mercoledì 10 giugno 2020

LA TRAGEDIA ALL’ITALIANA TRA COGNATI E “BIDONI” - Antonio Padellaro

I magliari(Francesco Rosi,1959) – LettereDiTransito

Nella tragedia all’italiana vista su Report l’intervista al citofono con il cognato di Attilio Fontana potrebbe essere il sequel Covid di “Un eroe dei nostri tempi”. E se anche (purtroppo) non c’è più Alberto Sordi, ritorna pur sempre l’eterna maschera del cognato, che da Pillitteri (Bettino Craxi) a Tulliani (Gianfranco Fini) è il parente fatale, figura incuneata tra famiglia e politica con effetti non sempre positivi per entrambe. Rispetto ai Monicelli e ai Dino Risi in più abbiamo il citofono, apparecchio oltremodo a rischio per chi chiama (Salvini al Pilastro: “Lei spaccia?”), e se lo sventurato risponde. Infatti, uno si chiede cos’è che il cognato di Fontana (che sembra interloquire dalla cucina con uno strofinaccio sulla bocca) vuole nasconderci? I rubinetti d’oro? La vasca dei coccodrilli per giornalisti ficcanaso? O il quintale di camici che gli sono rimasti sul groppone? Nel cinema vero di Report spiccano gli “amici miei” di Matteo Salvini con l’assessore trentino che promuove le settimane bianche a epidemia incombente (infatti è pure albergatore). E le conoscenze della non diversamente leghista Donatella Tesei, presidente di quella Regione Umbria che paga 150 mila euro in più del prezzo di mercato una partita di test sierologici procurati da un imprenditore, immortalato accanto a essa in una cena elettorale (del tutto casualmente s’intende). E se fosse una pellicola neorealista che titolo daremmo all’accordo tra il Policlinico San Matteo di Pavia e la Diasorin, annullato dal Tar: i test acquistati dalla Regione Lombardia per gli screening di massa (mezzo milione senza gara a 4 euro l’uno)? Il Bidone? Presto, con i 170 miliardi e rotti che stanno per planare dall’Europa sull’Italia avremo, vedrete, una stagione cinematografica pimpante. Un paio di remake: “ I Magliari”, “Finché c’è virus c’è speranza”. E l’“Audace colpo dei soliti noti”. Che in sintonia con lo spirito del tempo si chiamerà: “Ce la faremo”.

Le 2 sorprese Lagarde e Georgieva (Fmi) Invitati Piano e Fuksas- Salvatore Cannavò

