domenica 12 agosto 2012

Idea mattarellum per decreto. - Michele Ainis


C'è un'emergenza: i partiti non trovano un'accordo sulla legge elettorale. Che, però, è indispensabile. E allora non resta che la decretazione. Che può essere usata per motivi di urgenza. Riportando in vigore le norme precedenti.

Questa è una proposta disperata, ma serve per reagire a una situazione disperante. Quale? Lo stallo sulla riforma della legge elettorale, la più odiata dal popolo italiano. Negli ultimi tempi venuta in odio anche ai partiti, almeno a parole. Ma i mesi passano, le elezioni s’avvicinano e loro non cavano mai un ragno dal buco. Al più cambiano gli sherpa (dal duo Violante-Quagliariello al trio Migliavacca-Verdini-Adornato). Si spellano le mani a ogni monito di Napolitano (in un anno ne abbiamo contati otto, con discorsi, lettere ai presidenti delle Camere, note ufficiali). Rinnovano promesse e giuramenti (l’8 giugno Alfano e Bersani s’impegnarono a vararla in tre settimane; il 9 luglio Schifani annunziò un testo entro dieci giorni). Mettono in circolo progetti di bandiera (sono 34 quelli pendenti dinanzi alla commissione Affari costituzionali del Senato). O magari allungano un tramezzino sottobanco all’onorevole Giachetti, dal 4 luglio in sciopero della fame per la causa.

Se sull’accordo prevale regolarmente il disaccordo, non dipende certo da una divergenza sui massimi sistemi. Dipende dal tornaconto di partito, e qui giocoforza l’utile dell’uno rappresenta per l’altro il danno da evitare. Così, il Pd vorrebbe un robusto premio di maggioranza per la coalizione vittoriosa (la sua, naturalmente). Il Pdl preferirebbe un minipremio, da devolvere al primo partito (per scoraggiare le alleanze fra la sinistra e il centro, e per impedirne un chiaro successo elettorale). Per l’Udc niente premi, in modo da diventare l’ago della bilancia in Parlamento. Stesso bisticcio sulle preferenze, sui collegi, sulla soglia di sbarramento. 
Sicché rischiamo di votare per la terza volta col Porcellum, legge coriacea come una testuggine: è già uscita indenne da due referendum (quello Guzzetta nel 2009, che toccò il picco negativo dei votanti; quello Morrone nel 2011, bocciato poi dalla Consulta).
Diciamolo: sarebbe una tragedia democratica. Per scongiurarla servono allora soluzioni d’emergenza, anche a costo d’evocare un’eresia costituzionale. Se i partiti non raggiungono l’intesa, che sia il governo Monti a varare il nuovo sistema elettorale. Con un decreto legge, perché no? Dopotutto la Costituzione (art. 77) ne contempla l’uso per i casi d’emergenza, e questa è la prima emergenza nazionale. Altrimenti il distacco fra popolo e Palazzo diventerà un divorzio, una frattura irreparabile. Certo, non mancano obiezioni. Perché le regole del gioco vanno scritte in Parlamento, possibilmente con l’accordo di tutti i giocatori. E perché i decreti non dovrebbero aggredire la materia elettorale (art. 15 della legge n. 400 del 1988). Lo hanno fatto però infinite volte, modificando per esempio la disciplina delle campagne elettorali o le modalità di selezione delle candidature. 
E d’altronde il governo in carica non lesina di certo gli interventi straordinari, con la media d’un decreto legge a settimana e con 32 voti di fiducia in otto mesi. In realtà, come ha osservato Giuseppe Marazzita (“L’emergenza costituzionale”, 2003), il giudizio su quali materie rivestano natura emergenziale è un giudizio tutto politico, che non si lascia ingabbiare dal diritto.
Dunque il problema non è tanto il «come» quanto il «cosa». Non l’uso del decreto, bensì i suoi contenuti. Può un governo – per giunta tecnico e apolitico – addossarsi la massima scelta politica, quella che incide sul destino dei partiti? Può decidere fra maggioritario e proporzionale, nonché fra tutte le loro innumerevoli varianti? Evidentemente no; può solo riportare in auge un modello già confezionato. Quindi il Mattarellum, che ha scandito varie elezioni nel passato, che ha raccolto un milione e 200 mila firme per un referendum mai votato, che tutt’oggi non dispiace a qualche esponente di partito (Parisi, Vendola, Di Pietro). Poi, durante la conversione del decreto, le Camere potranno pur sempre plasmare lo stampo originario, o magari rovesciarlo. Ma è meglio costringerle al lavoro con una pistola carica puntata sulla tempia.

