lunedì 23 febbraio 2015

Vera smorfia napoletana. - Francesco Materdomini




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Il maltolo fa "suicidare" il cancro.


Il maltolo può avere una funzione antitumorale aiutando a costruire classi di molecole che spingono al "suicidio" le cellule malate. A individuare l'attività anticancro di questa sostanza naturale contenuta nel malto, nella cicoria, nel cocco e nel caffè, due team di ricerca dell'Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo". La scoperta è stata pubblicata sul British Journal of Cancer e sul Journal of Organic Chemistry.
Una sostanza innocua - Mirco Fanelli e Vieri Fusi, a capo dei gruppi di ricerca che hanno collaborato allo studio, hanno spiegato che il maltolo è una molecola innocua, utilizzata a volte come additivo alimentare per il suo aroma e le sue proprietà antiossidanti, ma se opportunamente modificata può dare origine a nuove molecole con interessanti proprietà biologiche.

Test di laboratorio - Due molecole rappresentative di questa classe di composti sono state sintetizzate e caratterizzate nella loro capacità di indurre alterazioni della cromatina e, quindi, di condurre le cellule a rispondere in termini biologici.

Questa classe di composti ha proprietà chimico-fisiche che le rendono capaci sia di raggiungere l'interno della cellula che di esplicare le loro funzioni nel nucleo, dove risiede il nostro genoma (e dunque la cromatina). Fanelli e Fusi hanno dimostrato che alcuni modelli neoplastici (colture cellulari in vitro) sono sensibili ai trattamenti con le due molecole (denominate malten e maltonis). 

Le cellule, in risposta ai trattamenti, alterano dapprima la loro capacità di replicare e, successivamente, inducono un importante processo biologico che le conduce a un vero e proprio suicidio, una morte cellulare programmata. Ora la ricerca proseguirà su modelli tumorali in vivo.

Sla, identificato nuovo gene associato alla malattie.

Risultati immagini per sla

Sembra che la sua mutazione mandi in tilt la proteina “spazzina” che tiene puliti i neuroni del movimento.

Nella rete dei cacciatori di geni associati alla sclerosi laterale amiotrofica finisce una nuova preda: si chiama TBK1 e si pensa che la sua proteina sia coinvolta nei meccanismi “spazzini” che hanno il compito, quando funzionano, di ripulire i neuroni del movimento da eventuali danni.   
La scoperta è frutto di uno studio multicentrico internazionale pubblicato su Science, al quale hanno partecipato anche due neurologi e ricercatori italiani: Vincenzo Silani e Nicola Ticozzi dell’Irccs Istituto auxologico italiano-Centro “Dino Ferrari” dell’università degli Studi di Milano, che hanno coordinato il Consorzio Slagen formato da 6 centri di ricerca nazionali impegnati nella guerra alla Sla.   
«La Sla, di cui negli ultimi anni si è tanto discusso per le sue relazioni con il gioco del calcio - ricorda Silani - e più recentemente per l’Ice Bucket Challenge» e i suoi gavettoni ghiacciati pro-ricerca, «è una malattia neurodegenerativa che colpisce i motoneuroni (le cellule del sistema nervoso che comandano i muscoli), determinando una paralisi progressiva di tutta la muscolatura. La malattia è letale in 3-5 anni e, a tutt’oggi, non esiste terapia efficace. L’attuale mancanza di farmaci in grado di curare la Sla è in gran parte una diretta conseguenza delle scarse conoscenze circa le cause e i meccanismi che determinano la malattia. Negli ultimi anni gli studi sulla genetica della Sla hanno iniziato a far luce su questi meccanismi, consentendo la creazione in laboratorio di nuovi modelli di malattia, fondamentali per lo studio di nuove molecole e farmaci».   
Nel nuovo studio i ricercatori hanno confrontato il genoma di 2.874 pazienti Sla con 6.405 persone sane e hanno identificato un eccesso di mutazioni nel gene TBK1, codificante per la proteina TANK-binding kinase 1.   
«Sebbene l’esatto ruolo biologico della proteina non sia pienamente compreso - precisa Silani - si ritiene che TBK1 sia coinvolta, assieme ad altri geni associati alla Sla, nei processi di autofagia, cioè quei meccanismi con cui i motoneuroni sono in grado di eliminare i componenti cellulari danneggiati. Si ritiene che l’alterazione di questi meccanismi determini un progressivo accumulo di proteine anomale all’interno delle cellule, portandole a morte. La scoperta delle mutazioni in TBK1 suggerisce quindi che alterazioni nei processi di autofagia e degradazione proteica possano essere determinanti nel causare la Sla. Sarà dunque di estremo interesse studiare questo nuovo meccanismo patogenetico nell’obiettivo di sviluppare terapie neuroprotettive efficaci».   
Nonostante i progressi degli ultimi anni, avvertono gli esperti, rimane ancora molto da fare per identificare completamente i fattori di rischio genetici associati alla Sla. Per questo i ricercatori del consorzio Slagen, diretto Silani, sono impegnati da anni in progetti di ricerca con l’obiettivo di sequenziare il genoma di tutti i pazienti italiani affetti da Sla, così da individuare nuovi geni e nuovi meccanismi patogenetici indispensabili per capire le cause della malattia. Per il momento TBK1 va ad aggiungersi alla lunga lista di geni scoperti anche grazie al contributo del Consorzio italiano Slagen, nato nel 2010.