Le 2 sorprese Lagarde e Georgieva (Fmi) Invitati Piano e Fuksas

Anche la Nobel Esther Duflo, grande esperta di povertà.
A differenza del cacao, Vittorio Colao non è meravigliao. Il suo piano, fitto di analisi e proposte dettagliate, non scalda i cuori. Nemmeno di quelli che invece dovrebbero trovarci sostegno e rappresentanza, basti guardare allo spazio risicato che gli ha riservato Il Sole 24 Ore.
Il punto è che al suo piano manca l’idea-forza, quello spunto che possa scaldare gli animi e indicare una strada. Ora Conte, con il programma dei “suoi” Stati generali, compie uno scarto rispetto alla task-force di Colao pur senza giungere a una sconfessione. Il manager sarà presente agli Stati generali, ma ci saranno talmente tanti e variegati attori economici, sociali, intellettuali da modificare ampiamente il campo di gioco.
La mossa a sorpresa è la presenza di Christine Lagarde accanto a Ursula von der Leyen, oltre alla direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva. Il governo Conte era nato nel segno di “Ursula” con il premier che si spese in prima persona per favorire il voto del M5S alla nuova presidente della Commissione europea. Ma, finora, l’aiuto più diretto e concreto all’Italia è giunto dalla Bce che, dopo l’iniziale gaffe di Lagarde – “Non siamo qui a chiudere lo spread” – ha iniettato miliardi di euro sui mercati obbligazionari per rastrellare titoli del debito pubblico. E dopo la decisione di aumentare il piano anti-pandemia, Pepp, di 600 miliardi oltre i primi 750, lo spread tra i Btp italiani e il Bund decennale tedesco si è effettivamente ridotto.
Lagarde è l’emblema della politica europea che serve a qualche cosa. Il suo ruolo è invocato anche dai sovranisti che spingono per la monetizzazione del debito. Conte riesce nell’impresa di farsi accompagnare così da due figure chiave dell’attuale snodo europeo e la loro presenza agli impegnativi Stati generali serve a sostenere le ragioni italiane. La presenza viene condita dall’invito rivolto anche alla Georgieva e al segretario dell’Ocse, l’Organizzazione di cooperazione sociale ed economica composta da 36 membri, Angel Gurrìa. Sia la Georgieva sia Gurrìa sono esponenti di un pensiero liberale e conservatore, ma Conte ha voluto pure Olivier Blanchard, già capo economista del Fmi negli anni più duri della crisi post-2008, esponente di un pensiero mainstream che però ha dovuto recitare in seguito più di un mea culpa. Invito ancora più interessante quello rivolto al premio Nobel, Esther Duflo che ha ricevuto il riconoscimento grazie agli studi sulla povertà globale.
Conte vuole parlare con tutti, le opposizioni, gli interlocutori internazionali, tutte le organizzazioni sociali. Per capirsi: non solo Confindustria e i tre sindacati principali. E dunque Confcommercio, Confapi ma anche, in linea con l’invito alla Duflo, l’Alleanza contro la povertà, con esponenti del Terzo settore e molte altre realtà di società civile.
Accanto a Carlo Bonomi, presidente di Confindustria e finora duro avversario del governo, ci saranno molti esponenti delle più importanti industrie nazionali, a partire da Eni, Enel o Poste, singoli imprenditori. Come a dire, l’impresa è più ampia dell’attuale Confindustria. Anche sulle personalità si gioca su un fronte più largo: sono invitati Renzo Piano, ma anche gli architetti Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas.
Conte punta così a spazzare via le polemiche degli ultimi e ai presunti screzi con i Dem: agli Stati generali, del resto, ci saranno anche Paolo Gentiloni e David Sassoli, esponenti del Pd in Europa. In tal modo il partito di Zingaretti avrà meno occasioni di smarcarsi.
Se ricostruzione deve essere, però, servirà uno scatto, un’idea-forza, un orizzonte. In questi giorni è uscito il libro di Thomas Piketty in cui l’economista fa una proposta shock: tassare i patrimoni per erogare una “dote” di 120 mila euro a tutti i giovani di 25 anni. Magari Piketty è troppo socialista, la sua proposta è irrealizzabile e non è di questo che si parla. Ma la sua idea è di quelle che esattamente esprimono un’idea-forza. Anche al governo ne servirà una.

