lunedì 18 aprile 2011

Berlusconi vs magistratura: 17 anni di scontri.





“Indagini ad orologeria”, questo il comune denominatore di tutte le accuse mosse da Silvio Berlusconi nei confronti della magistratura. 17 anni di carriera politica, 17 anni di scontri con l'intera categoria dei magistrati. Tante frasi che hanno scatenato accese polemiche. L'ultima è stata pronunciata in occasione della convention a sostegno di Letizia Moratti per le amministrative di Milano, dove il presidente del Consiglio, ha dichiarato: "Fra il presidente della Camera e la magistratura c'è stato un patto sceleris". A seguire, un elenco con tutti i numeri che lo legano alla magistratura: 103 indagini, 587 visite della polizia giudiziaria e della guardia di finanza, più di mille magistrati che si sono occupati di lui, per un totale di 2585 udienze.

Un rapporto sempre conflittuale e pieno di scontri, quello tra Berlusconi e la magistratura, dal 1994 ad oggi. Da "I giudici sono eversivi" a "La magistratura vuole fare con me quello che ha fatto a Craxi", una breve cronistoria del difficile rapporto tra Berlusconi e la magistratura.



Pdl chiede pena più leggera per concorso esterno in mafia.

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È tempo di colmare un vuoto legislativo e introdurre nel codice penale il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, con una pena da 1 a 5 anni. A chiederlo è il senatore del Pdl Luigi Compagna, che ha presentato a Palazzo Madama un disegno di legge dal titolo appunto «Nuove norme in materia di 'concorso esterno'». Lo scopo, «è alleggerire la barbarie».

Con la tipizzazione del reato in uno specifico articolo del codice, non sarà più applicato a chi si macchia di 'concorso' l'articolo 416-bis sull'associazione mafiosa che prevede pene più alte. Si va dalla reclusione da 3 a 6 per anni per la semplice associazione, ai 4-9 anni per chi promuove o dirige l'associazione, fino ai 4-10 anni in caso di associazione armata. Le pene poi sono aumentate da un terzo alla metà se le attività economiche controllate dagli associati sono finanziate con il profitto dei delitti. Compagna chiede poi l'abrogazione dell'articolo 418 sull'assistenza agli associati, oggi punita con la reclusione fino a due anni, «rimasto sostanzialmente inapplicato».

Al suo posto prevede un nuovo articolo, con una pena da 3 mesi a 3 anni, che in più cancella la non punibilità dei congiunti. In attesa di leggere il testo, dura la prima reazione del Partito democratico e dell'Idv che fanno muro contro ogni ipotesi di alleggerimento della pena.

La giurisprudenza, ha spiegato Compagna nell'introduzione del ddl, pur in mancanza di indicazioni normativa «ha ritenuto di applicare anche al reato associativo di cui all'articolo 416-bis del codice penale l'istituto del concorso previsto dall'articolo 110». E nonostante «gli apprezzabili sforzi» della corte di Cassazione che «ha introdotto e legittimato l'ipotesi di concorso esterno», per il senatore restano «una serie di problemi irrisolti connessi alla mancata tipizzazione del reato». Compagna, ha tenuto a ricordarlo lui stesso rispondendo all'Agi, fu l'unico nel giugno del 1993 a votare in giunta per le Autorizzazioni a procedere del Senato contro l'autorizzazione chiesta nei confronti di Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia. Da allora, ha spiegato, ha sempre pensato che fosse necessario intervenire per tipizzare un reato non previsto nel codice Penale «per allegerire la barbarie» dal momento che «più che un garantista io sono un vero innocentista».

Per Compagna «l'idea che le condotte associative possano essere punite senza che vi sia stato nemmeno un inizio di esecuzione del programma criminoso e addirittura fuori di una effettiva partecipazione al sodalizio non può non determinare serie preoccupazioni». Evidentemente «in Italia negli ultimi quattro lustri la tradizionale passione per i delitti associativi si è rivelata travolgente». Da qui il testo, composto di due articoli, per il quale il senatore ha spiegato di essersi mosso «nello stesso spirito» di Giuliano Pisapia che aveva presentato due proposte di legge in materia.

