giovedì 25 febbraio 2010

I 5 Blues Brothers “lobby nel mondo” - Enrico Fierro








25 febbraio 2010
Di Girolamo, De Gregorio e gli altri: politica e business

Cinque uomini su un manifesto. Abbigliamento da Blues Brothers, neri come le “jene”, un po' ridicoli come i “Soprano's”. Sono gli italiani nel mondo:
Basilio Giordano, Amato Berardi, Juan Esteban Caselli, Nicola Di Girolamo e in mezzo lui: Sergio De Gregorio, la mente della fondazione-partito. Una sigla politica? Un impero economico? Una potentissima lobby? Di tutto un po'. Basta dare una occhiata agli archivi della camera di commercio di Napoli, patria di De Gregorio, e perdersi in un arcipelago di sigle, tutte targate “Italiani nel mondo”: reti televisive, servizi immobiliari, editrice, Channel, socio sempre De Gregorio e sua moglie Maria Di Palma.

La passione per le tv e l'editoria ha creato qualche problema a De Gregorio per una storia di contributi statali alle tv private che nel 2008 vide coinvolto
Giovanni Lucianelli, all'epoca suo capoufficio stampa. Storie e problemi che non hanno mai fatto arretrare di un millimetro l'ex giornalista d'assalto che ebbe il suo momento di gloria nel 1995. Allora, “molto casualmente”, De Gregorio scoprì a bordo della nave da crociera “Monterey” Tommaso Buscetta. Scoppiò il finimondo.

Per rallegrare don Masino il futuro leader di “Italiani nel mondo” amava esibirsi nella celebre “Guapparia”. Altra musica, invece, 14 anni dopo, quando all'Auditorium della Conciliazione a Roma, De Gregorio e i suoi “blues brothers” presentano a Roma “Italiani nel mondo”. “Un movimento rivolto a tutti gli italiani che credono nella bandiera, nella lingua, nella cultura e nella Patria”, dice il fondatore. Si commuove anche
Susanna Petruni, la “farfallina” del Tg1 che quella sera fa da madrina d'onore. Sergio De Gregorio tiene molto ai suoi meeting. Quando tre anni prima, nel 2006, presenta il movimento a Palermo la sala dell'Hotel Parco dei Principi è gremita. Sono venuti anche da New York ad applaudire e a portare la promessa di soldi.

C'è la principessa
Josephine Borghese e Maria Pia Dell'Utri, la ex moglie del fratello gemello di Marcello. Fratelli d'Italia sparsi per il mondo, la vera forza di De Gregorio. Lui sì un vero emigrante. Non ha girato continenti, ma partiti. Ex socialista craxiano, poi affascinato dalla Dc di Rotondi, simpatizzante di Forza Italia, infine senatore grazie a Di Pietro, prima di ritornare nelle braccia di Berlusconi. E qualche guaio giudiziario. Quello brutto a Reggio Calabria, dove la procura antimafia lo imputa di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito la cosca Ficara nell'acquisto di una caserma dismessa. Scoppiano polemiche, il senatore grida al complotto. Il 27 maggio dell'anno scorso un decreto di archiviazione lo scagiona da ogni accusa.

Ora De Gregorio è pronto per lanciare il suo movimento e farlo confluire nel Pdl di
Berlusconi. I suoi uomini di punta sono quelli del manifesto in nero. Nicola Paolo Di Girolamo, il politico di riferimento del clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Nelle carte dell'inchiesta che ha coinvolto i vertici di “Fastweb” c'è un particolare che racconta il legame del senatore con i vertici della 'ndrangheta crotonese. Franco Pugliese, il riciclatore della cosca Arena, è un appassionato di barche di lusso, per 200mila euro compra uno yacht “Franck One” da una ditta di Trapani, il senatore lo aiuta ad intestarlo alla “Adv & Partners”, una società romana. Amato Berardi è stato eletto negli Usa, presidente del “Niapac” - National american committee -, è responsabile di un fondo in grado di gestire 60 miliardi di dollari.

