giovedì 11 giugno 2015

STIGLITZ – EUROPA: ULTIMO ATTO?


Su Social Europe  un articolo di Joseph Stiglitz commenta i negoziati tra la Grecia e i paesi creditori. Questi ultimi continuano a insistere su un programma che si è dimostrato clamorosamente distruttivo per la Grecia,  e  il premio Nobel si chiede se, per il bene dell’Europa e del mondo, i leader europei ce la faranno ad arrivare a comprendere quel minimo di economia che possa permettere loro di salvare il progetto europeo. A questo punto, però, se il progetto dell’euro è stato sin dall’inizio un attacco sferrato al mondo del lavoro, allo stato sociale e alla democrazia,  e una guerra economica e finanziaria volta a ridurre a colonie i paesi periferici,   i leader europei in realtà sono perfettamente coerenti rispetto ai loro obiettivi non dichiarati… (CARMENTHESISTER)
Joseph Stiglitz, June 8, 2015
I leader dell’Unione Europea continuano a portare avanti la politica del muro contro muro con il governo greco. La Grecia è venuta incontro alle richieste dei suoi creditori molto più che a mezza strada. Tuttavia la Germania e gli altri creditori continuano a chiedere che il Paese firmi un programma che si è dimostrato fallimentare, e che solo pochi economisti hanno mai ritenuto che potesse o dovesse essere attuato.
Il cambiamento della situazione di bilancio greca, da un ampio disavanzo primario a un surplus, è stato quasi senza precedenti, ma la richiesta che il Paese raggiungesse un avanzo primario del 4,5% del Pil era irragionevole. Sfortunatamente, al tempo in cui la “troika” – la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale – ha per la prima volta inserito la sua richiesta irresponsabile nel programma di finanziamento internazionale per la Grecia, le autorità del Paese non avevano altra possibilità che accettare.
La follia di continuare a perseguire tale programma adesso è particolarmente grave, considerato il calo del 25% del Pil che la Grecia ha dovuto subire dall’inizio della crisi. La troika ha valutato male gli effetti macroeconomici del programma che ha imposto. In base alle sue previsioni, essa riteneva che, tagliando i salari e accettando altre misure di austerity, le esportazioni greche sarebbero aumentate e l’economia sarebbe presto tornata a crescere. Essa inoltre credeva che la prima ristrutturazione del debito avrebbe portato alla sua sostenibilità.
Le previsioni della troika si sono rivelate sbagliate, e gli errori si sono ripetuti. E non di poco, ma di molto. Gli elettori della Grecia avevano ragione a chiedere un cambiamento, e il loro governo ha ragione a rifiutare di firmare un programma profondamente sbagliato.
Detto questo, c’è la possibilità di un accordo: la Grecia ha manifestato la sua disponibilità a impegnarsi in continue riforme e ha accettato l’aiuto dell’Europa nell’attuare alcune di quelle riforme. Una dose di realismo da parte dei creditori della Grecia – su quello che è effettivamente realizzabile, e sulle conseguenze macroeconomiche delle diverse riforme fiscali e strutturali– potrebbe fornire le basi di un accordo, che sarebbe positivo non solo per la Grecia, ma per tutta l’Europa.
Alcuni in Europa, specialmente in Germania, sembrano non dare importanza a una possibile uscita della Grecia dall’Eurozona. Il mercato, affermano, ha già “scontato il prezzo” di una rottura. Alcuni hanno anche suggerito che per l’Unione monetaria sarebbe un fatto positivo.
Io ritengo che tali punti di vista sottostimino in maniera significativa sia i rischi attuali che quelli futuri. Un simile livello di leggerezza era presente negli Stati Uniti prima del collasso di Lehman Brothers, a settembre 2008. La fragilità delle banche americane era nota da tempo – almeno dalla bancarotta di Bear Stearns a marzo. Tuttavia, data la mancanza di trasparenza (dovuta in parte alla debole regolamentazione), sia i mercati che i policymaker non sono stati in grado di valutare bene le interdipendenze tra le istituzioni finanziarie.
In realtà, il sistema finanziario mondiale risente ancora degli effetti del collasso della Lehman. E le banche restano poco trasparenti, e quindi a rischio. Non sappiamo ancora la portata totale dei legami tra le istituzioni finanziarie, compresi quelli che provengono dai derivati e dai credit default swap.
In Europa, possiamo già assistere ad alcune delle conseguenze di una regolamentazione inadeguata e del progetto imperfetto della stessa Eurozona. Sappiamo che la struttura dell’Eurozona favorisce la divergenza, non la convergenza: dal momento che i capitali e le persone qualificate abbandonano le economie colpite dalla crisi, tali paesi diventano meno capaci di ripagare i loro debiti. Poiché i mercati comprendono che una pericolosa spirale al ribasso è strutturalmente insita nell’euro, le conseguenze della prossima crisi saranno molto serie. E un’altra crisi è inevitabile: è nella vera natura del capitalismo.
L’astuzia del Presidente della Bce Mario Draghi, che nel 2012 aveva dichiarato che le autorità monetarie avrebbero fatto “tutto il necessario” per preservare l’euro, finora ha funzionato. Tuttavia la consapevolezza che l’euro non è un impegno vincolante tra i suoi membri renderà molto meno probabile che il trucco funzioni ancora. I rendimenti sui bond subirebbero un’impennata, e nessuna rassicurazione da parte della Bce e dei leader europei sarebbe sufficiente ad abbassarli da livelli stratosferici, poiché il mondo ora sa che le autorità non faranno “tutto il necessario”. Come mostra l’esempio della Grecia, esse faranno solo quello che una politica poco lungimirante richiede.
La conseguenza più importante, temo, è la debolezza della solidarietà europea. L’euro avrebbe dovuto rafforzarla. Invece l’ha indebolita.
Non è nell’interesse dell’Europa – o del mondo – avere un paese alla periferia dell’Europa che viene lasciato solo dai suoi vicini, specialmente adesso, che l’instabilità politica è già così evidente. Il vicino Medio Oriente è in fermento; l’Occidente sta tentando di contenere una Russia nuovamente aggressiva; e la Cina, che era già la maggiore fonte di risparmio del mondo, il maggior paese per scambi commerciali e in complesso la maggiore economia (in termini di parità di potere di acquisto), sta facendo i conti con le nuove realtà strategiche ed economiche dell’Occidente. Non è tempo per l’Europa di dividersi.
Quando hanno creato l’euro, i leader europei si consideravano dei visionari. Pensavano di guardare oltre le necessità a breve termine che solitamente preoccupano i leader politici.
Sfortunatamente, la loro conoscenza dell’economia non è all’altezza della loro ambizione; e la politica in questa fase non ha consentito la creazione di un quadro istituzionale che potrebbe permettere all’euro di funzionare come previsto. Anche se si riteneva che la moneta unica avrebbe portato a una prosperità senza precedenti, è difficile scorgere in tutta l’Eurozona nel periodo pre-crisi un significativo effetto positivo. Da allora in poi, gli effetti negativi sono stati ingenti.
Il futuro dell’Europa e dell’euro ora dipende dalla capacità dei leader politici europei di mettere insieme un minimo di conoscenza economica con una certa lungimiranza e un certo interesse per la solidarietà europea. Probabilmente nelle prossime settimane cominceremo a conoscere la risposta a questo quesito esistenziale.