Nel ddl, al primo punto, si chiede di introdurre dopo l'articolo 379 del codice penale il 379-bis e il 379-ter. Il 379-bis, sul favoreggiamento di associazioni di tipo mafioso, prevede che «chiunque fuori dai casi di partecipazione alle associazioni di cui all'articolo 416-bis agevola deliberatamente la sopravvivenza, il consolidamento o l'espanzione di un'associazione di tipo mafioso, anche straniera, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni». Il 379-ter, relativo all'assistenza agli associati, stabilisce che «chiunque, fuori dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano a un'associazione di tipo mafioso, anche straniera, al fine di trarne profitto è punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni. La pena è aumentata se l'assistenza è prestata continuativamente. L'articolo 2 invece prevede l'abrogazione dell'articolo 418 del codice penale.

Critica l'opposizione. «In generale siamo contrari a qualsiasi ipotesi di riduzione di pena, sarebbe un segnale bruttissimo», ha commentato Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd. Sulla stessa linea Massimo Donadi, capogruppo dell'Italia dei valori alla Camera. «Se per un verso la codificazione è una cosa buona, non altrettanto è la riduzione della pena che porta con sè anche termini più brevi di prescrizione e un declassamento del reato», ha detto, «ma vogliamo
comprendere la ratio della proposta».




Ultimatum di Napolitano: «Giustizia, toccato limite».

Napolitano strilla Silvio 304


In una lettera inviata al vice presidente del CSM Michele Vietti e resa nota dal Quirinale, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha annunciato la decisione di dedicare la celebrazione della Giornata delle vittime del terrorismo e delle stragi, prevista il 9 maggio prossimo al Quirinale, «in particolare ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. Tra loro -sottolinea Napolitano -, si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democratica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche». «La scelta che oggi annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria - afferma Napolitano - costituisce anche una risposta all'ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta «Associazione dalla parte della democrazia», per dichiarata iniziativa di un candidato alle imminenti elezioni comunali nel capoluogo lombardo. Quel manifesto rappresenta, infatti, innanzitutto una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle BR, magistrati e non. Essa indica, inoltre, come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull'amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti».

Genchi: colpevole per non aver commesso il fatto - Marco Travaglio.



Gioacchino Genchi assolto nel processo per accesso abusivo alla Sitel - Compra Berluscoma 2010 su http://grillorama.beppegrillo.it/berluscoma



Napolitano pronto a intervenire contro le leggi ad personam. - di Sara Nicoli



Il premier continua la sua offensiva contro Fini e contro i giudici, ma il Colle potrebbe presto intervenire con qualcosa di più di un monito. Pdl preoccupato per la possibilità che il Quirinale agisca direttamente nel dibattito su "processo breve" e "processo lunghissimo".

La misura è stata da tempo superata, ma questa continua escalation di attacchi di Berlusconialla magistratura in una campagna elettorale sempre più infuocata, hanno convinto il Capo dello Stato del fatto che è venuto il momento d’intervenire. E dire basta. La doccia scozzese delle continue intemerate berlusconiane, una volta contro i magistrati, un’altra contro Fini, un’altra ancora contro la scuola pubblica, rischiano di far degenerare un clima già fin troppo pesante. Napolitano teme il peggio. Di qui la decisione di intervenire. E anche in tempi brevi, forse addirittura questa settimana.

Sullo strumento che Napolitano userà per dare un messaggio più forte del solito al Paese, ma soprattutto alla sua classe politica, non è ancora stato deciso, ma quello che si sa è che i punti su cui ruoterà questo messaggio saranno l’esigenza di ripristinare un giusto “bilanciamento tra i poteri dello Stato” e che qualsiasi investitura politica popolare, per quanto plebiscitaria, ha pur sempre “dei limiti dettati dalle regole della democrazia” che non possono in alcun modo essere disattesi.