“Se necessario – promise nella kermesse palermitana – interverremo per la costruzione del Ponte sullo Stretto”. Sulla testa di Basilio Giordano – calabrese emigrato a Montreal “perché mi innamorai di mia moglie” - pende un ricorso del primo dei non eletti. Juan Esteban Caselli è stato eletto nella circoscriszione latino-americana. Tanti voti in Argentina, dove conta di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2011, tantissimi in Venezuela. C'è una contestazione sulle schede che lo hanno portato in Parlamento, stessa calligrafia, stesso inchiostro, sospetti e una inchiesta aperta. Perché in Venezuela all'epoca delle elezioni si mise all'opera
Aldo Micciché, un faccendiere calabrese da anni riparato nel paese sudamericano che in Italia dovrebbe scontare 25 anni di galera.

Amico stretto di Dell'Utri, alla vigilia delle elezioni i due si parlano spesso, come accerta una inchiesta della Dda di Reggio Calabria. “Presto si vota e ci dobbiamo preparare” , dice Micciché. “Lo misi in contatto con
Barbara Contini che si occupava del voto degli italiani all'estero”, la replica del senatore. Il 26 marzo 2007 Micchiché è in prima fila alla presentazione dei candidati del Pdl a Caracas.

Da il Fatto Quotidiano del 25 febbraio


Il clan degli onorevoli - Peter Gomez


25 febbraio 2010
È il nostro Parlamento ma sembra la Chicago di Al Capone: tutti gli uomini mandati da Cosa Nostra per “fare il lavoro”.

Guardi il Parlamento e pensi al consiglio comunale di Chicago. Quello degli anni Venti, in cui Al Capone teneva il sindaco William “Big Bill” Hale Thompson jr e tutti gli altri a libro paga. E, almeno nei film, apostrofava i pochi poliziotti onesti urlando “Sei tutto chiacchiere e distintivo”. Il caso di Nicola Di Girolamo, il senatore Pdl che si faceva fotografare abbracciato ai boss e si metteva sull’attenti quando gli dicevano “tu sei uno schiavo e conti quanto un portiere”, è infatti tutt’altro che isolato. Tra i nominati a Montecitorio e Palazzo Madama, gli uomini (e le donne) risultati in rapporti con le cosche sono tanti. Troppi. Anche perché farsi votare dalla mafia non è reato. Frequentare i capi-bastone nemmeno. E così, mentre la Confidustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone che, codice alla mano, non commettono un reato, ma lo subiscono), i partiti imbarcano allegramente di tutto . Anche chi potrebbe aver fatto promesse che oggi non può, o non vuole, più rispettare.

Quale sia la situazione lo racconta bene la faccia di
Salvatore Cintola, 69 anni, uomo forte dell’Udc siciliano dopo che pure in secondo grado Totò Cuffaro ha incassato una condanna (sette anni) per favoreggiamento mafioso. Pier Ferdinando Casini lo ha fatto entrare al Senato (come Cuffaro) sebbeneGiovanni Brusca, il boss che uccise il giudice Falcone, lo considerasse un suo “amico personale”. Quattro archiviazioni in altrettante indagini per fatti di mafia, una campagna elettorale per le Regionali del 2006 (17.028 preferenze) condotta ad Altofonte - stando alle intercettazioni - dagli uomini d’onore e persino una breve militanza in Sicilia Libera, il movimento politico fondato per volontà del bossLuchino Bagarella, non sono bastate per sbarrargli le porte.