A mali estremi, estremi rimedi.

Berlusconi e Banca Rasini.



Glieli ha dati la Banca Rasini.

La Banca Rasini era una piccola banca milanese, nata negli anni cinquanta ed inglobata nella Banca Popolare di Lodi nel 1992. Il motivo principale della sua fama è che tra i suoi clienti principali si annoveravano i criminali Pippo CalòTotò RiinaBernardo Provenzano (al tempo, uomini guida della Mafia) e l'imprenditore e uomo politico Silvio Berlusconi, il cui padre Luigi Berlusconi vi lavorava come funzionario. Le dichiarazioni di Michele Sindona sulla Banca Rasini la fanno citare più volte da Nick Tosches, un giornalista del The New York Times, nel suo libro I misteri di Sindona, e l'hanno resa nota tra gli studiosi internazionali che si occupano della storia della Mafia italiana.

La "Banca Rasini Sas di Rasini, Ressi & C." viene fondata all'inizio degli anni cinquanta dai milanesi Carlo Rasini, Gian Angelo Rasini, Enrico Ressi, Giovanni Locatelli, Angela Maria Rivolta e Giuseppe Azzaretto. Il capitale iniziale è di 100 milioni di lire. Sin dalle sue origini la banca è un punto di incontro di capitali lombardi (principalmente quelli della nobile famiglia milanese dei Rasini, proprietaria del feudo di Buccinasco) e palermitani (quelli provenienti da Giuseppe Azzaretto, uomo di fiducia di Giulio Andreotti in Sicilia).[1]
Nel 1970 Dario Azzaretto, figlio di Giuseppe, diviene socio della banca. Sempre nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi (padre di Silvio Berlusconi) ratifica un'operazione destinata ad avere un peso nella storia della Rasini: la banca acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società di Nassau legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d'amministrazione figurano nomi destinati a divenire famosi, come Roberto Calvi,Licio GelliMichele Sindona e monsignor Paul Marcinkus.
Nel 1973 la Banca Rasini diviene una S.p.a., ed il controllo passa dai Rasini agli Azzaretto. Il Consiglio di Amministrazione della Banca Rasini S.p.a. è costituito da Dario e Giuseppe Azzaretto, Mario Ungaro (avvocato romano e noto amico di Michele Sindona e Giulio Andreotti), Rosolino Baldani e Carlo Rasini.[1]
Ma nel 1974, nonostante l'ottima situazione finanziaria della Banca Rasini (che nell'ultimo anno aveva guadagnato oltre un quarto del suo capitale), Carlo Rasini lascia la banca fondata dalla sua famiglia, dimettendosi anche dal ruolo di consigliere. Secondo gli analisti, le ragioni delle dimissioni di Carlo Rasini sono da cercarsi nella sua mancanza di fiducia verso il resto del Consiglio di Amministrazione, e degli Azzaretto in particolare.
Sempre nel 1974Antonio Vecchione diviene Direttore Generale, ed in soli dieci anni il valore della banca esplode, passando dal miliardo di lire nel 1974 al valore stimato di circa 40 miliardi di lire nel 1984.
Il 15 febbraio 1983 la Banca Rasini sale agli onori della cronaca, per via dell'"Operazione San Valentino". La polizia milanese effettua una retata contro gli esponenti di Cosa Nostra a Milano, e tra gli arrestati figurano numerosi clienti della Banca Rasini, tra cui Luigi Monti, Antonio Virgilio e Robertino Enea. Si scopre che tra i correntisti miliardari della Rasini vi sono Totò Riina e Bernardo Provenzano. Anche il direttore Vecchione e parte dei vertici della banca vengono processati e condannati, in quanto emerge il ruolo della Banca Rasini come strumento per il riciclaggio dei soldi della criminalità organizzata.
Dopo il 1983, Giuseppe Azzaretto cede la banca a Nino Rovelli. Nino Rovelli è un imprenditore (noto soprattutto per la vicenda Imi-Sir) e non ha esperienza nel settore bancario. Nelle inchieste tuttora in corso sulla Banca Rasini, Nino Rovelli è spesso considerato un uomo che ha coperto la vera dirigenza della banca fino al 1992. Tuttavia, non esistono evidenze al riguardo, né ipotesi sui nomi dei veri amministratori della Banca.
Nel 1992 la Banca Rasini viene inglobata nella Banca Popolare di Lodi, ma è solo nel 1998 che la Procura di Palermo mette sotto sequestro tutti gli archivi della banca. I giudici di Palermo, anche a seguito delle rivelazioni di Michele Sindona (intervista del 1985 ad un giornalista americano, Nick Tosches) e di altri "pentiti", indicano la stessa banca Rasini come coinvolta nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa. Tra i correntisti della banca figurava ancheVittorio Mangano, il mafioso che lavorò nella villa di Silvio Berlusconi dal 1973 al 1975.