E’ noto che il Cavaliere si è sempre fatto beffe dei messaggi di Napolitano, limitandosi ad usare con il Quirinale – comunque di malavoglia – alcune attenzioni per evitare che le sue leggi ad personam finissero tutte respinte ancor prima di arrivare al momento della firma del Colle. Da un po’ di tempo a questa parte, tuttavia, anche le buone maniere sono state messe da parte. La legge sul processo breve è l’ultimo esempio di questo dialogo interrotto – e male – tra governo e Quirinale. Il Capo dello Stato non sa nulla, ufficialmente, della prescrizione breve, né delle sue terribili conseguenze su alcuni dei processi più pesanti dell’ultima parte della storia Repubblicana. Ufficiosamente, invece, sa perfettamente dove vuole andare a parare il Cavaliere e ha fatto chiaramente capire, a chi lo segue da vicino, che così com’è uscita dalla Camera la legge lui non la firmerà mai. Stessa questione riguarderà, a breve, la legge sulle intercettazioni, che il Cavaliere vuole tirare fuori al più presto dalla polvere della commissione Giustizia della Camera per farla approvare (e stavolta in via definitiva) entro la fine di maggio, ma forse anche prima. E che dire, poi, di quell’altra legge appena presentata al Senato e gergalmente chiamata “processo lunghissimo”, a firma del peone di palazzo Madama, Franco Mugnai, che nel Pdl puntano a mandare avanti rapidamente.

Insomma, un reticolo di nuove leggi per garantire l’impunità a Berlusconi che Napolitano non ha alcuna intenzione di avallare. Da un lato perché “un Parlamento totalmente bloccato sulle questioni giudiziarie del premier – sostengono fonti vicine al Capo dello Stato – non fanno che accrescere la sfiducia dei cittadini nella classe politica” e dall’altro perché si sta determinando – ed ogni giorno che passa diventa più profondo – un “allargamento del conflitto tra poteri dello Stato” a cui Napolitano è deciso a posse un freno. Questa settimana, dunque, mentre le truppe pidielline si muoveranno come formiche operose tra le commissioni si Camera e Senato per rendere più rapide possibili le discussioni sulle leggi che interessano al Caimano, il Capo dello Stato potrebbe far sentire la sua voce in modo più determinato (e determinante) del solito. Qualcuno ha ipotizzato che possa cogliere l’occasione della calendarizzazione, in commissione Giustizia del Senato, delprocesso breve per lanciare quello che non potrà più essere considerato solo un monito, ma un vero e proprio allarme per la democrazia.

D’altra parte, i toni del Cavaliere contro la magistratura, e in generale contro chi attenta alla sua impunità, sono destinati a salire nel corso delle prossime settimane. La campagna elettorale del Pdl, soprattutto a Milano e Napoli, ruoterà tutta intorno all’aggressione ai giudici, al presidente della Camera Fini, del quale continuerà a chiedere pubblicamente le dimissioni, e alla necessità di fare le riforme, prima fra tutte la Giustizia. E il clima che si sta creando, di contrapposizione pesante e di veleni, destano profondo allarme nel Capo dello Stato. Le indagini sull’ultimo episodio dei manifesti apparsi per le vie di Milano contro una magistratura paragonata alle Br sono seguite da vicino anche dal Colle, ovviamente preoccupato di una degenerazione poi difficilmente controllabile. Sapendo che Berlusconi continuerà a soffiare sul fuoco, convinto che lo scontro istituzionale più duro alla fine lo vedrà vincitore. Anche se i sondaggi dicono l’esatto contrario.