Anche perché, se si dice di no al vecchio Cintola, si finisce per dire no pure al giovane deputato
Saverio Romano. Anche lui ha la sua bella archiviazione alle spalle (concorso esterno). Ma nel palmares può fregiarsi del titolo di candidato Udc più votato alle ultime Europee (110.403 preferenze nelle isole). Per questo, anche se di fronte a testimoni anni fa pronunciò una frase minacciosa che pare tratta dalla sceneggiatura del Padrino (“Francesco mi vota perché siamo della stessa famigghia” disse rivolgendosi al pentito Francesco Campanella), Romano fa carriera. È membro della commissione Finanze, Il segretario Lorenzo Cesa, lo ha nominato commissario dell’Udc a Catania, mentre Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, lo ha incluso con Cintola, Cuffaro, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini, nell’elenco dei parlamentari a cui sarebbero finiti soldi provenienti dal tesoro di suo padre.

Così Romano è oggi indagato come gli altri per corruzione aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra. E se mai finirà alla sbarra qualcuno in Parlamento, c’è da giurarlo, dirà: “È giustizia ad orologeria”. Ma la verità è un’altra. I rapporti di forza tra la mafia e la politica stanno cambiando. Il dialogo tra i due poteri e sempre meno paritario. Nel 2000, quando una microcamera immortala l’attuale senatore del Pd,
Mirello Crisafulli, mentre discute di appalti con il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua (appena uscito di galera), negli investigatori della polizia resta ancora il dubbio su chi sia a comandare. “Fatti i cazzi tuoi” dice infatti chiaro Crisafulli (poi archiviato), al mafioso. In altri dialoghi, invece, il rapporto sembra invertirsi.

A bordo della sua Mercedes nera
Simone Castello (un ex iscritto al Pci-Pds diventato un colonnello di Bernardo Provenzano) ascolta così il capo del clan di Villabate, Nino Mandalà (nel 1998 membro del direttivo provinciale di Forza Italia), mentre sostiene di aver “fatto piangere”, l’ex ministro Enrico La Loggia. “Gli ho detto: Enrico tu sai chi sono e da dove vengo e che cosa ero con tuo padre. Io sono mafioso come tuo padre. Ora lui non c’è più, ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso” racconta Mandalà al compare aggiungendo che La Loggia, in lacrime, si sarebbe messo a implorare: “Tu mi rovini, tu mi rovini”. In questo caso la minaccia (smentita da La Loggia, che però ammette l’incontro) è quella di svelare legami inconfessabili. Un po’ quello che sta accadendo in questi mesi con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi che, secondo molti osservatori, starebbero subendo una sorta di ricatto. Dell’Utri, dicono i giudici, ha stretto un patto con i clan. Un patto non rispettato o solo in parte. E così adesso, visto che è difficile organizzare un attentato ai suoi danni (nel 2003 Dell’Utri e una serie di avvocati parlamentari erano stati inclusi dal Sisde in un elenco di personaggi politici che la mafia voleva ammazzare perché di fatto considerati traditori), la vendetta potrebbe passare attraverso le rivelazioni nei tribunali. Fantascienza? Mica tanto. Perché, almeno nel caso di Dell’Utri, ogni volta (o quasi) che intercetti un telefono di un presunto uomo delle cosche, corri il rischio di ascoltare la sua voce. È successo nell’indagine su Di Girolamo (vedi articolo a pagg. 4-5 de Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2010). Ed è accaduto due anni fa, poco prima delle elezioni, con gli affiliati del clan Piromalli. Il loro referenteAldo Micciché (vedi articolo a fianco) chiamava il senatore in ufficio dal Venezuela, mentre a uno dei ragazzi della ‘Ndrina Dell’Utri affida il compito di aprire un circolo del Buon governo a Gioia Tauro.