GUARDIAN: LA PRIVATIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI NON È LA RISPOSTA PER UNO SVILUPPO SOSTENIBILE. - HENRY TOUGHA


Un articolo del Guardian denuncia i danni fatti dalla privatizzazione dei servizi pubblici fondamentali: le imprese private esigono tariffe più alte, investono di meno e lasciano da parte le comunità più povere. L’articolo si concentra specialmente sul pericolo dei trattati internazionali che permettono a investitori privati di fare causa agli Stati sovrani i quali, per il bene pubblico, pongono limiti ai loro profitti. (Ricordiamo che il TTIP, il mega-trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti che si sta definendo nel silenzio dei media, con ogni probabilità materializza questo pericolo…)

di Mark Dearn e Meera Karunananthan, 21 maggio 2015
A New York questa settimana gli stati membri dell’ONU discutono le modalità per l’implementazione e la valutazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG), che saranno il focus del programma di sviluppo dell’ONU per i prossimi 15 anni. Nel rapporto del 2014 sugli investimenti nel mondo, la Conferenza dell’ONU sul commercio e lo sviluppo stima che il raggiungimento degli obiettivi richiederà tra 3,3 e 4,5 triliardi di dollari all’anno. I sostenitori delle privatizzazioni si sono avvalsi dell’evidenza di questo ammanco nel finanziamento per sostenere la causa di una maggiore partecipazione del settore privato, specialmente nel sud del mondo.
Ma prima che l’ONU crei un nuovo canale per gli investimenti privati nei servizi pubblici dovrebbe guardare più da vicino la storia di come il settore privato ha “lasciato indietro” le persone più marginalizzate e vulnerabili. Questo è particolarmente importante in un contesto globale dove i trattati sugli investimenti limitano sempre di più la possibilità che gli Stati hanno di impegnarsi a garantire i diritti umani anche dove ciò interferisce con il profitto.
A marzo di quest’anno una corte indonesiana ha annullato un contratto privato della durata di 17 anni con le imprese multinazionali dell’acqua Suez e Aetra, sulla base del fatto che violava i diritti umani, dato che da quando la privatizzazione era iniziata le tariffe erano aumentate di quattro volte, c’era stata una copertura del servizio minore di quanto promesso, e i livelli delle perdite d’acqua raggiungevano il 44 percento.
Giacarta è la più grande delle 186 città nel mondo che nell’ultimo decennio hanno riportato i servizi idrici e igienico-sanitari sotto il controllo del settore pubblico. Nel maggio 2014 la corte suprema di giustizia della Grecia ha impedito la privatizzazione dell’acqua ad Atene, dichiarando che ciò avrebbe violato i diritti umani. Nel luglio 2012 la corte costituzionale italiana ha bloccato i piani di privatizzazione dell’acqua. L’Uruguay e l’Olanda hanno stabilito dei veri e propri divieti ai servizi idrici privati. Per la maggior parte di questi casi, si è trattato dell’esito dell’indignazione pubblica contro i profitti astronomici delle grandi imprese a fronte dell’imbroglio verso gli utenti, che vedevano un calo della qualità del servizio e una diminuzione degli standard ambientali, igienici e del lavoro.
La ricerca mostra che l’ammanco di 260 milioni di dollari nel finanziamento dei servizi idrici e igienico-sanitari verranno coperti meglio attraverso le risorse pubbliche, che al momento contano per oltre il 90 percento degli investimenti globali nelle infrastrutture.
Al contrario, non avendo un incentivo economico a servire comunità povere, il settore privato non garantisce il godimento universale dei diritti umani ad avere servizi idrici e igienico-sanitari. Uno studio dell’Unità Internazionale di Ricerca sui Servizi Pubblici (PSIRU) ha mostrato che gli investimenti del settore privato portano a molto poche nuove connessioni nelle parti del mondo che avrebbero più bisogno, come l’Africa sub-sahariana e il sud dell’Asia.