Il mitomane recidivo. - Marco Travaglio

filippo facci: non è chiaro se renzi miri meramente ai soldi o al ...
E niente, l’Innominabile ha capito di essere l’Innominabile (furbo lui) e ha ripreso con le cause civili al Fatto. Ormai abbiamo perso il conto, forse siamo alla quindicesima, forse alla sedicesima (in sei mesi). Se voleva comunicarci che, oltreché di voti, ha bisogno di soldi, l’abbiamo capito. Solo ci domandiamo che senso abbia intasare i tribunali, così impegnati a giudicare i suoi cari per reati gravi e non di opinione, con liti temerarie che calpestano il diritto di critica e di satira (oltreché di cronaca). Liti che, se il Rignanese non avesse l’immunità e gli altri lo giudicassero col metro che pretende di applicare a noi, passerebbe in tribunale il resto dei suoi giorni. Nell’ultimo atto di citazione che ci ha fatto recapitare, chiede non so più che cifra perché l’ho definito “mitomane molesto”. In realtà gli facevo il favore di fornirgli un alibi, perché l’unica alternativa alla suddetta patologia (psico-politica, s’intende: non conosco la sua vita privata) sarebbe la malafede. Il bello è che, mentre nega di essere un mitomane e trascina in tribunale chi afferma che lo sia, non perde occasione per dimostrare di esserlo.
Leggete qui: “Tendenza a mentire e ad accettare come realtà, in modo più o meno volontario e cosciente, i prodotti della propria fantasia. Nel bambino normale, entro certi limiti, il fenomeno è frequente come alterazione della realtà dovuta soprattutto al prevalere dell’immaginazione, o all’inesperienza, o al desiderio di evitare un castigo. Nell’adulto, e talora anche nel bambino, ha invece significato patologico, come espressione di una personalità anomala, generalmente isterica, che, mediante la falsificazione della realtà e con racconti fantastici, cerca di attirare su di sé l’attenzione di quanti lo circondano allo scopo di soddisfare l’esagerata vanità e il bisogno di stima (pseudologia fantastica). Mentre alcuni di questi soggetti sanno perfettamente di abbandonare il terreno della realtà, altri al contrario non hanno piena consapevolezza delle proprie menzogne”. Pare il suo ritratto sputato, invece è la definizione di “mitomania” sul dizionario Treccani. Sarà uno spasso, dunque, vedere l’Innominabile che tenta di dimostrare al giudice di non essere così. Io, per parte mia, mi limiterò ad allegare alla mia memoria difensiva le interviste che denotano non solo la mitomania, ma anche un’altra patologia (sempre intesa in senso psico-politico): la “proiezione”, cioè il “processo difensivo per il quale il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri, aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso”. Prendete la sua ultima comparsata (definirla intervista sarebbe eccessivo) chez Giletti. Si parlava del caso Bonafede-Di Matteo-Basentini.
E lui spiegava che il ministro scelse come direttore del Dap Francesco Basentini perché questi aveva indagato a Potenza su Tempa Rossa: “un’inchiesta fuffa”, fatta apposta per colpire il suo governo “con un enorme dispiegamento di forze, intercettazioni sulla vita privata delle persone”, di talché “la bravissima ministra Guidi fu costretta a dimettersi. Eppure l’indagine non portò a nulla”. Naturalmente l’indagine, tutt’altro che fuffa, portò a un processo tuttora in corso. E a indurre la bravissima ministra Guidi a dimettersi non furono né Basentini, né Bonafede. Fu l’Innominabile. Quando uscirono le telefonate fra la ministra dello Sviluppo e il suo compagno Gianluca Gemelli, lobbista petrolifero, che premeva per farle inserire un emendamento pro petrolieri e la trattava “come una sguattera del Guatemala”, l’allora premier le chiese di dimettersi. E se ne vantò al Tg2: “Non c’è niente di illecito, ma il ministro Guidi ha fatto un errore e ne va preso atto. In Italia adesso chi sbaglia va a casa”. Quale errore? Fu lui stesso a spiegarlo: “Quando l’emendamento è stato presentato, il ministro dello Sviluppo l’ha comunicato in anticipo al suo compagno, che si è scoperto poi essere interessato al business. Così facendo Federica Guidi ha compiuto un errore e giustamente ha deciso subito di dare le dimissioni, per evidenti ragioni di opportunità”. L’altra sera, invece, vaneggiava di “intercettazioni sulla vita privata” (come se gli emendamenti a una legge fossero equiparabili a un amplesso o a un bacetto) e attribuiva le dimissioni della Guidi a Basentini (che non disse una parola) e a Bonafede (che dall’opposizione chiese le dimissioni della ministra, ma fu anticipato dal premier più “giustizialista” di lui). E il cosiddetto intervistatore Giletti, che ha il pregio di non avere mai la più pallida idea di ciò di cui si parla, s’è ben guardato dallo smentirlo. Nessun’obiezione neppure quando l’Innominabile, in un attacco congiunto di mitomania e proiezione, ha accusato Bonafede di aver “chiesto le dimissioni non solo della Guidi, ma anche di Alfano e di altri miei ministri”. Ora, sapete chi fu il primo a invocare le dimissioni di Alfano? L’Innominabile, che 7 anni fa chiedeva la testa dei ministri di Letta prima di prenderne il posto. Il primo fu proprio Alfano, per il sequestro Shalabayeva: “Se Alfano sapeva, ha mentito e questo è un piccolo problema. Se non sapeva è anche peggio… Se si è sbagliato, qualcuno si assuma la responsabilità” (18.7.2013). Poi, appena andò al governo, lasciò Alfano al Viminale. E ora, grazie alla smemoratezza di chi dovrebbe contraddirlo, confonde Bonafede con se stesso. Mitomania o malafede? Scelga e ci faccia sapere.

Migranti. Naufragio al largo della Tunisia: almeno 20 morti.

Migranti in una foto d'archivio
Foto d'archivio.

Ma sul barcone sarebbero stati in 53: non è stato trovato nessun sopravvissuto.