Ovvio che tanta disponibilità al dialogo (Dell’Utri si è giustificato dicendo che lui “parla con tutti”) anche se non dovesse nascondere accordi illeciti, espone quantomeno al rischio di pericolosi equivoci. Se alla Camera entra una bella ragazza di Bagheria, priva di esperienza politica, come
Gabriella Giammanco(Pdl), e poi si scopre che suo zio, Michelangelo Alfano, è un boss condannato in via definitiva, è chiaro come qualcuno nelle famiglie di rispetto possa pensare (sbagliando) di trovarsi di fronte a una sorta di messaggio. E se nel governo siede ancora un sottosegretario, Nicola Cosentino, con parenti acquisti detenuti al 41-bis e una richiesta di arresto per Camorra che pende sulla sua testa, è inevitabile che gli uomini di panza considerino il premier un loro amico. Un politico come tutti quelli con cui i patti sono stati siglati con certezza. E ai quali, parafrasando Al Capone, si può sempre gridare, in caso di cocente delusione: “Sei solo chiacchiere e distintivo”.

da Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2010

Lambro, dietro quel sabotaggio appalti e un progetto milionario



È un affare da mezzo miliardo di euro, un progetto faraonico da 187mila metri quadrati su un terreno di 309mila. Ed è previsto proprio sui terreni della Lombarda Petroli, l´ex raffineria di Villasanta a Monza da cui sono stati fatti uscire gli ottomila metri cubi di petrolio che hanno avvelenato il Lambro per poi riversarsi nel Po







Condanna Mills al vaglio Cassazione, attesa per Berlusconi

25 febbraio 2010
Roma.
Approda oggi alla Corte di Cassazione il processo all'avvocato inglese David Mills, condannato in due gradi di giudizio per corruzione...


...in atti giudiziari a quattro anni e mezzo di reclusione.
C'è molta attesa per la sentenza che pronuncerà la Corte a sezioni unite, soprattutto per le conseguenze che avrà sulla posizione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, imputato per la medesima vicenda in un processo stralcio.

Gli avvocati di Mills hanno presentato ricorso in Cassazione puntando all'annullamento della sentenza di appello per intervenuta prescrizione, con una ricaduta per il processo a Berlusconi, ancora in primo grado, che è imputato dello stesso identico reato -- se Mills è il presunto corrotto, il premier è il presunto corruttore.

La Cassazione ascolterà nell'aula magna del "Palazzaccio" romano prima le tesi della procura generale, poi quelle dei difensori di Mills e dell'Avvocatura dello Stato, in rappresentanza della presidenza del Consiglio, costituitasi parte civile.

L'avvocato d'affari è stato condannato sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello di Milano per non aver rivelato nella veste di testimone (qualifica che impone di dire il vero e non tacere nulla di quel che si sa) in due processi del '97 (All Iberian e Tangenti alla Guardia di Finanza) le informazioni su due società off-shore che per l'accusa sarebbero state usate da Mediaset per creare fondi neri, dietro il compenso di 600.000 dollari che secondo la procura gli sarebbero stati riconosciuti da Berlusconi attraverso lo scomparso manager Fininvest Carlo Bernasconi.

Mills dopo una prima ammissione in indagini preliminari, ha negato ogni addebito. Berlusconi e Mediaset hanno sempre respinto tutte le accuse.

Al centro del ricorso degli avvocati di Mills ci sono due questioni: la qualificazione del reato e la definizione del momento in cui si deve considerare consumato il reato di corruzione giudiziaria.

Sul primo punto, la Corte di Appello di Milano ha qualificato il reato come corruzione giudiziaria "susseguente", con il pagamento successivo alla testimonianza reticente. La difesa di Mills ha eccepito che la Cassazione ha dato in passato valutazioni diverse di questo reato, e sostiene che, visto che il reato si è consumato assai dopo la testimonianza nei processi, il reato si debba derubricare in corruzione semplice. La differenza è sostanziale per Mills (e per Berlusconi); se fosse corruzione semplice e non in atti giudiziari, il reato sarebbe già prescritto e l'imputato dovrebbe essere prosciolto.

Sul secondo punto, quello della datazione del reato, i giudici milanesi hanno detto che il reato contestato a Mills è stato consumato nel febbraio del 2000, quando avrebbe ricevuto il denaro, e non al momento della comunicazione né a quello della disposizione di pagamento. In questo caso il processo è "vivo" e la prescrizione scatterebbe solo nell'aprile di quest'anno.

