediaset per falso in bilancio, frode fiscale e appropriazione indebita. La Procura ha scoperto che il Cavaliere, prima e dopo l’ingresso in politica nel ’94, dispose una serie di operazioni finanziarie per acquistare i diritti tv di film dalle major Usa con vorticosi passaggi fra società estere (tutte sue) per farne lievitare artificiosamente i prezzi: così rubò a Mediaset, tramite due offshore intestate ai figli, almeno 170 milioni di dollari e se li intascò in nero, sottraendo al fisco almeno 139 miliardi di lire e falsificando i bilanci anche durante la quotazione in Borsa nel ’96. Parte delle accuse, per i fatti più vecchi, già nell’udienza preliminare è coperta dalla prescrizione (abbreviata nel 2005 dalla legge ex Cirielli). In Tribunale la prescrizione falcidia pure i falsi in bilancio più recenti: resta in piedi parte delle appropriazioni indebite e delle frodi fiscali (fino al 2003). Il processo viene sospeso dal 2008 al 2010 per il Lodo Alfano e riprende quando la Consulta lo dichiara incostituzionale. Il 26 ottobre 2012, dopo ben 6 anni di corsa a ostacoli a base di leggi ad personam, ricusazioni, istanze di rimessione e legittimi impedimenti, arriva finalmente la sentenza di primo grado: condanne per frode fiscale a B. (4 anni), a due manager e al produttore-prestanome Agrama, assolto Confalonieri. Tutte prescritte anche le residue appropriazioni indebite e gran parte delle frodi. Le motivazioni descrivono un’“evasione fiscale notevolissima” (368 milioni di dollari) e un “disegno criminoso” di cui B. fu “l’ideatore” e poi il “dominus indiscusso”.
“Non è sostenibile – secondo il Tribunale – che Mediaset abbia subito truffe per oltre un ventennio senza neanche accorgersene”. Infatti faceva tutto il padrone, che “rimase al vertice della gestione dei diritti” e del meccanismo fraudolento anche “dopo la discesa in campo” del ’94. Non a caso la Cassazione ha già accertato che fu lui a fine anni 90 a far versare la tangente all’avvocato David Mills, creatore negli anni 80 delle società estere e occulte della Fininvest, perché testimoniasse il falso e lo salvasse da condanne certe nei processi per le mazzette alla Guardia di Finanza e i falsi in bilancio All Iberian.
L’8 maggio 2013 la II Corte d’Appello di Milano conferma in pieno la sentenza di primo grado: “vi è la prova, orale e documentale, che Silvio Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale del gruppo B (sistema di società offshore) e, quindi, dell’enorme evasione fiscale realizzata con le offshore”. Anche dopo l’entrata in politica, “almeno fino al 1998 vi erano state le riunioni per decidere le strategie del gruppo con il proprietario Silvio Berlusconi”: “Non solo si creavano costi fittizi destinati a diminuire gli utili del gruppo e quindi le imposte da versare all’erario italiano, ma si costituivano ingenti disponibilità finanziarie all’estero”. E “non è verosimile che qualche dirigente di Fininvest o Mediaset abbia organizzato un sistema come quello accertato e, soprattutto, che la società abbia subito per 20 anni truffe per milioni di euro senza accorgersene”.
La Cassazione, dopo i due giudizi di merito, deve solo valutare la legittimità della sentenza d’appello, perfettamente coerente con la giurisprudenza della III sezione (quella del giudice Amedeo Franco, specializzata in reati fiscali) sulle “frodi carosello”. E il 1° agosto 2013, appena in tempo per scongiurare la prescrizione delle ultime due frodi superstiti (4,9 milioni sugli ammortamenti del 2002, che si estingono proprio quel giorno; e 2,4 milioni su quelli del 2003, che si estinguono il 1° agosto 2014), arriva la sentenza, firmata dal presidente della sezione Feriale Antonio Esposito e dagli altri quattro giudici (fra cui Franco). Da allora nasce la leggenda di un “processo sprint” per negare a B. la prescrizione, che lui ritiene un diritto acquisito e che invece la Corte ha l’obbligo di evitare a ogni costo. Cosa ci sia di “sprint” in un dibattimento iniziato nel 2006 e concluso nel 2013 e di “anomalo” nell’assegnazione di un processo a rischio di prescrizione alla sezione Feriale della Cassazione (com’era accaduto nel 2011 per 219 processi e nel 2012 per 243), lo sanno solo i falsari pagati da B. E, se qualche beota casca nella trappola, è per il silenzio di tutti quelli che sanno.