Dato che richiedono un ritorno sugli investimenti, le operazioni finalizzate al profitto sono molto più costose del finanziamento pubblico ottenuto tramite tassazione progressiva o emissione di titoli. I suddetti dati del PSIRU dimostrano che la stragrande maggioranza degli Stati ha la capacità di fornire l’accesso universale a buoni servizi pubblici. Perfino i paesi che hanno il maggior numero di persone in carenza di acqua e collegamenti fognari possono fornire questi servizi nel giro di 10 anni impiegando meno dell’uno percento del PIL annuale. Per i pochi paesi le cui necessità non riescono ad essere coperte tramite tassazione progressiva, la parte mancante può essere coperta tramite aiuti.
Gli investimenti esteri pongono una crescente minaccia a causa della rescente rete di accordi commerciali e sugli investimenti che prevedono sistemi di risoluzione delle controversie tra Stati e investitori privati. Questi sistemi minano la sovranità degli Stati permettendo agli investitori privati di fare ricorso a un sistema giudiziario separato che gli rende possibile fare causa agli Stati quando le politiche che essi fanno minacciano i loro profitti presenti o futuri. I sistemi di risoluzione delle controversie sono legati ai termini dei trattati commerciali, i quali a loro volta sono progettati per tutelare gli investitori. Ciò significa che, in caso di dubbio, le decisioni vengono prese a favore degli investitori, indipendentemente da qualsiasi preoccupazione per le decisioni democratiche e l’interesse pubblico.
C’è stato un uso crescente nell’uso dei sistemi di risoluzione delle controversie. I registri della Conferenza ONU sul commercio e lo sviluppo mostrano che, nei 50 anni precedenti al 2014 c’è stato un totale di 608 casi, con 58 nuovi casi solo nel 2012, e 42 nel 2014. Viene concluso un nuovo accordo sugli investimenti ogni altra settimana.
L’Argentina è stata querelata più di 40 volte per le azioni intraprese durante la crisi economica dei primi anni 2000. Di fronte a una disoccupazione di massa e con il 70 percento dei bambini che vivevano in povertà, l’Argentina aveva infatti fissato il prezzo di acqua, gas ed elettricità, e successivamente aveva nazionalizzato i servizi per scongiurare il rischio di aumenti dei prezzi. In una sentenza dello scorso mese, all’Argentina è stato intimato di pagare 405 milioni di euro a Suez. Anche se l’Argentina ha sostenuto di avere agito per assicurare il diritto umano di accesso all’acqua per la propria popolazione, il tribunale ha ritenuto che i diritti umani non possano avere la precedenza sui diritti degli investitori privati.
La premessa fondamentale dei meccanismi di risoluzione delle controversie implica che i paesi del sud dovranno subire il doppio impatto della privatizzazione e dei trattati sugli investimenti.
Lo scorso mese Alfred de Zayas, relatore speciale dell’ONU per la promozione di un ordine internazionale equo e democratico, ha avvisato che gli accordi segreti sugli investimenti minacciano i diritti umani e violano la legge internazionale. In marzo, più di 100 professori di legge statunitensi hanno firmato una lettera che mette in luce la minaccia che i sistemi indipendenti di risoluzione delle controversie pongono allo Stato di diritto e alla sovranità nazionale.
Se alla comunità internazionale interessa davverso “non lasciare indietro nessuno”, allora negli obiettivi di sviluppo sostenibile ci si deve chiedere, in primo luogo, perché così tante persone sono state finora lasciate indietro.
Con la crescita dei trattati sugli investimenti che danno priorità ai “diritti delle imprese”, e in assenza di meccanismi internazionali giuridicamente vincolanti che costringano queste imprese a rispondere delle violazioni dei diritti umani, una maggiore partecipazione del settore privato nei progetti che riguardano i servizi idrici e igienico-sanitari all’interno degli obiettivi di sviluppo sostenibile non farà altro che esacerbare la crisi idrica e sanitaria nel mondo.