Gli avvocati sostengono invece che il reato è tale se consumato al momento della comunicazione del pagamento, che nel caso di Mills risalirebbe al novembre 1999; ancora una volta, l'effetto della "retrodatazione" del reato è l'avvenuta prescrizione.

Se i giudici di Cassazione confermeranno la sentenza di appello, la condanna di Mills diventerebbe definitiva. La pronuncia della Suprema corte è attesa entro sera.


Reuters



Ci pensa la procura di Roma - Peter Gomez


24 febbraio 2010

Le accuse al magistrato Toro e il "porto delle nebbie": dove le inchieste scomode vengono trattate con "riguardo"

Inutile girarci intorno. Non era necessaria l’indagine fiorentina sull’ormai ex procuratore aggiunto
Achille Toro per capire che il Palazzo di Giustizia della Capitale era da un pezzo tornato ad essere un porto delle nebbie. Per comprendere che cosa accade a Piazzale Clodio, dove pure lavorano decine di magistrati dalla schiena dritta, bastano invece le collezioni dei giornali. Da anni, e con sempre maggiore frequenza, i cronisti raccontano come buona parte delle inchieste sui potenti (di qualsiasi colore) condotte dall’ufficio diretto dal procuratore Giovanni Ferrara abbiano un esito pressoché scontato: o finiscono in archivio o partoriscono il più classico dei topolini.

Gli esempi sono tanti. Si va dal caso
Berlusconi-Saccà, ai voli di Stato con fanciulle del Cavaliere; dai viaggi aerei verso il gran premio di Monza (con amici e familiari) di Francesco Rutelli e Clemente Mastella, fino alle prime indagini sullo spionaggio degli uomini dell’ex governatore del Lazio, Francesco Storace, ai danni di Piero Marrazzo.

Ma suscitano perplessità e interrogativi pure l’inchiesta sulla
Parmatour di Calisto Tanzi e quella sui supposti ricatti legati a Vallettopoli. Certo, a volte ci sono fondati motivi giuridici, per chiudere tutto. Ma è incontestabile che "prudenza", "mosse ponderate" siano state fino a ieri le parole d’ordine di Ferrara e del suo ex braccio destro Toro. Parole riecheggiate anche nella primavera del 2009 quando, di fronte alla Guardia di finanza, i carabinieri e i pm che domandavano d’investigare a fondo sugli affari del gruppo Anemone e sulle ruberie in occasione del G8(mancato) alla Maddalena, Ferrara e Toro decisero di procedere con il piombo nel timore, scrive Repubblica, di ledere l’immagine dell’Italia.

Oggi Toro è indagato per corruzione, favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo l’ipotesi d’accusa dietro le fughe di notizie che misero gli uomini della cricca della Protezione civile in allarme per i probabili arresti potrebbe esserci stato una scambio di favori. Gli eventuali reati, però, non bastano per spiegare che cosa è accaduto negli ultimi anni negli uffici al vertice della procura di Roma. Il vero punto è un altro: i rapporti delle toghe con il potere politico e la volontà di disturbare il meno possibile il manovratore. Un paio di esempi giovano a capire.

Proprio nei mesi in cui l’inchiesta romana sul gruppo Anemone veniva di fatto insabbiata, la procura si trova di fronte a un grosso problema: il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Da Napoli sono arrivate le carte sul caso di Agostino Saccà. L’ex direttore generale della Rai, è stato sorpreso al telefono mentre riceveva dal premier calorose raccomandazioni su una serie di attricette da piazzare in varie
fiction e, in cambio, incassava la promessa di un aiuto nelle sue future attività imprenditoriali. Quasi contemporaneamente la passione di Berlusconi per le belle ragazze apre pure un secondo fronte: il fotografo Antonello Zappadu ne ha immortalate molte mentre scendevano ad Olbia da aerei di Stato.