Frizioni in Procura a Bari Lascia il pm del caso D’Addario. - di Marco Lillo

Giuseppe Scelsi abbandona il ruolo di sostituto: troppi ritardi nelle indagini. E smentisce uno scambio di lettere 'dai toni forti' con il procuratore Laudati. Nei fascicoli, anche le intercettazioni tra le ragazze di Tarantini e Silvio Berlusconi

Esplode finalmente il “caso del caso D’Addario”. I ritardi dell’indagine sulle escort portate daGianpaolo Tarantini al premier nel 2008 sono emersi venerdì grazie all’addio del titolare delle indagini, Giuseppe Scelsi, in attrito negli ultimi mesi con il procuratore capo Antonio Laudati.

Davvero un brutto momento per il procuratore di Bari. Dopo essere stato messo nel mirino della stampa e del Consiglio superiore della magistratura per la partecipazione al convegno sulla giustizia finanziato dalla Regione presieduta dal suo indagato (poi archiviato) Nichi Vendola, venerdì pomeriggio un articolo dell’Ansa ha fatto emergere il conflitto che covava da mesi in Procura per l’inchiesta su Tarantini e le escort.

Alle 16 e 17, sotto il titolo “Indagini ferme, lascia il pm del caso D’Addario”, la solitamente compassata agenzia di stampa comunicava che: “Lascerà la procura di Bari il pm antimafia Giuseppe Scelsi … perchè ci sono attriti insanabili con il capo della procura, Antonio Laudati”. La nota Ansa chiariva senza mezzi termini la ragione dell’addio: “Uno scambio di lettere dai toni forti … sull’impostazione da dare alle indagini sul caso D’Addario che sono ferme da troppo tempo”. Un ritardo ingiustificabile, notava l’Ansa, visto che “le prime intercettazioni sono partite a fine 2008 e vi è la confessione di Tarantini, accusato di favoreggiamento della prostituzione, che ha riferito di aver fornito “ragazze” ed escort sia a Berlusconi …. sia all’allora vicepresidente Pd della Puglia,Sandro Frisullo”.
Da mesi ormai tutti gli osservatori notavano l’imbarazzante differenza di velocità della Procura di Bari rispetto ai pm di Milano. I primi erano fermi al palo da un anno e mezzo per fatti del 2008 mentre Ilda Boccassini e compagni erano giunti al processo per fatti del 2010. Lo smacco era ancora più cocente se si leggevano i nomi delle protagoniste di oggi nel faldone di Milano e di ieri in quello di Bari: Barbara Guerra, Ioana Visan e Marysthelle Polanco, stessi nomi, stesso utilizzatore finale. Cambiava solo il favoreggiatore (Tarantini contro il terzetto Mora-Fede-Minetti) e soprattutto cambiava l’atteggiamento e il ritmo delle due procure.

Tre ore e mezza dopo il lancio della notizia che aveva incrinato i delicati equilibri giudiziari baresi, l’Ansa lanciava in rete una tiepida smentita di Scelsi: “Non mi sono dimesso dalla magistratura ma, su mia richiesta… sono stato promosso presso la procura generale presso la corte d’appello di Bari. Quanto alle presunte lettere infuocate smentisco categoricamente che i miei rapporti con il procuratore Antonio Laudati siano stati improntati a toni diversi dalla fisiologica e civile dialettica richiesta dall’Ordinamento giudiziario”. Eppure, stranezza nella stranezza, l’Ansa un’ora dopo pubblicava un secondo articolo che confermava il contenuto del primo e aggiungeva un particolare: “Quel che sembra aver amareggiato Scelsi è stata la notizia pubblicata a fine gennaio in cui una fonte autorevole della procura ha spiegato ai cronisti che nell’indagine sul D’Addario-gate, a due anni circa dal suo avvio, si stava definendo la qualificazione giuridica dei fatti e che non si escludeva una modifica dell’ipotesi di reato. Tutto ciò senza che Scelsi, titolare del fascicolo assieme a Eugenia Pontassuglia e Ciro Angelillis, sapesse nulla sulla modifica dell’accusa di favoreggiamento della prostituzione contestata al reo confesso Gianpaolo Tarantini”.
In realtà, la vera partita che si gioca a Bari non riguarda la posizione penale di Tarantini ma il destino delle sue intercettazioni. Nel fascicolo ci sono decine di telefonate con il premier e le sue ragazze. Oggi sono segrete ma – dopo la chiusura dell’inchiesta – potrebbero finire sui giornali, imbarazzando certamente il premier ma anche chi ha mantenuto la sordina allo scandalo per due anni.

da Il Fatto Quotidiano del 16 aprile 2011



MUSSOLINI DISCORSO ROMA 1937.