Sono almeno 20 le vittime del naufragio di imbarcazione di migranti africani affondata al largo della Tunisia. Lo riferiscono fonti ufficiali tunisine.
La Guardia costiera di Tunisi ha recuperato 20 corpi di migranti, ma non è chiaro quante siano effettivamente le vittime. Secondo una fonte tunisina l'imbarcazione affondata avrebbe portato una cinquantina di persone. I corpi recuperati sono tutti di africani, senz'altro migranti. Sono affogati al largo della costa tunisina di Sfax. Sempre secondo fonti citate dai media tunisini, lo scorso fine settimana 53 persone avrebbero preso il largo nel tentativo di raggiungere l'Italia.
Altre tre imbarcazioni in difficoltà, cariche di migranti, sono segnalate al largo della Libia. Secondo quanto afferma Sergio Scandura di Radio Radicale, sono state localizzate a 64 miglia a nord di Zuara, in Libia. Scandura, che ha tracciato l'orbita di un velivolo Frontex, cita fonti di Ong.
Nessuno organizza manifestazioni in favore di chi scappa dai soprusi, dalle guerre, dallo strapotere di chi si appropria delle loro terre, di chi soffre e muore con la speranza di un futuro migliore.
L'uomo è un essere strano, incomprensibile sotto certi aspetti. C.

I legali di Palamara “assolvono” Lotti: “Disse solo: ‘Si arriva a Marcello Viola". - Antonio Massari

I legali di Palamara “assolvono” Lotti: “Disse solo: ‘Si arriva a Marcello Viola’”

È stata la frase cult dell’inchiesta su Luca Palamara. E da ieri rischia una rivisitazione non da poco. Parliamo dell’ormai celebre “Si vira su Viola”. Frase che secondo il Gico della Guardia di Finanza disse il parlamentare (autosospeso) del Pd Luca Lotti, il 9 maggio 2019, mentre in compagnia di Palamara, del deputato Pd Cosimo Ferri e altri consiglieri del Csm, discuteva la strategia per portare Marcello Viola, all’epoca procuratore generale di Firenze, alla guida della procura capitolina, lasciata vacante dal pensionamento di Giuseppe Pignatone.
“Si vira su Viola” c’era scritto nella trascrizione del Gico della Guardia di Finanza e venne riportata: non vi fu giornale che in quei giorni non titolò sull’ingerenza di Lotti, e quindi del Pd, nella scelta del futuro procuratore di Roma. Ora, che Palamara non dovesse discutere di nomine con Lotti e Ferri resta fuori discussione. E che Lotti non dovesse immischiarsi degli uffici giudiziari rimane altrettanto scontato. Anche perché si trattava degli stessi uffici giudiziari che avevano indagato e chiesto il suo rinvio a giudizio per favoreggiamento e rivelazione del segreto nell’inchiesta su Consip. Ma adesso il punto un altro: forse non fu lui a indicare che bisognava “virare” su Viola.
Un conto è svolgere il ruolo di spettatore – che Lotti non avrebbe dovuto comunque incarnare – e un altro quello di regista dell’operazione. La difesa di Luca Palamara in questi giorni sta ascoltando i dialoghi captati dal trojan che dal 3 al 30 maggio 2019 fu inoculato nel suo telefono. E ieri ha ascoltato quello del 9 maggio 2019 nell’hotel Champagne di Roma.
Gli avvocati Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti dopo l’ascolto ieri hanno dichiarato all’Adnkronos: “Con riferimento alla nomina del Procuratore di Roma, la frase effettivamente pronunciata da Lotti, dopo aver ascoltato il racconto degli altri presenti a quell’incontro sarebbe stata: ‘Vedo… che si arriva a Viola’”.
Quando Lotti li raggiunge, Ferri sta dicendo a Palamara che il consigliere laico di Forza Italia Alessio Lanzi potrebbe aver deciso di votare per il loro candidato. Palamara è scettico: “Ma Lanzi non lo vedo manco se… Lanzi vota Viola”. E così, giunto proprio mentre i presenti conteggiano i probabili voti per chiudere l’operazione, quando scopre che anche Lanzi è pronto a sostenere il loro candidato, Lotti avrebbe concluso che le reali possibilità per gli altri due concorrenti – il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e il collega di Palermo Francesco Lo Voi – erano ormai sfumate. A quel punto avrebbe commentato: “Vedo che si arriva a Viola”.
Che gli avvocati di Palamara si comportino anche da difensori di Lotti è alquanto strano. L'unica spiegazione al loro comportamento potrebbe essere che debbono salvaguardare chi si è esposto in prima persona per coprire l'identità di chi aveva architettato il tutto. C.