Lo scandalo è in apparenza enorme. Ma la prudentissima Procura di Ferrara riesce a trovare la soluzione. Vediamo come. In totale gli scali ripresi da Zappadu sono cinque, così gli accertamenti (di tipo strettamente burocratico) vengono condotti solo sulle liste passeggeri dei voli Roma-Olbia del 24, 25 e 31 maggio, 1 giugno e 17 agosto 2008. Berlusconi in quelle occasioni è sempre presente. Dunque, spiega la procura nella sua repentina richiesta di archiviazione non c'è stato "alcun danno patrimoniale" né sono "emersi casi di soggetti estranei che hanno viaggiato in assenza del presidente". L’abuso di ufficio e il peculato sono "insussistenti". Tutto vero. Ma perché non allargare i controlli pure agli altri voli, come suggerivano alcuni pm? Prudenza.

Più complicato è invece il caso Saccà. Quella è davvero una brutta storia che lede l’immagine dell’Italia. Le intercettazioni (inviate per competenza dal gup di Napoli al quale la procura partenopea aveva chiesto il rinvio a giudizio degli imputati) sono esplicite. E, quel che peggio, secondo i pm napoletani, dal loro ascolto emerge anche l’ipotesi che una delle attrici raccomandate,
Evelina Manna, abbia ricattato il premier. In pratica potrebbe averlo minacciato di svelare i retroscena della loro amicizia se non avesse ricevuto un aiuto (e per questo Napoli ha suggerito a Roma di aprire un’inchiesta per concorso in estorsione). Il tutto però finisce in archivio.

Come? Grazie a molte acrobazie giuridiche e un accorto uso dei media. Della storia dell’ipotetico ricatto non si saprà infatti mai niente. Anche perché un sunto delle 14 pagine della richiesta di archiviazione viene fatto arrivare (opportunamente depurato dalla parte riguardante le pressioni della Manna) nelle mani di alcuni cronisti. Già quello che si legge basta comunque per capire che aria tira in procura. Berlusconi dice, per esempio, a Saccà: "Aiuta
Elena Russo è come se aiutassi me e io poi ti ricambierò dall’altra parte quando sarai un libero imprenditore”. Sembra una corruzione in piena regola. Ma per la procura la frase prova il do ut des. E poi, sostengono gli uomini di Ferrara, Saccà, “non è un incaricato di pubblico servizio".

La tesi è bizzarra (tanto che il gip la farà propria solo in parte) e contrasta pure con una sentenza della Cassazione. Ma non importa. Meglio essere prudenti. Col risultato che, a volte, il caso ti deflagra in mano. Come è accaduto con la Protezione civile o come è successo, nel 2005, con l’indagine Storace. Cinque anni fa i carabinieri si rendono conto che degli investigatori privati in contatto con l’ex governatore del Lazio stanno spiando Marrazzo durante la campagna elettorale. Chiedono a Toro d’intercettare i telefoni. Ma lui dice di no. Finisce che tutto viene scoperto dai pm di Milano e scattano le manette. Lo smacco è grande, ma Toro viene lo stesso considerato affidabile. Sia in procura sia dalla politica.

Tanto che nel 2006 quando finisce sotto inchiesta per fughe di notizie legate al caso
Unipol, prima il ministro Alessandro Bianchi, lo sceglie come capo dei gabinetto, e poi una volta incassata l’archiviazione (con qualche interrogativo) torna in procura per dirigere il pool dei reati contro la pubblica amministrazione. Piedi di piombo, in questo caso, nessuno. Anche perché Toro è un leader di Unicost (la corrente moderata del sindacato dei giudici, in cui milita Ferrara), per quattro anni è stato membro del Csm, piace persino alla sinistra (Bianchi è legato al Pdci) ed è amato della destra. Insomma è l’uomo giusto per un posto prudentemente giusto.

Da
il Fatto Quotidiano del 24 febbraio