Il Duce annuncia al Popolo Italiano l'uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni.



Silvio Berlusconi ama delinquere. - di Diego Novelli

Il Cavaliere Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana è un delinquente.
Non appaia esagerata questa affermazione, tantomeno diffamatoria o calunniosa: corrisponde semplicemente alla realtà.
Quando si giunge a definire la magistratura un'associazione a delinquere e si paragonano i giudici alle Brigate Rosse, viene automatica la comparazione di chi esprime questi giudizi con la peggiore feccia della delinquenza comune, della criminalità organizzata, oppure con gli eversori che praticarono nel nostro Paese il terrorismo, seminando, nel corso della lunga notte degli anni di piombo, stragi e omicidi.

Sia i criminali comuni come i terroristi, hanno sempre avuto tra i loro principali nemici i magistrati, cioè coloro che hanno il compito di individuarli e di perseguirli.
Un'ulteriore conferma, oltre alle esplicite e aberranti affermazioni del signor B., è venuta dagli immondi manifesti che nei giorni scorsi hanno tappezzato la città di Milano.
A caratteri cubitali, su sfondo rosso, è stato scritto: "Via le Br dalle Procure".
Nel volgere di ventiquattr'ore la polizia ha individuato gli autori di questa infame iniziativa, chiaramente a sostegno delle dichiarazioni pubbliche del presidente del Consiglio («brigatismo giudiziario» oppure «magistratura eversiva»).
La fantomatica "associazione dalla parte della democrazia", che ha firmato questi manifesti, altro non è che, questa si, un'associazione a delinquere presieduta da un noto esponente del partito di Berlusconi, addirittura candidato per le prossime elezioni comunali di Milano, nella lista che sostiene Letizia Moratti, sindaco uscente, figura di spicco della destra berlusconiana.

Il crescendo di insulti, di folli accuse che Berlusconi senza remore sta lanciando, mette in luce il terrore dei processi che evidentemente lo pervade, sino a farlo delirare.
Non ci possono essere altre spiegazioni.
Ma l'aspetto più inquietante non è rappresentato soltanto dall'esternazione di un soggetto chiaramente malato (fenomeno per altro denunciato a suo tempo dalla seconda moglie Veronica Lario), ma dalla mancanza totale del più timido segnale di preoccupazione da parte dei suoi seguaci.

C'è un limite a tutto, anche per coloro della sua corte che devono difendere la pagnotta.
La folle tesi dell'onorevole Maurizio Paniz (l'avvocato dall'aspetto ebete-spiritato) secondo cui la telefonata alla Questura di Milano, nella famigerata notte, sarebbe stata fatta dal Capo del Governo per evitare un incidente diplomatico, è stata condivisa da tutti i deputati del centrodestra, più i nuovi acquisti.
Di fronte al reiterato attacco del Cavaliere alla magistratura non si è levata una voce di dissenso da parte della maggioranza che lo sostiene.