Legami con la mafia [modifica]

La Banca Rasini deve la sua fama tra gli studiosi della storia d'Italia, soprattutto alle dichiarazioni di Michele Sindona del 1984. Quando il giornalista del New York TimesNick Tosches, chiese a Sindona (poco prima della misteriosa morte di quest'ultimo): «Quali sono le banche usate dalla mafia?». Sindona rispose: «In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola banca in Piazza dei Mercanti». In effetti, le indagini successive alla retata dell'Operazione San Valentino dimostrarono ampiamente il ruolo della Banca Rasini nel riciclaggio dei soldi della mafia, ed i contatti dell'istituto coi più alti vertici mafiosi. Il Commissario di Polizia Calogero Germanà ha ipotizzato che l'istituto, al pari della Banca Sicula di Trapani, fosse uno dei centri per il riciclaggio del denaro sporco di Cosa Nostra. [2]

Legami con la famiglia Berlusconi [modifica]

Tra i personaggi famosi con cui la Banca Rasini ebbe dei legami va citato l'imprenditore e uomo politico Silvio Berlusconi. Il padre di Silvio Berlusconi, Luigi Berlusconi fu prima un impiegato alla Rasini, quindi procuratore con diritto di firma, ed infine assunse un ruolo direttivo all'interno della stessa[3]. La Banca Rasini, e Carlo Rasini in particolare, furono i primi finanziatori di Silvio Berlusconi all'inizio della sua carriera imprenditoriale. Silvio e suo fratello Paolo Berlusconi avevano un conto corrente alla Rasini, così come numerose società svizzere che possedevano parte della Edilnord, la prima compagnia edile con cui Silvio Berlusconi iniziò a costruire la sua fortuna.
La Banca Rasini risulta anche nella lista di banche ed istituti di credito che gestirono il passaggio dei finanziamenti di 113 miliardi di lire (equivalenti ad oltre 300 milioni di euro nel 2006) che ricevette la Fininvest, il gruppo finanziario e televisivo di Berlusconi, tra il 1978 ed il 1983.
Il giornale inglese The Economist cita ripetutamente la Banca Rasini nel suo noto reportage su Silvio Berlusconi[4], sottolineando che Berlusconi ha effettuato transazioni illecite per mezzo della banca. È stato infatti accertato che Silvio Berlusconi ha registrato presso la banca ventitré holding come negozi di parrucchiere ed estetista. Anche per fare chiarezza su questi fatti nel 1998 l'archivio della banca è stato messo sotto sequestro.

A.Scanzi : “5 Stelle? Scalfari e Serra li criticano ma non spostano voti”.




Ospite di “Omnibus Estate”, su La7, il giornalista e scrittore Andrea Scanzi fa una disamina minuziosa dei 5 Stelle e della reiterata stroncatura del movimento da parte di certa stampa. “A me fa sorridere anche nei giornali” – dichiara Scanzi – “alcune firme molto autorevoli, come Eugenio Scalfari o Michele Serra o Beppe Severgnini, che spesso, in maniera del tutto legittima, disintegrano e criticano molto duramente Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle. Sono magari convinti di avere dietro un esercito di persone da spostare attraverso la loro forza di ‘opinion maker’”. E sottolinea: “In realtà loro spostano sì molte persone, ma che la pensano già in quel modo, ma il ventenne o il trentenne che vota il Movimento 5 Stelle si informa da tutt’altra parte“. Il giornalista poi riconosce un merito notevole di Grillo: “E’ riuscito ad essere una sorta di casello autostradale per i giovani, affinchè potessero entrare nella strada della politica. E questa categoria di persone che si informano attraverso internet è estremamente difficile da catalogare”. Scanzi analizza anche l’operato del sindaco Pizzarotti: “Forse la sua vittoria è stata un boomerang tanto più in una città martoriata come Parma. Una delle ambiguità da sciogliere, però, riguarda Grillo: fa da ‘padre nobile’ o da ‘padre padrone’?”
11 agosto 2012
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