domenica 9 settembre 2018

SENTI CHI PIRLA - Marco Travaglio

Giglio nero, le rivelazioni dell’ad di Consip svelano il sistema

“Complotto”, “Watergate italiano”, “eversione”, “attacco alla democrazia”, “inchiesta con false prove per colpire il governo”, “pm deviati”. 

Sembrano parole di Matteo Salvini, il vicepremier e ministro eversore che sfida e minaccia i giudici dei casi Lega e Diciotti, ricorda che non sono stati eletti mentre lui sì (mo’ me lo segno) e appende nel suo ufficio al Viminale l’avviso di garanzia per sequestro di persona come una medaglia di guerra o un trofeo di caccia, beccandosi le sacrosante reprimende delle opposizioni, degli alleati 5Stelle e delle migliori penne del giornalismo. 
Invece no: sono alcuni dei commenti che i massimi vertici del Pd renziano dedicarono ai pm e ai carabinieri che avevano scoperto lo scandalo Consip: cioè i traffici del galoppino di papà Renzi e dell’imprenditore Alfredo Romeo per truccare il più grande appalto d’Europa (2,7 miliardi di euro) e le fughe di notizie dal Giglio Magico renziano per avvertire i sospettati su indagini e intercettazioni, salvarli dai guai e rovinare l’indagine.
Era un anno fa, il 15 settembre 2017, quando una fuga di notizie dal Csm trasmise a Repubblica, Corriere e Messaggero alcuni stralci (manipolati ad arte) di un verbale segretato del procuratore di Modena Lucia Musti, sentita mesi prima su un’altra inchiesta condotta dagli stessi inquirenti di Consip: il pm Henry John Woodcock e il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto. Dal verbale taroccato, pareva che la Musti accusasse Scafarto e il suo ex comandante Sergio de Caprio di averle fatto pressioni per “far esplodere la bomba” e “arrivare a Renzi”. 
La bufala, rilanciata a reti ed edicole unificate, servì allo stato maggiore del Pd (seguito a ruota dai partiti alleati e amici, inclusa ovviamente FI) per accusare i pm napoletani delle stesse nefandezze che Salvini & C. imputano ai magistrati siciliani e genovesi. “Lo scandalo Consip – tuonò Renzi – è nato per colpire me e credo che colpirà chi ha falsificato le prove per colpire il premier. Io lo so bene chi è il mandante”. Il presidente Matteo Orfini rincarò: “Questo è il Watergate italiano”, un caso di “eversione”, un “attacco alla democrazia”. Il capogruppo Luigi Zanda, l’ex segretario Ds Piero Fassino e il sottosegretario Riccardo Nencini, in perfetta coordinazione, strillarono al “complotto”. I ministri Franceschini e Pinotti si unirono al coro. Andrea Romano e Mario Lavia, direttore e vice dell’house organ “Democratica”, titolarono stentorei: “Il complotto”. L’ora era grave. Si attendeva lo schieramento delle Forze Armate a presidio delle istituzioni minacciate dalla magistratura deviata.
Poi, quando uscì il vero verbale della Musti (sul Fatto), si scoprì che era un Piano Sòla: l’indagine riguardava una coop emiliana vicina alla vecchia “ditta” del Pd (cioè non a Renzi, ma ai suoi avversari interni) e, portando delle carte di quel fascicolo, Scafarto aveva confidato alla pm di essere impegnato in un’altra indagine che portava al giro renziano (Consip). Acqua fresca, insomma. Ma nessuno rettificò, né si scusò, anzi il processo staliniano a Woodcock è proseguito fino all’altroieri sui media e in un Csm ormai scaduto e putrefatto, ma sopravvissuto a se stesso solo per sparare le ultime raffiche contro il pm napoletano (e pure contro Di Matteo).
Ora qualcuno dirà: qualunque scandalo investa il governo giallo-verde, parte il solito ritornello “E allora il Pd?”. Ma è esattamente l’inverso: è il Pd che, qualunque scandalo tocchi il governo giallo-verde, non ha alcun titolo per scandalizzarsi perché ha fatto le stesse cose e pontifica dal peggior pulpito possibile. Come quello dei giornaloni, del Csm e di pezzi dell’Anm che, quando Renzi & C. attaccavano i magistrati, non gridavano all’eversione, ma tacevano o si associavano. Il 16 settembre 2017, anziché ridicolizzare – carte alla mano – i delirii pidin-governativi, Repubblica li rilanciò con lo stesso armamentario dialettico di B&C. Titolo di prima pagina: “Caso Consip, manovre e veleni. Renzi: creato solo per colpirmi”. Editoriale del direttore: “La democrazia anormale”. E giù botte contro gli inquirenti colpevoli di “manipolazione delle carte giudiziarie… affinché fosse affondato l’allora primo ministro”, per “disarcionarlo” e “chiudere una carriera politica”. Un caso di giustizia a orologeria, con perfetta “tempistica”, per rovesciare il governo del povero Renzi (che per la cronaca, quando uscirono le prime notizie su Consip, si era già dimesso da due settimane). 
Seguiva un drammatico appello a chi di dovere (Quirinale? Ue? Nato? Onu?) sulla “necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato ed eversivo” e usano il “metodo a strascico… con intercettazioni telefoniche e ambientali” (copyright a B.).
Ma c’è di più, come ricordiamo oggi a pag. 2 a beneficio degli smemorati di Collegno. La Lega ha rubato 49 milioni di soldi pubblici al Parlamento e deve restituirli, o farseli sequestrare. Dunque ha ragione l’opposizione, cioè il Pd (stante comprensibile il silenzio di FI in tema di furti), a reclamare il bottino a nome dei cittadini derubati. Anzi avrebbe ragione se lo stesso Pd non avesse promosso al governo e in Parlamento un plotone di consiglieri regionali e comunali indagati nelle varie Rimborsopoli per altri soldi pubblici rubati: quelli per le spese politico-istituzionali dei gruppi consiliari. Tutto ciò non allevia di un grammo le colpe della Lega nelle ruberie e negli attacchi ai giudici: dimostra soltanto che il primo problema dell’opposizione, oltre al crollo di voti e consensi, è l’assenza di credibilità. L’oppositore che non si può zittire con un bel “senti chi parla” deve ancora nascere. O sta entrando all’asilo.
Fatto Quotidiano - 9 settembre 2018