Il castello di mio nipote: un’opera costosa e infinita. Peggio del Mose. - Daniele Luttazzi

Castello di sabbia | Renzo Piano | Come fare
Mio nipote, 10 anni, ieri ha costruito un castello di sabbia bellissimo, con quattro torri poligonali orientate secondo i punti cardinali, mastio, muro di cortina rivestito di bugnato a punta di diamante e conchiglie, merlature a coda di rondine, fossato, saracinesca, ponte levatoio e paratoie anti-marea.
Ispirato a un progetto disegnato da Leonardo Da Vinci per Ludovico il Moro, e mai realizzato, il castello di sabbia di mio nipote adesso domina la battigia del Bagno Wilmer di Torre Pedrera, un’importante via di comunicazione fra il litorale Nord e quello Sud dell’Adriatico. Domani è previsto il test di innalzamento delle paratoie, per verificare che la sabbia non giochi un brutto tiro ai macchinari, di fronte a bagnanti e curiosi provenienti da tutta Italia. Ma ciò che è accaduto stamattina, in un test preparatorio, non è di buon auspicio. Le paratoie 11, 14 e 28 non sono rientrate nella loro sede sul fondo a causa dei sedimenti. Per questo in serata si svolgerà un nuovo test, dopo le pulizie effettuate in gran fretta da mio cognato. È evidente che le paratoie richiedono pulizia continua e manutenzione. Mia sorella ha proposto un aspiratore speciale, ma è costoso come il Mose, e la famiglia non è mica lo Stato italiano, che può svenarsi per decenni in opere problematiche e inutili. E così si punta a installare delle bocche speciali, che muovano la sabbia e la aspirino; ma non sono ancora disponibili. “Le paratoie sono in grado di sollevarsi, ma non ancora di funzionare. Per quel momento bisogna attendere la fine del 2021”, mi confessa il nipote, un po’ amareggiato. “Mi spiace che domani il mare sarà calmo. Sarebbe stato bello provarle con il moto ondoso”.
L’ingegner Alberto Vaselli, lasciato il lettino su cui stava completando la torrefazione della propria epidermide, la brezza a gonfiargli i boxer, dopo una rapida occhiata alla struttura ha dichiarato a una tv locale che le paratoie non possono essere alzate: “Rischiano la distruzione in caso di vento e mare troppo forti”. Ma sabbia, vento e mare sono solo alcuni dei problemi delle paratoie. C’è pure la ruggine. Dopo appena tre ore si è scoperto che le paratoie Sud presentano scrostamenti della vernice protettiva, con intaccamento dell’acciaio. C’è ruggine anche sui delicatissimi gruppi cerniere-connettori che consentono il movimento. Occorrerà bandire una gara da 34 milioni di euro per la ricerca di soluzioni sui materiali, in vista della futura produzione di nuove cerniere. Se si pensa che le paratoie dovrebbero avere una vita di un secolo, la prognosi di usura nell’arco di poche ore è molto preoccupante. Il che dimostra come il castello di sabbia di mio nipote sarà un cantiere continuo. E questo porta l’attenzione sui costi di manutenzione, stimati in un centinaio di milioni all’anno.
L’elenco delle criticità, però, è ancora più lungo. Ci sono buchi nei tubi sott’acqua; e cedimenti dei cassoni in cemento posti sul fondale che fungono da alloggiamento delle cerniere; e il jack-up, la nave Playmobil attrezzata per sostituire periodicamente le paratoie da mettere in manutenzione (spesa stimata: 52 milioni di euro), che ancora non funziona. Per finire, la conca (stima: 35 milioni di euro) che dovrebbe consentire il passaggio di mosconi e pedalò con le paratoie in funzione. Un amichetto di mio nipote, armato di paletta e secchiello, si è subito messo a scavare una buca dirimpetto al castello. “Cosa stai facendo?” gli ho chiesto. E lui: “Sto facendo venir fuori un po’ di buio”.

Opere ingegnose ordinate da chi, utilizzando i soldi della collettività, i nostri, ha favorito personaggi senza alcuna esperienza o conoscenza dei lavori che avrebbe dovuto portare a termine.
Un flop di dimensioni immani, in quanto a perdita di tempo, soldi e... dignità!
Dignità di chi lo ha ordinato, di chi lo ha progettato e di chi avrebbe dovuto costruirlo e portarlo a termine funzionante.