Dobbiamo considerare che al pari del loro leader, sono tutti delinquenti, disposti a tutto?
Si pone con urgenza la necessità di mettere in atto tutte le iniziative democratiche per fermare questa deriva, questo "golpe strisciante".
Certamente, tanto per essere chiari, non contrapponendogli fantasiose iniziative come quella proposta da Alberto Asor Rosa e irresponsabilmente amplificata da "Il Manifesto".
In pari tempo difronte a quanto sta accadendo il Colle non può restare muto: il Capo dello Stato, primo garante della Costituzione, pur non avendo potestà diretta per bloccare la frana che è di fronte agli occhi di tutte le persone pensanti, deve lanciare un monito nei confronti di chi, per interessi meramente personali, ritiene di aver licenza di colpire uno dei pilastri del sistema democratico, come la magistratura.
Prima che la corda si spezzi.

http://www.nuovasocieta.it/editoriali/26042-silvio-berlusconi-ama-delinquere-.html



Non c'è più tempo. - di Alberto Asor Rosa



Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo? Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell'ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire? Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d'immondizia sottostante, che, invece d'essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare. Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand'è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi. Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell'autunno del 1922, avesse schierato l'Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione? C'è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg). Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l'Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l'area della corruzione, al centro come in periferia: l'anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all'interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano. E' stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado). La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori. Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l'alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l'esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell'alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un'altra tutta diversa. Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come? Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente. Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale. Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l'Italia del '24, la Germania del febbraio '33), non ci resti che dolercene.




Antonio PADELLARO – L’opposizione deve lasciare il Parlamento e il Cavaliere volerà via.



La proposta del direttore del "Fatto Quotidiano" non evoca il dramma dell'Aventino: era l'Italia pavida di Casa Savoia, oggi siamo nell'Italia dove il presidente Napolitano è garante della democrazia. Camera e Senato sono ridotti a enti inutili impegnati a fabbricare leggi ad personam mentre la crisi travolge milioni di disillusi.

di Antonio Padellaro

Ripeterlo è perfino inutile. In qualsiasi altra democrazia al mondo un premier indagato per prostituzione minorile non sarebbe restato un minuto di più al suo posto. Pensate a Cameron, a Sarkozy, a Zapatero. Come avrebbero potuto tirarla in lungo accusando di qualsiasi cosa magistratura e informazione senza rischiare una rivolta di piazza? Figuriamoci se rinviati a giudizio con una motivazione di un giudice terzo, il gip, che parla di “evidenza delle prove”.

Ma in Italia c’è Berlusconi e anche in queste ore di marasma e di vergogna, mentre tutti i notiziari del globo aprono con la notizia che è senza precedenti, a Palazzo Grazioli il partito del tanto peggio può ancora alzare la voce. Fregatene, resisti, vai avanti: così lo consiglia la corte dei venduti e dei parassiti che, pur di non essere ricacciati nel nulla da cui sono stati tirati fuori (il vero miracolo italiano), lo sospingono di nuovo sul ring disposti a farlo massacrare pur di salvarsi. Un uomo con un residuo di lucidità avrebbe già capito dal rumoroso silenzio di Bossi che perfino il più fedele alleato ne ha le scatole piene. E quella gelida frase del cardinal Bagnasco: “Occorre trasparenza” non suona forse come la campana a martello del Vaticano?

Con il Caimano ferito tutto è possibile. Ma se non darà ascolto alle voci del buon senso che gli indicano come unica via d’uscita le dimissioni immediate per poi giocarsi l’intera posta sul tavolo delle elezioni anticipate. Se, insomma, tenterà l’ultimo disperato arrocco trincerandosi dentro Palazzo Chigi con la sua maggioranza gonfiata da deputati comprati un tanto al chilo, allora toccherà all’opposizione uscire allo scoperto con un gesto forte, drammatico, senza precedenti come lo è il momento che viviamo. Se n’è già parlato: le dimissioni in blocco di tutti i gruppi e di tutti i parlamentari dell’opposizione. Camera e Senato già ridotte a enti inutili dall’inettitudine del governo non potrebbero sopravvivere. Un gesto estremo. Ma prepariamoci a ogni evenienza.

(Analisi ripresa da Il Fatto Quotidiano)


http://domani.arcoiris.tv/prepariamoci-a-tutto-un-gesto-estremo-dellopposizione-contro-lavvilimento-delle-istituzioni/